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Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme
Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
Oimè quante ferite,
Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio,
Formesissima donna!
Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia,
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.
Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Perché, perché? Dov'è la forza antica?
Dove l'armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica
0 qual tanta possanza,
Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? Non ti difende
Nessun dè tuoi? L'armi, qua l'armi: ío solo
Combatterà, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl'italici petti il sangue mio.
Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d'armi
E di carri e di voci e di timballi
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di *****
Come tra nebbia lampi.
Nè ti conforti e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L'itata gioventude? 0 numi, o numi
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.
Oh venturose e care e benedette
L'antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre
E voi sempre onorate e gloriose,
0 tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch'alme franche e generose!
Lo credo che le piante e i sassi e l'onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprir le invitte schiere
Dè corpi ch'alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l'Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
E sul colle d'Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salia,
Guardando l'etra e la marina e il suolo.
E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Toglicasi in man la lira:
Beatissimi voi,
Ch'offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
Nell'armi e nè perigli
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
Come si lieta, o figli,
L'ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e, duro?
Parea ch'a danza e non a morte andasse
Ciascun dè vostri, o a splendido convito:
Ma v'attendea lo scuro
Tartaro, e l'ond'a morta;
Nè le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l'aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.
Ma non senza dè Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia;
Tal fra le Perse torme infuriava
L'ira dè greci petti e la virtute.
Vè cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute,
E correr frà primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno;
vè come infusi e tintí
Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d'infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scriva.
Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell'imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
0 benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall'uno all'altro polo.
Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest'alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch'io per la Grecia i mororibondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
Così la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la, vostra duri.
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Chiare, fresche et dolci acque
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo, ove piacque,
(con sospir mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior che la gonna
leggiadra ricoverse con l'angelico seno;
aere sacro sereno
ove Amor cò begli occhi il cor m'aperse:
date udienza insieme
a le dolenti mie parole estreme.

S'egli è pur mio destino,
e 'l cielo in ciò s'adopra,
ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda,
qualche grazia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l'alma al proprio albergo ignuda;
la morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo,
ché lo spirito lasso
non poria mai più riposato porto
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e l'ossa.

Tempo verrà ancor forse
ch'a l'usato soggiorno
torni la fera bella e mansueta,
e là 'v'ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disiosa e lieta,
cercandomi; ed o pietà!
Già terra infra le pietre
vedendo, Amor l'inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercè m'impetre,
e faccia forza al cielo
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Dà bè rami scendea,
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra 'l suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo;
qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch'oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra e qual su l'onde,
qual con un vago errore
girando perea dir: "Qui regna Amore".

Quante volte diss'io
allor pien di spavento:
"Costei per fermo nacque in paradiso! ".
Così carco d'oblio
il divin portamento
e 'l volto e le parole e'l dolce riso
m'aveano, e sì diviso
da l'imagine vera,
ch'ì dicea sospirando:
"Qui come venn'io o quando?"
credendo esser in ciel, non là dov'era.
Da indi in qua mi piace
quest'erba sì ch'altrove non ò pace.

Se tu avessi ornamenti quant'ai voglia,
poresti arditamente
uscir del bosco e gir infra la gente.
O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme
Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
Oimè quante ferite,
Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio,
Formesissima donna!
Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia,
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.
Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Perché, perché? Dov'è la forza antica?
Dove l'armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica
0 qual tanta possanza,
Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? Non ti difende
Nessun dè tuoi? L'armi, qua l'armi: ío solo
Combatterà, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl'italici petti il sangue mio.
Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d'armi
E di carri e di voci e di timballi
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di *****
Come tra nebbia lampi.
Nè ti conforti e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L'itata gioventude? 0 numi, o numi
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.
Oh venturose e care e benedette
L'antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre
E voi sempre onorate e gloriose,
0 tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch'alme franche e generose!
Lo credo che le piante e i sassi e l'onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprir le invitte schiere
Dè corpi ch'alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l'Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
E sul colle d'Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salia,
Guardando l'etra e la marina e il suolo.
E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Toglicasi in man la lira:
Beatissimi voi,
Ch'offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
Nell'armi e nè perigli
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
Come si lieta, o figli,
L'ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e, duro?
Parea ch'a danza e non a morte andasse
Ciascun dè vostri, o a splendido convito:
Ma v'attendea lo scuro
Tartaro, e l'ond'a morta;
Nè le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l'aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.
Ma non senza dè Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia;
Tal fra le Perse torme infuriava
L'ira dè greci petti e la virtute.
Vè cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute,
E correr frà primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno;
vè come infusi e tintí
Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d'infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scriva.
Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell'imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
0 benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall'uno all'altro polo.
Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest'alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch'io per la Grecia i mororibondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
Così la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la, vostra duri.
O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme
Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
Oimè quante ferite,
Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio,
Formesissima donna!
Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia,
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.
Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Perché, perché? Dov'è la forza antica?
Dove l'armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica
0 qual tanta possanza,
Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? Non ti difende
Nessun dè tuoi? L'armi, qua l'armi: ío solo
Combatterà, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl'italici petti il sangue mio.
Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d'armi
E di carri e di voci e di timballi
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di *****
Come tra nebbia lampi.
Nè ti conforti e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L'itata gioventude? 0 numi, o numi
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.
Oh venturose e care e benedette
L'antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre
E voi sempre onorate e gloriose,
0 tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch'alme franche e generose!
Lo credo che le piante e i sassi e l'onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprir le invitte schiere
Dè corpi ch'alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l'Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
E sul colle d'Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salia,
Guardando l'etra e la marina e il suolo.
E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Toglicasi in man la lira:
Beatissimi voi,
Ch'offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
Nell'armi e nè perigli
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
Come si lieta, o figli,
L'ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e, duro?
Parea ch'a danza e non a morte andasse
Ciascun dè vostri, o a splendido convito:
Ma v'attendea lo scuro
Tartaro, e l'ond'a morta;
Nè le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l'aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.
Ma non senza dè Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia;
Tal fra le Perse torme infuriava
L'ira dè greci petti e la virtute.
Vè cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute,
E correr frà primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno;
vè come infusi e tintí
Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d'infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scriva.
Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell'imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
0 benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall'uno all'altro polo.
Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest'alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch'io per la Grecia i mororibondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
Così la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la, vostra duri.
Marco Raimondi May 2017
Idália:
Glórias! Que do abismo dão-se as profundezas
E o paradoxo de uma noite escura à luz do dia
Mas que, perto de meus olhos, brilha acesa
A minha admiração magna que por ti sentia!
Tu és tudo, mais que humano
Mas apenas minhas pálpebras podem únicas sentir teu oceano.

Gaia:
Se em teus olhos vês beleza que denominas
Doce Idália, tem-te cuidado ao mundo que te inflama
Pois se hoje cintilas vida, amanhã serão ruínas
Que sucumbirão ao destino em chamas
Mede teus louvores nos horizontes desta terra,
Pois a natureza de tudo é mãe, até da mais funérea guerra!

Idália:
Fria terra sincera e de índole intensa,
Dei minha miséria e caí em pranto
Sem Deus piedoso, a meu sofrer não há recompensa!
Que farei se deste jardim, as flores desejo tanto?
Esta ventura de nada é pedido inocente
Formosa Gaia, como tortura-me em teu semblante ardente!

Gaia:
Se mais luzes sentes deste Sol coroado,
Muito te erras, raia filha, solenemente!
Se destes vastos campos sentes o céu azulado,
Há de regraciar na sombra teu espírito verdadeiramente!
Que fique tua plena vida manchada por amor,
Te lembrarás, quando desatar teus prantos em inocente dor

Idália:
De meus verdejantes olhares pressinto
A agonia formosa que tu angustias em tudo ser
Pois tu és a umbra, acolhedor recinto
E desse despontam tuas misérias, quais tristemente hão de se manter
Decifro há pouco as águas que beijam as areias
E clareia-me o ímpeto dos dilúvios com fúria tua tão cheia

Gaia:
De fúrias acusa-me teu espanto,
Mas a ti digo, quanto vigor menos,
Para o caos não jogar-te aos mantos
E a lembrar-te o sublime, em tempos tão pequenos!
Decrete-me tuas aflições, tua desventura
Que dói em meu reflexo, que em teus olhos pouco dura?

