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Improvviso il mille novecento
cinquanta due passa sull'Italia:
solo il popolo ne ha un sentimento
vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
la modernità, benché sempre il più
moderno sia esso, il popolo, spanto
in borghi, in rioni, con gioventù
sempre nuove - nuove al vecchio canto -
a ripetere ingenuo quello che fu.

Scotta il primo sole dolce dell'anno
sopra i portici delle cittadine
di provincia, sui paesi che sanno
ancora di nevi, sulle appenniniche
greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
i nuovi colori delle tele, i nuovi
vestiti come in limpidi roghi
dicono quanto oggi si rinnovi
il mondo, che diverse gioie sfoghi...

Ah, noi che viviamo in una sola
generazione ogni generazione
vissuta qui, in queste terre ora
umiliate, non abbiamo nozione
vera di chi è partecipe alla storia
solo per orale, magica esperienza;
e vive puro, non oltre la memoria
della generazione in cui presenza
della vita è la sua vita perentoria.

Nella vita che è vita perché assunta
nella nostra ragione e costruita
per il nostro passaggio - e ora giunta
a essere altra, oltre il nostro accanito
difenderla - aspetta - cantando supino,
accampato nei nostri quartieri
a lui sconosciuti, e pronto fino
dalle più fresche e inanimate ère -
il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

E se ci rivolgiamo a quel passato
ch'è nostro privilegio, altre fiumane
di popolo ecco cantare: recuperato
è il nostro moto fin dalle cristiane
origini, ma resta indietro, immobile,
quel canto. Si ripete uguale.
Nelle sere non più torce ma globi
di luce, e la periferia non pare
altra, non altri i ragazzi nuovi...

Tra gli orti cupi, al pigro solicello
Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
di Toscana, con strilli di rondinini:
Hor atorno fratt Helya! La santa
violenza sui rozzi cuori il clero
calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
feroce nel feudo provinciale l'Impero
da Iddio imposto: e il popolo canta.

Un grande concerto di scalpelli
sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
suona, giganteggiando il travertino
nel nuovo spazio in cui s'affranca
l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
jersera... ripete con l'anima spanta
nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
resta nel popolo. E il popolo canta.

Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
e trepidi nel vento napoleonico,
all'Inno dell'Albero della Libertà,
tremano i nuovi colori delle nazioni.
Ma, cane affamato, difende il bracciante
i suoi padroni, ne canta la ferocia,
Guagliune 'e mala vita! In branchi
feroci. La libertà non ha voce
per il popolo cane. E il popolo canta.

Ragazzo del popolo che canti,
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
è vero, cantando, l'antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare.

Nella tua incoscienza è la coscienza
che in te la storia vuole, questa storia
il cui Uomo non ha più che la violenza
delle memorie, non la libera memoria...
E ormai, forse, altra scelta non ha
che dare alla sua ansia di giustizia
la forza della tua felicità,
e alla luce di un tempo che inizia
la luce di chi è ciò che non sa.
Edoardo Alaimo Apr 2023
Una nuvola arriva e copre,
Un ombra davanti al sole
Dalle tenebre
Diffonde la luce

Ha le forme di un tocco angelico
Forse un dio, premuroso,
O un suo messaggero,
Che abbaglia gli indifferenti

Ti avrò pensata una, due volte,
O forse cento o forse mille
Ogni volta era pura magia
Con le tue braccia a me avvolte

Ti avrò pensata urlando,
Piangendo e mentre ero felice.
Allo specchio mi son detto,
Rifarei tutto quel che andiam sognando
Thoughts on a plane,
while I was going to a research center
the clouds had just the right shape.

NEVER close your love in a box,
When you feel like it
Just give it all, expand, explode.

2023-04-24
Edoardo
Se la ruota si impiglia nel groviglio
delle stesse filanti ed il cavallo
s'impenna tra la calca, se ti nevica
fra i capelli e le mani un lungo brivido
d'iridi trascorrenti o alzano i bambini
le flebili ocarine che salutano
il tuo viaggio e i lievi echi si sfaldano
giù dal ponte sul fiume
se si sfolla la strada e ti conduce
in un mondo soffiato entro una tremula
bolla d'aria e di luce dove il sole
saluta la tua grazia-hai ritrovato
forse la strada che tentò un istante
il piombo fuso a mezzanotte quando
finì l'anno tranquillo senza spari.

Ed ora vuoi sostare dove un filtro
fa spogli i suoni
e ne deriva i sorridenti ed acri
fumi che ti compongono il domani;
ora chiedi il paese dove gli onagri
mordano quadri di zucchero dalle tue mani
e i tozzi alberi spuntino germogli
miracolosi al becco dei pavoni.