Idália:
Não digo! Há dentro d'alma tanta vida
Que desconfio, de minha, estar trancada em gelosia
Como recamo no céu de uma ave perdida
Suspiro descorada ânsia qual me havia
Ah! Atravessa-me este calor de eras a centos
Mas inda vejo airoso sopro no troar eterno dos ventos

Gaia:
Diga a cantar-te poder que nos iriantes astros amontoaste
E do mundo, os fundamentos volvia
Destas águas de criação, tu já breve, encerraste?
Lembra-te do sol de primavera, qual no vácuo as solidões enchia
Que importa se és rasga enganadora?
Se de minhas mãos saíram as raízes desta terra traidora!?

Idália:
É o destino, luz que empalidece e minh'alma estua,
Quando campo mi'a pele palpita tua alvura,
Deste infinito toco sublimado nascer de nívea Lua
Posto que, no brilho desta, cuja noite torna pura
O presente esmaece e crio-me, do fato, fugidia errante,
Como o lírio qual coroa abre pobre, por grato instante
Os versos da primeira cena não estão por vez finalizados, inclusive estes que aqui estão podem sofrer mudanças consequentes de suas adaptações, porque foram pouco revisados. Tratam-se, portanto, apenas de alguns fragmentos.
tangshunzi Jul 2014
abiti da sposa corti Abbiamo sicuramente avuto la nostra parte di sorprendenti dettagli di nozze grazia le pagine di LSP .ma abbastanza positiva questa è la prima volta che abbiamo incontrato un cervo muschio.E 'uno dei molti dettagli moderni realizzati da The Horse Scrittura insieme con la pianificazione da parte in ogni caso e fiori + avorio verdi



di Lily e Società che dimostra rustico Wyoming gioca bene con un piccolo pizzico di mod .Date un'occhiata a ogni ultima immagine catturata dalla splendida Carrie Patterson Fotografia proprio qui.nella piena galleria .
Condividi questa splendida galleria ColorsSeasonsSummerSettingsTentedStylesModern

Qual è stata la tua visioneè ematrimonio erfectè?

Zee e ** incontrato a Jackson Hole e sempre discusso incredibile come un matrimonio a Jackson sarebbe.Per mostrare la bellezza di Jackson Hole ai nostri tanti amici e viaggiando da Georgia .Texas famiglia .e molti punti in mezzo era sicuro di essere incredibile .Volevo essere certo di mantenere le cose eleganti .ma abbastanza semplice da non distrarre dalla bella vista .

Quali sono tre dettagli unici che infuse nel vostro arredamento ?

mia madre e ** fatto tutta la pianificazione di noi stessi .che è qualcosa che entrambi amiamo fare !Cerco di emulare mia madre quando si tratta di pianificazione del partito e il layout .Ha il sapore più meraviglioso e l'occhio per la decorazione .e io sono così molto grato per tutto il suo aiuto durante la pianificazione .

Alcuni dettagli unici che infuse nostri cor désono :

I due Avorio Elk e Moose .la nostra torta nuziale Faux Bois con i miei genitori ' figurina Staffordshire in alto .gli alberi Aspen e le tovagliette Moss e fioriere .Mi è piaciuto molto anche il nostroè entler Luogo Carteèed i nostri numeri del tavolo .I nostri numeri della tabella sono stati etichettati in animali diversi ad ogni tavolo che rappresentava tutti i diversi vita selvaggia a Jackson Hole .

Qual è abiti da sposa 2014 stato il momento più memorabile ?

Durante la cena .il nostro fotografo Carrie tirato Zee e via per le fotografie al tramonto .Abbiamo camminato attraverso lo stagno .più vicino alle montagne e il nostro primo minuto solo tutto il giorno .Guardando indietro attraverso lo stagno alla bella tenda piena di persone più speciali nella nostra vita è un momento che non dimenticherò mai .

Che canzone hai fatto il tuo primo ballo a ?

Il nostro primo ballo : Crazy Love di Van Morrison padre / figlia Danza : Isnè èShe Lovely di Stevie Wonder

Cosaèse qualcosaèhai fatto fai da te ?

Mia nonna ha fatto la biancheria per i tavoli da cocktail .I quattro grandi Fioriere e la scaffalatura dietro ogni bar sono stati costruiti da un amico in Texas .Le tonalità appeso sopra la nostra pista da ballo abiti da sposa 2014 sono stati realizzati su misura solo per il nostro matrimonio .Avevamo laè èharlie Joseph 'ècappelli di carta fatti per i server di indossare durante il passaggio su cani e patatine fritte a tarda notte

Fotografia : Carrie Patterson Fotografia | Event Design : . The Horse Writing | Pianificazione : in ogni caso |Floral Design : Giglio E Azienda | Catering : Bistro Catering | Località : Jackson Hole Golf \u0026Tennis ClubCarrie Patterson fotografia è un membro del nostro Little Black Book .Scopri come i membri sono scelti visitando la nostra pagina delle FAQ .Carrie Patterson Fotografia VIEW
http://188.138.88.219/imagesld/td//t35/productthumb/1/4434735353535_391823.jpg
http://www.belloabito.com/goods.php?id=11
http://www.belloabito.com/abiti-da-sposa-corti-c-49
Moderna incontra rustico in Wyoming_abiti da sposa on line
Chiare, fresche et dolci acque
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo, ove piacque,
(con sospir mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior che la gonna
leggiadra ricoverse con l'angelico seno;
aere sacro sereno
ove Amor cò begli occhi il cor m'aperse:
date udienza insieme
a le dolenti mie parole estreme.

S'egli è pur mio destino,
e 'l cielo in ciò s'adopra,
ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda,
qualche grazia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l'alma al proprio albergo ignuda;
la morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo,
ché lo spirito lasso
non poria mai più riposato porto
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e l'ossa.

Tempo verrà ancor forse
ch'a l'usato soggiorno
torni la fera bella e mansueta,
e là 'v'ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disiosa e lieta,
cercandomi; ed o pietà!
Già terra infra le pietre
vedendo, Amor l'inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercè m'impetre,
e faccia forza al cielo
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Dà bè rami scendea,
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra 'l suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo;
qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch'oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra e qual su l'onde,
qual con un vago errore
girando perea dir: "Qui regna Amore".

Quante volte diss'io
allor pien di spavento:
"Costei per fermo nacque in paradiso! ".
Così carco d'oblio
il divin portamento
e 'l volto e le parole e'l dolce riso
m'aveano, e sì diviso
da l'imagine vera,
ch'ì dicea sospirando:
"Qui come venn'io o quando?"
credendo esser in ciel, non là dov'era.
Da indi in qua mi piace
quest'erba sì ch'altrove non ò pace.

Se tu avessi ornamenti quant'ai voglia,
poresti arditamente
uscir del bosco e gir infra la gente.
Chiare, fresche et dolci acque
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo, ove piacque,
(con sospir mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior che la gonna
leggiadra ricoverse con l'angelico seno;
aere sacro sereno
ove Amor cò begli occhi il cor m'aperse:
date udienza insieme
a le dolenti mie parole estreme.

S'egli è pur mio destino,
e 'l cielo in ciò s'adopra,
ch'Amor quest'occhi lagrimando chiuda,
qualche grazia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l'alma al proprio albergo ignuda;
la morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo,
ché lo spirito lasso
non poria mai più riposato porto
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e l'ossa.

Tempo verrà ancor forse
ch'a l'usato soggiorno
torni la fera bella e mansueta,
e là 'v'ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disiosa e lieta,
cercandomi; ed o pietà!
Già terra infra le pietre
vedendo, Amor l'inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercè m'impetre,
e faccia forza al cielo
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Dà bè rami scendea,
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra 'l suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo;
qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch'oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra e qual su l'onde,
qual con un vago errore
girando perea dir: "Qui regna Amore".

Quante volte diss'io
allor pien di spavento:
"Costei per fermo nacque in paradiso! ".
Così carco d'oblio
il divin portamento
e 'l volto e le parole e'l dolce riso
m'aveano, e sì diviso
da l'imagine vera,
ch'ì dicea sospirando:
"Qui come venn'io o quando?"
credendo esser in ciel, non là dov'era.
Da indi in qua mi piace
quest'erba sì ch'altrove non ò pace.

Se tu avessi ornamenti quant'ai voglia,
poresti arditamente
uscir del bosco e gir infra la gente.
The flower in the glass peanut bottle formerly in the
      kitchen crooked to take a place in the light,
the closet door opened, because I used it before, it
      kindly stayed open waiting for me, its owner.

I began to feel my misery in pallet on floor, listening
      to music, my misery, that's why I want to sing.
The room closed down on me, I expected the presence
      of the Creator, I saw my gray painted walls and
      ceiling, they contained my room, they contained
      me
as the sky contained my garden,
I opened my door

       The rambler vine climbed up the cottage post,
the leaves in the night still where the day had placed
them, the animal heads of the flowers where they had
arisen
           to think at the sun

      Can I bring back the words? Will thought of
transcription haze my mental open eye?
      The kindly search for growth, the gracious de-
sire to exist of the flowers, my near ecstasy at existing
among them
      The privilege to witness my existence-you too
must seek the sun...

      My books piled up before me for my use
      waiting in space where I placed them, they
haven't disappeared, time's left its remnants and qual-
ities for me to use--my words piled up, my texts, my
manuscripts, my loves.
      I had a moment of clarity, saw the feeling in
the heart of things, walked out to the garden crying.
      Saw the red blossoms in the night light, sun's
gone, they had all grown, in a moment, and were wait-
ing stopped in time for the day sun to come and give
them...
      Flowers which as in a dream at sunset I watered
faithfully not knowing how much I loved them.
      I am so lonely in my glory--except they too out
there--I looked up--those red bush blossoms beckon-
ing and peering in the window waiting in the blind love,
their leaves too have hope and are upturned top flat
to the sky to receive--all creation open to receive--the
flat earth itself.

      The music descends, as does the tall bending
stalk of the heavy blssom, because it has to, to stay
alive, to continue to the last drop of joy.
      The world knows the love that's in its breast as
in the flower, the suffering lonely world.
      The Father is merciful.

      The light socket is crudely attached to the ceil-
ing, after the house was built, to receive a plug which
sticks in it alright, and serves my phonograph now...

      The closet door is open for me, where I left it,
since I left it open, it has graciously stayed open.
      The kitchen has no door, the hole there will
admit me should I wish to enter the kitchen.
      I remember when I first got laid, H.P. gra-
ciously took my cherry, I sat on the docks of Prov-
incetown, age 23, joyful, elevated in hope with the
Father, the door to the womb wasopen to admit me
if I wished to enter.

      There are unused electricity plugs all over my
house if I ever needed them.
      The kitchen window is open, to admit air...
      The telephone--sad to relate--sits on the
floor--I haven't had the money to get it connected--

      I want people to bow when they see me and say
he is gifted with poetry, he has seen the presence of
the Creator
      And the Creator gave me a shot of his presence
to gratify my wish, so as not to cheat me of my yearning
for him.

                                   Berkeley, September 8, 1955
Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
È lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno cò suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dir questa
Solitudine immensa? Ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu sè queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ** fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
Credei ch'al tutto fossero
In me, sul fior degli anni,
Mancati i dolci affanni
Della mia prima età:
I dolci affanni, i teneri
Moti del cor profondo,
Qualunque cosa al mondo
Grato il sentir ci fa.

Quante querele e lacrime
Sparsi nel novo stato,
Quando al mio cor gelato
Prima il dolor mancò!
Mancàr gli usati palpiti,
L'amor mi venne meno,
E irrigidito il seno
Di sospirar cessò!

Piansi spogliata, esanime
Fatta per me la vita
La terra inaridita,
Chiusa in eterno gel;
Deserto il dì; la tacita
Notte più sola e bruna;
Spenta per me la luna,
Spente le stelle in ciel.

Pur di quel pianto origine
Era l'antico affetto:
Nell'intimo del petto
Ancor viveva il cor.
Chiedea l'usate immagini
La stanca fantasia;
E la tristezza mia
Era dolore ancor.

Fra poco in me quell'ultimo
Dolore anco fu spento,
E di più far lamento
Valor non mi restò.
Giacqui: insensato, attonito,
Non dimandai conforto:
Quasi perduto e morto,
Il cor s'abbandonò.

Qual fui! Quanto dissimile
Da quel che tanto ardore,
Che sì beato errore
Nutrii nell'alma un dì!
La rondinella vigile,
Alle finestre intorno
Cantando al novo giorno,
Il cor non mi ferì:

Non all'autunno pallido
In solitaria villa,
La vespertina squilla,
Il fuggitivo Sol.
Invan brillare il vespero
Vidi per muto calle,
Invan sonò la valle
Del flebile usignol.

E voi, pupille tenere,
Sguardi furtivi, erranti,
Voi dè gentili amanti
Primo, immortale amor,
Ed alla mano offertami
Candida ignuda mano,
Foste voi pure invano
Al duro mio sopor.

D'ogni dolcezza vedovo,
Tristo; ma non turbato,
Ma placido il mio stato,
Il volto era seren.
Desiderato il termine
Avrei del viver mio;
Ma spento era il desio
Nello spossato sen.

Qual dell'età decrepita
L'avanzo ignudo e vile,
Io conducea l'aprile
Degli anni miei così:
Così quegl'ineffabili
Giorni, o mio cor, traevi,
Che sì fugaci e brevi
Il cielo a noi sortì.

Chi dalla grave, immemore
Quiete or mi ridesta?
Che virtù nova è questa,
Questa che sento in me?
Moti soavi, immagini,
Palpiti, error beato,
Per sempre a voi negato
Questo mio cor non è?

Siete pur voi quell'unica
Luce dè giorni miei?
Gli affetti ch'io perdei
Nella novella età?
Se al ciel, s'ai verdi margini,
Ovunque il guardo mira,
Tutto un dolor mi spira,
Tutto un piacer mi dà.

Meco ritorna a vivere
La piaggia, il bosco, il monte;
Parla al mio core il fonte,
Meco favella il mar.
Chi mi ridona il piangere
Dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
Cangiato il mondo appar?

Forse la speme, o povero
Mio cor, ti volse un riso?
Ahi della speme il viso
Io non vedrò mai più.
Proprii mi diede i palpiti,
Natura, e i dolci inganni.
Sopiro in me gli affanni
L'ingenita virtù;

Non l'annullàr: non vinsela
Il fato e la sventura;
Non con la vista impura
L'infausta verità.
Dalle mie vaghe immagini
So ben ch'ella discorda:
So che natura è sorda,
Che miserar non sa.

Che non del ben sollecita
Fu, ma dell'esser solo:
Purché ci serbi al duolo,
Or d'altro a lei non cal.
So che pietà fra gli uomini
Il misero non trova;
Che lui, fuggendo, a prova
Schernisce ogni mortal.

Che ignora il tristo secolo
Gl'ingegni e le virtudi;
Che manca ai degni studi
L'ignuda gloria ancor.
E voi, pupille tremule,
Voi, raggio sovrumano,
So che splendete invano,
Che in voi non brilla amor.