(Oh, il tuo carnevale sarà più triste
stanotte anche del mio, chiusa fra i doni
tu per gli assenti: carri dalle tinte
di rosolio, fantocci ed archibugi,
palle di gomma, arnesi da cucina
lillipuziani: l'urna li segnava
a ognuno dei lontani amici l'ora
che il gennaio si schiuse e nel silenzio
si compì il sortilegio. È carnevale
o il dicembre s'indugia ancora? Penso
che se muovi la lancetta al piccolo
orologio che rechi al polso, tutto
arretrerà dentro un disfatto prisma
babelico di forme e di colori... )

E il natale verrà e il giorno dell'anno
che sfolla le caserme e ti riporta
gli amici spersi e questo carnevale
pur esso tornerà che ora ci sfugge
tra i muri che si fendono già. Chiedi
tu di fermare il tempo sul paese
che attorno si dilata? Le grandi ali
screziate ti sfiorano, le logge
sospingono all'aperto esili bambole
bionde, vive, le pale dei mulini
rotano fisse sulle pozze garrule.
Chiedi di trattenere le campane
d'argento sopra il borgo e il suono rauco
delle colombe? Chiedi tu i mattini
trepidi delle tue prode lontane?

Come tutto si fa strano e difficile
come tutto è impossibile, tu dici.
La tua vita è quaggiù dove rimbombano
le ruote dei carriaggi senza posa
e nulla torna se non forse
in questi disguidi del possibile.
Ritorna là fra i morti balocchi
ove è negato pur morire; e col tempo che ti batte
al polso e all'esistenza ti ridona,
tra le mura pesanti che non s'aprono
al gorgo degli umani affaticato,
torna alla via dove con te intristisco
quella che mi additò un piombo raggelato
alle mie, alle tue sere:
torna alle primavere che non fioriscono.
Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s'alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell'età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
Del barbarico sangue in Maratona
Non colorò la destra
Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l'ardua palestra,
Né la palma beata e la corona
D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse
Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò dè Medi fuggitivi e stanchi
Nelle pallide torme; onde sonaro
Di sconsolato grido
L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa
Le riposte faville? E che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
Il caduco fervor? Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l'opre dè mortali? Ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l'insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi
Mutò la gente i gloriosi studi.
Tempo forse verrà ch'alle ruine
Delle italiche moli
Insultino gli armenti, e che l'aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l'atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese
Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.
Chiaro per lei stato saresti allora
Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s'onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? Solo a spregiarla:
Beata allor che nè perigli avvolta,
Se stessa obblia, né delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta;
Beata allor che il piede
Spinto al varco leteo, più grata riede.
Poi che divelta, nella tracia polve
Giacque ruina immensa
L'italica virtute, onde alle valli
D'Esperia verde, e al tiberino lido,
Il calpestio dè barbari cavalli
Prepara il fato, e dalle selve ignude
Cui l'Orsa algida preme,
A spezzar le romane inclite mura
Chiama i gotici brandi;
Sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l'atra notte in erma sede,
Fermo già di morir, gl'inesorandi
Numi e l'averno accusa,
E di feroci note
Invan la sonnolenta aura percote.

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
Dell'inquiete larve
Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento. A voi, marmorei numi,
(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice
A cui templi chiedeste, e frodolenta
Legge al mortale insulta.
Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando
Il tuon rapido spingi,
Né giusti e pii la sacra fiamma stringi?

Preme il destino invitto e la ferrata
Necessità gl'infermi
Schiavi di morte: e se a cessar non vale
Gli oltraggi lor, dè necessarii danni
Si consola il plebeo. Men duro è il male
Che riparo non ha? dolor non sente
Chi di speranza è nudo?
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia,
Di cedere inesperto; e la tiranna
Tua destra, allor che vincitrice il grava,
Indomito scrollando si pompeggia,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride,
E maligno alle nere ombre sorride.

Spiace agli Dei chi violento irrompe
Nel Tartaro. Non fora
Tanto valor né molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e gl'infelici affetti
Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
Non fra sciagure e colpe,
Ma libera né boschi e pura etade
Natura a noi prescrisse,
Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra
Sparse i regni beati empio costume,
E il viver macro ad altre leggi addisse;
Quando gl'infausti giorni
Virile alma ricusa,
Riede natura, e il non suo dardo accusa?

Di colpa ignare e dè lor proprii danni
Le fortunate belve
Serena adduce al non previsto passo
La tarda età. Ma se spezzar la fronte
Né rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra,
Lor suadesse affanno;
Al misero desio nulla contesa
Legge arcana farebbe
O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
Figli di Prometeo, la vita increbbe;
A voi le morte ripe,
Se il fato ignavo pende,
Soli, o miseri, a voi Giove contende.

E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
Candida luna, sorgi,
E l'inquieta notte e la funesta
All'ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni
Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando né danni
Del servo italo nome,
Sotto barbaro piede
Rintronerà quella solinga sede.

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
E la fera e l'augello,
Del consueto obblio gravido il petto,
L'alta ruina ignora e le mutate
Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre,
Al mattutino canto
Quel desterà le valli, e per le balze
Quella l'inferma plebe
Agiterà delle minori belve.
Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
Siam delle cose; e non le tinte glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura,
Né scolorò le stelle umana cura.

Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi
Regi, o la terra indegna,
E non la notte moribondo appello;
Non te, dell'atra morte ultimo raggio,
Conscia futura età. Sdegnoso avello
Placàr singulti, ornàr parole e doni
Di vil caterva? In peggio
Precipitano i tempi; e mal s'affida
A putridi nepoti
L'onor d'egregie menti e la suprema
Dè miseri vendetta. A me d'intorno
Le penne il bruno augello avido roti;
Prema la fera, e il nembo
Tratti l'ignota spoglia;
E l'aura il nome e la memoria accoglia.
Alors le Seigneur fit descendre du ciel sur
Sodome et sur Gomorrhe une pluie de soufre et de feu.

25. Et il perdit ces villes avec tous leurs habitant,
Tout le pays à l'entour avec ceux qui l'habitaient,
Et tout ce qui avait quelque verdeur sur la terre.

Genèse.

I.

La voyez-vous passer, la nuée au flanc noir ?
Tantôt pâle, tantôt rouge et splendide à voir,
Morne comme un été stérile ?
On croit voir à la fois, sur le vent de la nuit,
Fuir toute la fumée ardente et tout le bruit
De l'embrasement d'une ville.

D'où vient-elle ? des cieux, de la mer ou des monts ?
Est-ce le char de feu qui porte les démons
À quelque planète prochaine ?
Ô terreur ! de son sein, chaos mystérieux,
D'où vient que par moments un éclair furieux
Comme un long serpent se déchaîne ?

II.

La mer ! partout la mer ! des flots, des flots encor.
L'oiseau fatigue en vain son inégal essor.
Ici les flots, là-bas les ondes ;
Toujours des flots sans fin par des flots repoussés ;
L'œil ne voit que des flots dans l'abîme entassés
Rouler sous les vagues profondes.

Parfois de grands poissons, à fleur d'eau voyageant,
Font reluire au soleil leurs nageoires d'argent,
Ou l'azur de leurs larges queues.
La mer semble un troupeau secouant sa toison :
Mais un cercle d'airain ferme au **** l'horizon ;
Le ciel bleu se mêle aux eaux bleues.

- Faut-il sécher ces mers ? dit le nuage en feu.
- Non ! - Il reprit son vol sous le souffle de Dieu.

III.

Un golfe aux vertes collines
Se mirant dans le flot clair ! -
Des buffles, des javelines,
Et des chants joyeux dans l'air ! -
C'était la tente et la crèche,
La tribu qui chasse et pêche,
Qui vit libre, et dont la flèche
Jouterait avec l'éclair.

Pour ces errantes familles
Jamais l'air ne se corrompt.
Les enfants, les jeunes filles,
Les guerriers dansaient en rond,
Autour d'un feu sur la grève,
Que le vent courbe et relève,
Pareils aux esprits qu'en rêve
On voit tourner sur son front.

Les vierges aux seins d'ébène,
Belles comme les beaux soirs,
Riaient de se voir à peine
Dans le cuivre des miroirs ;
D'autres, joyeuses comme elles,
Faisaient jaillir des mamelles
De leurs dociles chamelles
Un lait blanc sous leurs doigts noirs.

Les hommes, les femmes nues
Se baignaient au gouffre amer. -
Ces peuplades inconnues,
Où passaient-elles hier ? -
La voix grêle des cymbales,
Qui fait hennir les cavales,
Se mêlait par intervalles
Aux bruits de la grande mer.

La nuée un moment hésita dans l'espace.
- Est-ce là ? - Nul ne sait qui lui répondit : - Passe !

IV.

L'Égypte ! - Elle étalait, toute blonde d'épis,
Ses champs, bariolés comme un riche tapis,
Plaines que des plaines prolongent ;
L'eau vaste et froide au nord, au sud le sable ardent
Se dispute l'Égypte : elle rit cependant
Entre ces deux mers qui la rongent.