Nessuno ignoto ed intimo
Affetto in voi non brilla:
Non chiude una favilla
Quel bianco petto in sé.
Anzi d'altrui le tenere
Cure suol porre in gioco;
E d'un celeste foco
Disprezzo è la mercè.

Pur sento in me rivivere
Gl'inganni aperti e noti;
E, dè suoi proprii moti
Si maraviglia il sen.
Da te, mio cor, quest'ultimo
Spirto, e l'ardor natio,
Ogni conforto mio
Solo da te mi vien.

Mancano, il sento, all'anima
Alta, gentile e pura,
La sorte, la natura,
Il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, o misero,
Se non concedi al fato,
Non chiamerò spietato
Chi lo spirar mi dà.
Marco Raimondi Jun 2017
Narrador:
O sol, fadando aos seus desmaios,
Em falta de luz aureolava
A face natura com seus distantes raios;
A areia qual aos clarões brilhava,
Neste sol d'agora dorme junto às figueiras
Às terras, aos vales, às distantes matas altaneiras

Gaia, que nas folhas de carvalho
Rompe a escuridão do céu vultuoso
E jorra em seu corpo as águas d'orvalho
Cobre-se, nas horas, d'um véu moroso;
Quando olham ao zênite, estrelas podem ver
Como áureo tesouro a na escuridão se irromper

Por este turvo azul sidéreo,
Entre as florestas tem-se o canto,
E dos troncos retorcidos, um mistério
Cuja noite predomina em seu encanto,
Cobrindo as nuvens do olhar,
Com seu etéreo resplendor lunar

Divagam as almas que dormem
E divagam as que repousam, sob o sentir de fantasia
As mais atormentadas, que de sonhos envolvem,
Veem nos vastos pesadelos dores de uma visão sombria;
Se em prantos, quando dormem, não podem culminar
Vezes quebram, em gritos e desatino, um longo calar

Destes prantos, cujas lágrimas caem nas profundezas
Ressoam em uma perdição do infinito
Entoando pérolas e cânticos desta proeza
Que é constituir, no espírito, o próprio mito;
Tudo não mais cintila, Gaia se cobre,
Os olhos da matéria se fecham após tanto obre

Enfim, fez-se da natureza uma realidade escrava
Na qual os dias, tão somente o tempo envenena
Mas Gaia, quando os serenos campos lava
A realidade, a mudança é ela quem condena,
À miséria dos povos, as glórias, a graça
Tudo é ao tempo, que a natureza trespassa

O lar dos sentires se silencia sob aurora
Todos desprezos, amores e outros enganos
Agrados, estupores, inclemências de outrora
Contiguamente extinguem-se, ao eclipsar dos raios meridianos
O som enleia as serranias noturnas
Sussurrando longínqua a madrugada soturna

É a glória do Destino! Ânsia abissal e dolorida,
Aprisionando a natureza em seu prazer de ilusão
Subitamente, em brumas, um estirpe que é vida
Das lembranças renovadas, canções d'uma visão
Logo o sol nascerá em amplitude
E clarear-se-á o dia em suas virtudes

Idália, a vaguear nos cúmulos imaginários
Vê as estrelas em umedecidos rochedos
A ecoarem devaneios visionários
As névoas quais, do delírio, são divinos segredos,
Empíreo enigma, perpetua-se em infinita imensidade,
Que há de trovejar os pensamentos na obscura eternidade
O sant'asinità, sant'ignoranza,
santa stoltezza e pia devozione,
qual sola puoi far l'anime si buone
che umano ingegno e studio non l'avanza.
Non giunge faticosa vigilanza
d'arte qualunque sia o invenzione,
né dei sapienti contemplazione,
al ciel dove ti edifichi la stanza.
Che vi val (curiosi) lo studiare,
voler sapere quel che fa la natura,
se gli astri son pur terra, fuoco e mare?
La santa asinità di ciò non cura,
ma con man giunte e in ginocchio vuol stare
aspettando da Dio la sua ventura.
Nessuna cosa dura
eccetto il frutto dell'eterna requie,
la qual ci dona Dio dopo le esequie.
Sola nel mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata cosa,
In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura;
Lieta no, ma sicura
Dall'antico dolor. Profonda notte
Nella confusa mente
Il pensier grave oscura;
Alla speme, al desio, l'arido spirto
Lena mancar si sente:
Così d'affanno e di temenza è sciolto,
E l'età vote e lente
Senza tedio consuma.
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
E di sudato sogno,
A lattante fanciullo erra nell'alma
Confusa ricordanza:
Tal memoria n'avanza
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe nome?
Cosa arcana e stupenda
Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
Qual dè vivi al pensiero
L'ignota morte appar. Come da morte
Vivendo rifuggia, così rifugge
Dalla fiamma vitale
Nostra ignuda natura;
Lieta no ma sicura,
Però ch'esser beato
Nega ai mortali e nega à morti il fato.
Cavaleiro de brilho vibrante
Andarilho sombrio e errante
Quanto pesa a balança do teu coração?
O mistério dos dias deixados pra trás
No critério dos vícios trocados por paz
Quanto custa pra ti o teu próprio perdão?

Se por mil trilhas correste a estrada
Se é de dois gumes a tua espada
Quem és tu, ó guerreiro, no grito da morte?
O corpo largado no escuro
Ou o brilho do espírito puro
Qual dos dois em tí é mais forte?

Na batalha tu és a prudência
Na vigílha és a paciência
Mas se choras, teu grito é atroz
E se a dor que te dói é tamanha..
Fiel companheira acompanha
Sabes bem o que vem logo após

A coragem que brande a espada
Degrau por degrau a escada
Do sonho que sonha acordar

Se  ergues teus olhos pra cima
Sabes bem qual é tua sina
Lutar, lutar e pra sempre lutar!
Solegrina Jul 2014
I.
Além das árvores, um novo dia:
vejo fractais nos galhos florescentes,
- veias noturnas da ilusão sombria -
ah, deitado nas folhas decadentes...

Tal qual a luz numa caverna fria
faz na água cristais resplandecentes,
tal qual o sol invade uma abadia
por sagrados vitrais iridescentes,

a Aurora, face pálida e iminente
da manhã, é sorvida pelo ouvido
e incendeia o carvão dos meus subsolos.

Meu último suspiro é a nascente
de um brilho mineral recém chovido
nas graminhas que brotam dos tijolos.


II.*
Uma coroa incandescente avisto.
O Sol sobe do ***** mais profundo
aos imponentes edifícios vítreos
preparando a manhã para o seu culto:

brotam seus fogos (dançarinos místicos)
do asfalto e das janelas - nosso mundo
foi abrasado pelo canto rítmico
de um fervor que se expande em absoluto!

Fecho os meus olhos e me entrego às chamas.
Afogam-me as fogueiras e o meu pranto
é abafado entre ressonâncias, raios

e fúnebres azuis. A essência humana
é consumida e ao passar dos anos
sou fuligem em becos solitários.
Irena Adler Nov 2018
Virginia Woolf una volte scrisse che " la bellezza ha due tagli, uno di gioia, l'altro di angoscia, che ci dividono il cuore".
La prima cosa che mi passa per la testa di fronte a tali parole è che l'uomo e la donna patiscono continuamente anche quando sono felici. Quel tipo di angoscia che non ti abbandona mai, la sofferenza di fronte alle scelte fatte o non fatte, il desiderio di evasione in un mondo utopico, la volontà di essere completamente liberi e stoici. I pregiudizi sono nostri amici-nemici. Tutto dipende da come gli accogliamo nelle varie circostanze della vita.
Se ci fosse Virginia Woolf qua con me sicuramente  si arrabbierebbe; " Come puoi essere così disordinata? Non mi stavi  per caso citando? E poi sembrava che stessi cercando  di spiegare qualcosa?! Salti da un argomento all'altro per caso. Se devi essere patetica, aggiungici un sarcasmo poetico".
Scusa ma non riesco ad organizzare ancora bene i miei pensieri. Fluttuano come la polvere nell'aria dopo che hai tentato inutilmente  di pulire un armadio vecchio. Scusa Virginia, mi conoscerai meglio con il passare del tempo.  " Ecco, brava! Che sia sempre con te lo spirito di Judith Shakespeare!"




Martedì 6.  

L'artista che corre per la strada e cerca la sua musa, la trova nello specchio che tende subito a scomparire.
Lui non si è accorto del Sole, vive di notte, disegna di notte, sogna di giorno, sogna di notte. Vive.
Non vede, lui osserva, ama l'impossibile, ama il futile eterno, sogna e vede ciò che non sarà mai compreso dagli altri. Lui trema e le sue mani tengono il pennello con un eccitazione che non si può comprendere ma solo provare. L'emozione di fronte ad un opera che deve appena essere creata, immortalata, eterna come la non-realtà.
L'immagine sussiste e lui sbatte le ali del sogno, disubbidisce alla società, gode ed ama l'incomprensibile, lo respira e vive di ciò.

Lo spessore della profondità è inabbattibile. L'acqua non ti fa annegare; è il pensiero. Non pensiamo, nuotiamo, è l'istinto a prevalere eppure abbiamo scelto di morire. Per questo motivo esiste l'altro, per annegarci o salvarci. Mantieni la dignità e vivi. E dunque sanguina.


Venerdì 9.

L'uomo e la donna. La donna e l'uomo. L'uomo ha sulla testa una lampadine e la donna uno sbattitore da cucina. La natura del cane è quella di abbaiare. La natura della specie umana è quella di riprodursi. Eppure abbiamo la necessità di creare ed inventare, non riusciamo a farne a meno. Sentiamo un bisogno insostenibile di portare fuori ciò che sta dentro. Siamo continuamente alla ricerca dell'essere presenti, passati e futuri. La gioia e l'angoscia d' esistere ci turba le anime. Ci chiediamo sempre qual'è lo scopo del fare e di muoverci. Dove sta il dono o la maledizione di essere stati scaraventati sulla palla ovale che gira intorno a se stessa ed intorno ad una palla ancora più grande che ci mantiene in vita. E' questo il senso? Dipendere dalla luce del sole oppure  soltanto dall'acqua e dal pane?
Dove sta l'essere in questa stanza? E' forse disteso su questo letto a scrivere? Forse.
Oppure si trova proprio nel pensiero che crea quel' atto?
L'esistenza umana è ridotta ad anni di vita, non secoli. Ciò che ci è stato dato l'abbiamo preso ed appreso, ci siamo impossessati ed ora fa parte di noi. Ci è stata data la vita dalla Natura ed essa ci ha pure delimitati.
" Ecco, voi siete parte di me, vivete e morite". Se è così noi dipendiamo gli uni dagli altri, non ha senso vivere soli sulla terra, abbandonati da nessuno. Non possiede alcuna logica.

Mercoledì 33.

Il mare non è sempre stato blu; una volta era violaceo e tutti gli animali potevano entrare nell'acqua senza dove trattenere il fiato. Si respirava nell'acqua, si stava bene. Soltanto quando arrivò l'uomo e ci mise il piede in acqua, essa si contrasse e divenne blu, scura e profonda. Il mare scelse di non dare accesso all'uomo e a quel diverso tipo di intelletto che si preparava a conquistare tutto ciò che mai gli potrà appartenere interamente. Per colpa sua le specie che abitavano la terra ferma dovettero separarsi da quelle marine.
Più l'uomo diventava avido ed egoista più il mare diventava profondo e salato. Non voleva finire nella bocca di quel animale strano che camminava su due stecchi con cinque rami piccoli, ben allineati ma sporchi. L'uomo costrinse il mare a piangere e non capì, non poteva capirlo poichè ora era lui il padrone.
umi kara Jul 2018
cada momento passado na realidade
me dá mais certeza
de que te inventei alguns anos atrás
te coloquei numa gaiola de sonhos ansiados
da qual conseguiste escapar,
levando teus pés por um tapete de estrelas
pra chegar até mim.

desejos infinitos que cultivei antes do acontecimento de ti
(aqueles que pensei que pra sempre seriam fantasmas na minha mente)
agora desabrocham nas palmas de minhas mãos
toda vez que encosto em ti,
deságuam nos meus calafrios
toda vez que encostas em mim,
e vibram na nossa volta
toda vez que estamos juntas.

(sentimento doce esse de se construir
uma em volta da outra
e se conhecer
uma em volta da outra
e de dar voltas uma em volta da outra
incessa e incansavelmente.)

me sinto mar revolto de profundeza apaziguada quando deito contigo.
nossos movimentos como ondas que quebram uma em cima da outra e chiam num sussurro explosivo;
gemidos que vêm de furacões de dentro do peito
transbordam na curva do lábio
e derramam no lençol
como mel pingando da colmeia.

a maneira na qual esperamos o verão dobrar a esquina,
nos ocupamos achando maneiras de nos esquentar
dissertando uma sobre a outra
pelo fio invisível do telefone
o qual não nos separa e não mede distância:
quando estou perto de ti estou perto de mim mesma
e de toda minha luz
que se mistura com tua luz
e faz de nós sol.
Esta crônica é resultado de uma conversa que eu teria com o velho companheiro de lutas Chico da Cátia. Era um companheiro de toda hora, sempre pronto a dar ajuda a quem quer que fosse. Sua viúva, a Cátia, é professora da rede pública estadual do Rio de Janeiro e ele adquiriu esse apelido devido a sua obediência a ela, pois sempre que estávamos numa reunião ou assembleia ou evento, qualquer coisa e ela dissesse "vamos embora!", o Chico obedecia, e, ao se despedir dizia: com mulher, não se discute. Apertava a mão dos amigos e partia.

Hoje, terceiro domingo do janeiro de 2015, estou cercado. Literalmente cercado. Cercado sim e cercado sem nenhum soldado armado até aos dentes tomando conta de mim. Não há sequer um helicoptero das forças armadas americanas sobrevoando o meu prédio equipado com mísseis terra-ar para exterminar-me ao menor movimento, como está acontecendo agorinha em algum lugar do oriente asiático. Estou dentro de um apartamento super ventilado, localizado próximo a uma área de reserva da mata atlântica, local extremamente confortável, mas cercado de calor por todos os lados, e devido ao precário abastecimento de água na região, sequer posso ficar tomando um banhozinho de hora em hora, pois a minha caixa d'água está pela metade. Hoje, estou tão cercado que sequer posso sair cidade a fora, batendo pernas, ou melhor, chinelos, pegar ônibus ou metrô ou BRTs e ir lá na casa daquele velho companheiro de lutas Chico da Cátia, no Morro do Falet, em Santa Tereza, para pormos as ideias em dia. É que a mulher saiu, foi para a casa da maezinha dela e como eu tinha dentista ontem, não fui também e estou em casa, cercado também pelo necessário repouso orientado pelo médico, que receitou-me cuidados com o calor devido ao dente estar aberto.

Mas, firulas à parte, lembro-me de uma conversa que tive com o Chico após a eleição do Tancredo pelo colégio eleitoral, que golpeou as DIRETAS JÁ, propostas pelo povo, na qual buscávamos entender os interesses por detrás disso, uma vez que as eleições diretas não representavam nenhuma ameaça ao Poder Burguês no Brasil, aos interesses do capital, e até pelo contrário, daria uma fachada "democrática ao país" Nessa conversa, eu e o Chico procuramos esmiuçar os segmentos da burguesia dominante no Brasil, ao contrário do conceito de "burguesia brasileira" proposto pela sociologia dos FHCs da vida. Chegamos à conclusão de que ela também se divide, tem contradições internas e nos seus embates, o setor hegemônico do capital é quem predominar. Nesse quesito nos detivemos um bom tempo debatendo, destrinçando os comportamento orgânicos do capital, e concluímos que o liberalismo, fantasiado de neo ou não, é liberal até o momento em que seus interesses são atingidos, muitas vezes por setores da própria burguesia; nesses momentos, o setor dominante, hegemônico, lança mão do que estiver ao seu alcance, seja o aparelho legislativo, o judiciário e, na falta do executivo, serve qualquer instrumento de força, como eliminação física dos seus opositores, golpe de mídia ou golpe de estado, muitas vezes por dentro dos próprios setores em disputa, como se comprovou com a morte de Tancredo Neves, de Ulisses Guimarães e de uma série de próceres da burguesia, mortos logo a seguir.

Porém, como disse, hoje estou cercado. Cercado por todos os lados, cercado até politicamente, pois os instrumentos democratizantes do meu país estão dominados pelos instrumentos fascistizantes da sociedade. É que a burguesia tem táticas bastante sutis de penetração, de corrosão do poder de seus adversários e atua de modo tão venal que é quase impossível comprovar as suas ações. Ninguém vai querer concordar comigo em que os setores corruptos da esquerda sejam "arapongas" da direita; que os "ratos" que enchem o país de ONGs, só pra sugar verbas públicas com pseudo-projetos sociais, sejam "arapongas" da direita; que os ratazanas que usam a CUT, o MST, o Movimento por Moradia, e controlam os organismos de políticas sociais do país sejam "arapongas" da direita; que os LULAS, lulista e cia, o PT, a Dilma etc, sejam a própria direita; pois do contrário, como se explica a repressão aos movimentos sociais, como se explica a criminalização das ações populares em manifestações pelo país a fora? Só vejo uma única resposta: Está fora do controle "DELLES!"

Portanto, como disse, estou cercado. Hoje, num domingo extremamente quente, com parco provimento de água, não posso mais, sequer, ir à casa do meu amigo Chico da Cátia. Ela, já está com a idade avançada, a paciência esgotada de tanto lutar por democracia, não aguenta mais sair e participar dos movimentos sociais, e eu sou obrigado a ficar no meu canto, idoso e só, pois o Chico já está "na melhor!"; não disponho mais dele para exercitar a acuidade ideológica e não me permitir ser um "maria vai com as outras" social, um alienado no meio da *****, um zé-niguém na multidão, o " boi do Raul Seixas": "Vocês que fazem parte dessa *****, que passa nos projetos do futuro..."  Por exemplo, queria conversar com ele sobre esse "CASO CHARLIE HEBDO", lá da França, em que morreu um monte de gente graças a uma charge. Mas ele objetaria; "Uma charge?!" É verdade. Não foi a charge que matou um monte de gente, não foi o jornal que matou um monte de gente, não foram os humoristas que mataram um monte de gente. Assim como na morte de Tancredo Neves e tantos membros da própria burguesia no Brasil, quem matou um monte de gente é o instrumento fascistizante da sociedade mundial, ou seja, a disputa orgânica do capital, a concorrência entre o capital ocidental e o capital oriental, que promove o racismo e vende armas, que promove a intolerância religiosa e vende armas, que promove as organizações terroristas em todo o mundo e vende armas; que vilipendia as liberdades humanas intrínsecas, pisoteia a dignidade mais elementar, como o direito à crença, como o respeito etnico, a liberdade de escolhas, as opções sexuais, e o que é pior, chama isso de LIBERDADE e comete crimes hediondos em nome da Liberdade de Imprensa, da Liberdade de Expressão,  a ponto de a ministra da justiça francesa, uma mulher, uma negra, alguém que merece respeito, ser comparada com uma macaca, e ninguém falar nada. Com toda certeza do mundo, eu e o Chico jamais seremos CHARLIE....  

Se eu fosse pintor o amor queria pintar
O pintaria com as cores de verde e azul
Azul seria representaria liberdade que dá o mar,
E no verde estaria o amor que ninguém calcule!

Se fosse matemático o amor seriam somas,
Seriam somas de sentimentos sempre bons,
E se a arte fosse a musica imitaria seus sons,
Entregar os sentimentos sem quaisquer retomas!

Como seria bom encarar todas as profissões,
Dedica-las ao amor e viver todas as emoções,
Construindo em cada dia coisas das boas vibrações,
Sentir cá dentro o carinho nos nossos corações!

Mas o que é isto que é o amor?
Qual a cor e qual o som que tem esse calor?
O amor é a dissolução de qualquer dor,
São cores e sons que se apresentem com glamour!

E assim, que em todos os corações haja um ninho,
Como o deva haver também dentro de qualquer lar,
Porque o ninho é pequenino e há grande bem-estar
Que o amor nos siga sempre por qualquer caminho!

Autor: António Benigno
Código de Autor: 2014.09.07.13.21.08.05@
III

Qual in colle aspro, al imbrunir di sera
L’avezza giovinetta pastorella
Va bagnando l’herbetta strana e bella
Che mal si spande a disusata spera
Fuor di sua natia alma primavera,
Cosi Amor meco insu la lingua snella
Desta il fior novo di strania favella,
Mentre io di te, vezzosamente altera,
Canto, dal mio buon popol non inteso
E’l bel Tamigi cangio col bel Arno
Amor lo volse, ed io a l’altrui peso
Seppi ch’ Amor cosa mai volse indarno.
Deh!  foss’ il mio cuor lento e’l duro seno
A chi pianta dal ciel si buon terreno.
Lugar cativo
Onde me deito cativante
E abro a gargante e choro.
Nao darei mais o Tempo
Nem reconciliarei menos o perdao.
Somos os dias contados pelos dedos
E quanto menos tenho menos quero ter.
Frio com febre estou
Doente dos ossos, raspando-os
Ate ao po se extinguirem
e absorvo-os pela narina mais próxima
Directo ao cérebro que me permiti vender
Indirecto ao coração que morto 'e aos poucos.
Faca de dois gumes afiada na pedra
E enrolada no peito cada dia mais,
Milimetro a Milimetro
Para que a dor seja minuciosamente
Mental.
Fatal.
E da paisagem verdejante
Onde passeio as pernas pesadas
Do chumbo das balas perdidas,
Com que te matei,
Absorvo o bicho por entre o jardim
E a natureza para mim nao 'e mais
Que o conteúdo do bolo que cozinhei
Para esquecê-lo.
Cativo ligar
Que permaneço cativa
Húmido que me constipa os dentes
Como a agua gelada com que tomo banho
E nem assim acordo.
Não sei se esta Dor caberá
nas milhares de palavras que defecarei
Ate este dia tardar
E a minha vida por fim, acabar.
Não 'e de minha dor que escrevo,
'e a tua que me percorre este sangue anémico.
Consideras-te feliz que nem um porco
Que na lama chafurda a couraça.
E eu com esta dor de costas do peso
De trazer o Mundo nos bolsos
E por cada morte que deus padece
Um sopro no coração me oferece.
Dor, dor, dor, dor, dor, dor
Qual Jesus Cristo, o redentor.
II

Donna leggiadra il cui bel nome honora
L’herbosa val di Rheno, e il nobil varco,
Ben e colui d’ogni valore scarco
Qual tuo spirto gentil non innamora,
Che dolcemente mostra si di fuora
De suoi atti soavi giamai parco,
E i don’, che son d’amor saette ed arco,
La onde l’ alta tua virtu s’infiora.
Quando tu vaga parli, O lieta canti
Che mover possa duro alpestre legno,
Guardi ciascun a gli occhi ed a gli orecchi
L’entrata, chi di te si truova indegno;
Gratia sola di su gli vaglia, inanti
Che’l disio amoroso al cuor s’invecchi.
Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l'insueto allor gaudio ravviva
Quando per l'etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso dè Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo,
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova trà nembi, e noi la vasta
Fuga dè greggi sbigottiti, o d'alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell'onda.
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l'empia
Sorte non fenno. À tuoi superbi regni
Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L'aprico margo, e dall'eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
Dè colorati augelli, e non dè faggi
Il murmure saluta: e dove all'ombra
Degl'inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,
E preme in fuga l'odorate spiagge.
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
Dell'indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
Dè celesti si posa. Oh cure, oh speme
Dè più verd'anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto.
Morremo. Il velo indegno a terra sparto
Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator dè casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D'implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s'invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l'atra notte, e la silente riva.
Wörziech May 2013
Salgadas foram as gotas caídas em um plano liso e infinito. Um terreno sombrio, desconhecido, no qual meus sons foram abafados e reprimidos em exatos instantes por mim vividos de plenitude e silêncio incalculáveis, desconectados de qualquer linha cronológica pensável. Porções muito densas de um líquido que levava em si, vida e morte. Naquele terreno indescritível, iam se acoplando as gotas que de mim pareciam sair. Inicialmente desarmonizadas, logo que fui anexado àquele universo caótico, vi aquelas gotas, que em mim causavam muito temor, se arranjarem de tal forma que eu pude distinguir dois círculos. Globos na verdade. Eram, no inicio, desfocados, sem cores e sem brilho, mas ao som de um grande ruído, eu pude, de todas as perspectivas, ver, ouvir e sentir uma implosão de existência do meu próprio eu, uma implosão que transformou aqueles pequenos desencorajados globos em grandiosas esferas reluzentes, ardentes em chamas verdes, de beleza e espiritualidade que eu ou qualquer outro jamais poderá representar por via de meras palavras. Neste foi o instante em que eu perdi a capacidade de distinguir como bem estava acostumado e, o que passava a ser, agora, era uma chama somente; uma chama que lentamente me consumiu por completo, fazendo-me parte dela. Neste vagaroso instante eu consegui assimilar que, aos poucos, tudo o que eu passava a sentir, era ela. Tudo o que eu via, era ela. Tudo o que eu era, era ela.  E, dando continuidade a sua essência, acabou por consumir também todas as constelações, todos os planetas, abrangendo sistemas solares, galáxias inteiras, mas sem se esquecer de qualquer fragmento, pequenino ou grande; ao consumir todos eles, como se em um lapso atemporal, eu pude ver, agora de outra forma, o processo reverso ao daquele que eu acabara de descrever. Fui guiado suavemente, mas com uma velocidade igual à de cargas elétricas gerando e configurando pensamentos; de uma forma indescritível, sendo levado para uma linha tênue e tremida no horizonte; conhecia todos os corpos celestes pelos quais passava. Via a vida nascendo em planetas e bilhões de anos sendo contados, de formas e linguagens variadas, nos calendários daqueles que neles viviam. Chegando mais próximo daquela linha, por mim tida como infinita, tudo passava a ter uma textura esplêndida, gerando uma vibração de cores frias, agradáveis e aconchegantes. Mal pude perceber quando me perdi deste instante. Foi como em um segundo perpétuo e duradouro. Ao seu fim, o abrir de minhas pálpebras revelaram a mim um olhar surreal. Como em uma sequência de slides, eu vi pupilas sendo dilatas, servindo-me com uma cor suave indescritível, olhos que, como se em chamas, provocavam em si próprios, oscilações de cores, contraste e brilho. Olhos transcendentais e onipresentes, não pertencentes ao meu mundo, mas ao contrário, o meu ser, prazerosamente entregue a eles. Olhos para além da vida ou da morte, que carregam em si o meu eu e o todo mais.
And Dec 2015
Me vejo longe de todo amor que habita
Não devido a solidão
Mas a exaustidão da procura
Da solidão que me conforta e me prende

A cada dia me sinto mais doente
Qual seria a solução?
Um novo amor para me prender em vão...
As grades dessa razão

Não se substitui uma dor por outra
Aprende a se cuidar e cultivar
Mas e quando algo deixa de ser mútuo
De ser puro

Qual caminho seguirei?
um desabafo sobre um coração partido
Celebro o medo através da poesia
O medo, não do mundo para o qual fugi,
Mas do inevitável retorno àquele que deixei para trás.
Celebro a despedida a Lisboa,
Menina e moça dos meus olhos,
De juventude esvaída.
Outrora casa e ser e essência
Perdeu a cidade a capacidade de amar
E de acolher amantes na sua calçada gasta
E assim, perdi eu a capacidade de a sentir um lar.
Desprendo-me, feroz, do seu abraço
Choro só a beleza de não lá ser mais
E aprendo (ou tento) amar outras fachadas.
Tudo o que em si importava -
o calor dos gestos, a poesia -
Morreu em mim.
Fiz do meu berço uma cidade vazia.
Assim como eu... milhões
Sou só e somente mais um
Deixem-me viver em meu universo complexo
Cada qual com o seu, e seremos felizes
Mas não me venham a se queixar
Não se debatam sobre mim
Se quero o intangível...
é porque posso vê-lo
Rogo: vá cuidar de seu universo complexo!
Se sou tão complexo...
É Porque sei quem sou:
Eu sou o grande observador
Eu sou o homem
E enquanto os homens viverem sobre a Terra
e enquanto os rios correrem limpos ou sujos
Enquanto minha expansão se expande
continuarei observando, sendo eu... um homem. Um observador. Um universo complexo!
Sah ein Mädchen ein Röslein stehen
Blühte dort in lichten Höhen
Sprach sie ihren Liebsten an
ob er es ihr steigen kann

Sie will es und so ist es fein
So war es und so wird es immer sein
Sie will es und so ist es Brauch
Was sie will bekommt sie auch

Tiefe Brunnen muss man graben
wenn man klares Wasser will
Rosenrot oh Rosenrot
Tiefe Wasser sind nicht still

Der Jüngling steigt den Berg mit Qual
Die Aussicht ist ihm sehr egal
Hat das Röslein nur im Sinn
Bringt es seiner Liebsten hin

Sie will es und so ist es fein
So war es und so wird es immer sein
Sie will es und so ist es Brauch
Was sie will bekommt sie auch

Tiefe Brunnen muss man graben
wenn man klares Wasser will
Rosenrot oh Rosenrot
Tiefe Wasser sind nicht still

An seinen Stiefeln bricht ein Stein
Will nicht mehr am Felsen sein
Und ein Schrei tut jedem kund
Beide fallen in den Grund

Sie will es und so ist es fein
So war es und so wird es immer sein
Sie will es und so ist es Brauch
Was sie will bekommt sie auch

Tiefe Brunnen muss man graben
wenn man klares Wasser will
Rosenrot oh Rosenrot
Tiefe Wasser sind nicht still
--
http://www.youtube.com/watch?v=rhi4EMTLZ1A

Translation:
A girl saw a little rose
It bloomed there in bright heights
She asked her sweetheart
if he could fetch it for her

She wants it and that's fine
So it was and so it will always be
She wants it, so it's needed;
Whatever she wants she gets

Deep wells must be dug
if you want clear water
Rose-red, oh Rose-red
Deep waters don't run still

The boy climbs the mountain in torment
He doesn't really care about the view
Only the little rose is on his mind
to bring it to his sweetheart

She wants it and that's fine
So it was and so it will always be
She wants it and so it's needed
Whatever she wants she gets

Deep wells must be dug
if you want clear water
Rose-red, oh Rose-red
Deep waters don't run still

At his boots, a stone breaks
Doesn't want to be on the cliff anymore
And a scream lets everyone know
Both are falling to the ground

She wants it and that's fine
So it was and so it will always be
She wants it and so it's needed;
Whatever she wants she gets

Deep wells must be dug
if you want clear water
Rose-red, oh Rose-red
Deep waters don't run still
Matthieu Martin Jul 2015
Às vezes me pergunto qual é o sabor do teu beijo.
Como é a sensação de colocar a mão sobre tua cabeça e sentir o deslizar dos teus cabelos entre meus dedos...
se tua língua é tão intensa quanto teu olhar,
se é tão habilidosa com ela quanto é com as palavras.
Como deve ser o toque dos teus braços ao cercar o meu corpo..
Imagino se o calor do teu hálito é capaz de acalentar uma alma que a saudade já congelou...
minha mente se perde em ilusões, sonhos, devaneios;
me pergunto se o que dizem sobre escorpião é verdade...
Wörziech Nov 2014
Um medíocre seixo formado por um aglomerado espalhafato de pulgas flutua e veleja por oceanos saturados de desaproveitas lágrimas amarelo-chumbo nas mais desoladas camadas de sua privativa órbita, em uma intersecção de múltiplos limbos supra-reais, bem entre dois muros de um corredor estreito, escuro e corroborado pelo lodo - sobre o qual, cabe-se dizer, resta imóvel uma pequena patrola laranja de brinquedo, esquecida.

Inevitável e também incoerente,
Continuar a ser (peleja)

"Um equívoco desmistificado; uma perturbação"

Os ideais se contrapõem aos já extintos/
Sedimentos navegam eternamente sem rumo/
Inexprimível Sensível/
O oculto que assim permanece/

Pedregulho pulguento perpetuamente a protuberar-se na imensidão dos mares de um ópio por si próprio proferido, ofendendo e perseguindo leis individuais de universo, causando o óbito comum a todos os parciais ínfimos pares de não-instantes, parados.

Estarrece-se o lógico pela busca do externo consenso, indiferente a todo gotejar de pia:
fundir-se pela semelhança!
tornar-se pela simples analogia!

****-Sutra; ****-Isso.
****-Tundra; ****-Aquilo.
**** Sapiens
**** Gênio

Entrementes,
através de seus poros abertos pela alta temperatura,
sente por seu corpo, de muitos corpos,
a circulação efervescente do mais intenso calor,
o sopro de vida hebraico de um cosmos também filisteu,
(de tudo aquilo que pode até não estar de todo vivo - ou de todo morto);
contradição de um todo-devir também carrasco, mas, em essência, todo-devir de um sorrateiro espaço de tempo do bater de asas de um besouro não mais vivo e nunca catalogado, capturado somente por um pequenino ponteiro vermelho de segundos de um relógio velho, possuído,  em circunstâncias afortunas, por uma avó - ainda hoje vivente - de um tempo atormentado pela tirania e propositalmente esquecido, a proferir não só eternidades-nascedouros e cede ansiada, como, de igual infinita intensidade, a inferir a sublimidade em poderios majestáticos estruturados na mais esplendorosa magia humana, a sua despropria linguagem;

...se apercebe o amontoado, tudo, menos genérico, mesmo não sendo, agora, inseto, nem humano, apenas animal,

Que
Mantêm-se
em correnteza,
Metamorfose lavareda.
Nunca disse-lhe que em nada creio,
é certo que tenho fé em todas as coisas
e, deveras, dou nenhuma importância a elas.
Todos os caminhos tem ao fim  peso semelhante
pois serão trilhados pelos mesmos andarilhos.
O percurso não importa, e muito menos o destino
tendo em vista que a chegada é o ponto de partida.
As experiências são, em suma, meu objeto de valor.
A existência é algo simples, e criei o hábito de não mais dar-lhe sentido,
pois as conjecturas propostas são ,de fato, uma perda de tempo,
tempo no qual também não mais tenho me questionado,
pois acredito que os dias são uma besteira,
vejo agora apenas uma continuidade de movimentos
e não mais páginas de calendários, o que me proporcionou um entediante hábito de insonia.
E quanto ao resto da humanidade, digo que é bem possível que exista, mas não tenho certeza.
Por fim, não lhe peço nada,
pois, sinceramente, não me importo.
Mafe Oct 2012
“Compus uma canção para dizer:
‘Amo-te descontroladamente!’
De ações tangentes; da equação complexa que é te amar.
E mesmo pacificamente;
Minha alma sem ti, não pode se encontrar.

Como contra o céu paradisíaco que constrói o tempo e investe areia contra mim;
Mesmo no pior dos casos, nos meus últimos gritos, altissonante direi:
’ EU VIM!’

Me encontre na beira de meu coração,
na ponte que causa essa estranha paixão;
E direi que não sabia que um anjo poderia possuir tão rápido todo meu sentimento assim.

Vem que em laços de eternos amantes, cada consoante, dirá e recitará meu amor celeste;
Rolando em campos grandes e em flores campestres

O céu sussura uma sinfonia recém escrita para o nosso caso infindável;
E jamais ouvi a voz dos anjos num tom tão amável

As lágrimas que derramo não reclamam de nenhuma tristeza desconhecida;
Mas sim da alegria pela qual minha alma foi tingida

Novamente nos encontraremos eternamente e direi mais um trilhão de vezes:
’ Amo-te descontroladamente!”
Rafael quer poesia
queria
Rafael quer mulher
filofagia
Rafael ia
revel
para onde, Rafael?
fobia
mania
vagabunda teimosia
sentia!
agora, qual travessia?
será que seria?
a ver...
Direitos reservados
palavra à noite cantada
co'a manhã se desfaz
em palavra granulada:
matinal achocolatado.

Já não sente a poesia
tal qual ressoara clara
na madrugada alta

- Et pourtant, fala!

Será a escrita fogo fátuo?
marca gravada em gado,
ou cardo na sua pata?

(O poeta-boi rumina
mas não é vaca sagrada).

Estrela cadente, cabala:
meros fogos de artifício
ruidosos melros da fala:
na calma manhã se calam.
De "Cadernos de Sizenando", Goiânia, 2014, p.49
Triste há de ser; curto e doce e terno.
Que seja breve dizendo tudo.

Que seja doce confeito de manhã eterna.
Que seja belo qual água de cachoeira.
Que a pureza o invada: morte indolor.
Da febre se dissipe como quem à tempestade vence.
**
Fonte: Cadernos de Sizenando, vol. II, 2016
Julia Jaros Nov 2016
Desculpa.
Eu estrago o perfeito.
Acabo com o infinito.
Transformo a realidade em mito.

Digo as palavras erradas mesmo dizendo as certas.
Escrevo cartas rasgadas e as envio abertas.

Rabisco palavras bonitas.
E no lugar coloco feridas.
Oras
Você vai se acostumar.
No meu mar eu vou te afogar.

Você tenta me erguer e eu te puxo.
Tenta compreender e eu fujo.
Tenta fugir e eu rujo.
Sou um animal selvagem e sujo.

Eu cresci errado.

Eu sorri errado.

Eu menti errado.

Eu senti errado.

Mas me conta, qual a sensação de ser amado?
Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l'aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! Allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l'aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre dè servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.
Né mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sé, ma perché tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol dè malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch'** appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l'allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell'arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M'era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! Sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m'avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell'imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d'affanno.
E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
Dè miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai cò silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia! ) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
O Nerina! E di te forse non odo
Questi luoghi parlar? Caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond'eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
che'n mille dolci nodi gli avolgea,
e'l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi, ch'or ne son si scarsi;

e il viso di pietosi color'farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i'che l'esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di subito arsi?

Non era l'andar suo cosa mortale,
ma d'angelica forma, e le parole
sonavan altro, che pur voce umana.

Uno spirito celeste, un viso sole
fu quel ch'i'vidi; e se non fosse or tale,
piaga per allentar d'arco non sana.

— The End —