Trois monts bâtis par l'homme au **** perçaient les cieux
D'un triple angle de marbre, et dérobaient aux yeux
Leurs bases de cendre inondées ;
Et de leur faîte aigu jusqu'aux sables dorés,
Allaient s'élargissant leurs monstrueux degrés,
Faits pour des pas de six coudées.

Un sphinx de granit rose, un dieu de marbre vert,
Les gardaient, sans qu'il fût vent de flamme au désert
Qui leur fît baisser la paupière.
Des vaisseaux au flanc large entraient dans un grand port.
Une ville géante, assise sur le bord,
Baignait dans l'eau ses pieds de pierre.

On entendait mugir le semoun meurtrier,
Et sur les cailloux blancs les écailles crier
Sous le ventre des crocodiles.
Les obélisques gris s'élançaient d'un seul jet.
Comme une peau de tigre, au couchant s'allongeait
Le Nil jaune, tacheté d'îles.

L'astre-roi se couchait. Calme, à l'abri du vent,
La mer réfléchissait ce globe d'or vivant,
Ce monde, âme et flambeau du nôtre ;
Et dans le ciel rougeâtre et dans les flots vermeils,
Comme deux rois amis, on voyait deux soleils
Venir au-devant l'un de l'autre.

- Où faut-il s'arrêter ? dit la nuée encor.
- Cherche ! dit une voix dont trembla le Thabor.

V.

Du sable, puis du sable !
Le désert ! noir chaos
Toujours inépuisable
En monstres, en fléaux !
Ici rien ne s'arrête.
Ces monts à jaune crête,
Quand souffle la tempête,
Roulent comme des flots !

Parfois, de bruits profanes
Troublant ce lieu sacré,
Passent les caravanes
D'Ophir ou de Membré.
L'œil de **** suit leur foule,
Qui sur l'ardente houle
Ondule et se déroule
Comme un serpent marbré.

Ces solitudes mornes,
Ces déserts sont à Dieu :
Lui seul en sait les bornes,
En marque le milieu.
Toujours plane une brume
Sur cette mer qui fume,
Et jette pour écume
Une cendre de feu.

- Faut-il changer en lac ce désert ? dit la nue.
- Plus **** ! dit l'autre voix du fond des cieux venue.

VI.

Comme un énorme écueil sur les vagues dressé,
Comme un amas de tours, vaste et bouleversé,
Voici Babel, déserte et sombre.
Du néant des mortels prodigieux témoin,
Aux rayons de la lune, elle couvrait au ****
Quatre montagnes de son ombre.

L'édifice écroulé plongeait aux lieux profonds.
Les ouragans captifs sous ses larges plafonds
Jetaient une étrange harmonie.
Le genre humain jadis bourdonnait à l'entour,
Et sur le globe entier Babel devait un jour
Asseoir sa spirale infinie.

Ses escaliers devaient monter jusqu'au zénith.
Chacun des plus grands monts à ses flancs de granit
N'avait pu fournir qu'une dalle.
Et des sommets nouveaux d'autres sommets chargés
Sans cesse surgissaient aux yeux découragés
Sur sa tête pyramidale.

Les boas monstrueux, les crocodiles verts,
Moindres que des lézards sur ses murs entrouverts,
Glissaient parmi les blocs superbes ;
Et, colosses perdus dans ses larges contours,
Les palmiers chevelus, pendant au front des tours,
Semblaient d'en bas des touffes d'herbes.

Des éléphants passaient aux fentes de ses murs ;
Une forêt croissait sous ses piliers obscurs
Multipliés par la démence ;
Des essaims d'aigles roux et de vautours géants
Jour et nuit tournoyaient à ses porches béants,
Comme autour d'une ruche immense.

- Faut-il l'achever ? dit la nuée en courroux. -
Marche ! - Seigneur, dit-elle, où donc m'emportez-vous ?

VII.

Voilà que deux cités, étranges, inconnues,
Et d'étage en étage escaladant les nues,
Apparaissent, dormant dans la brume des nuits,
Avec leurs dieux, leur peuple, et leurs chars, et leurs bruits.
Dans le même vallon c'étaient deux sœurs couchées.
L'ombre baignait leurs tours par la lune ébauchées ;
Puis l'œil entrevoyait, dans le chaos confus,
Aqueducs, escaliers, piliers aux larges fûts,
Chapiteaux évasés ; puis un groupe difforme
D'éléphants de granit portant un dôme énorme ;
Des colosses debout, regardant autour d'eux
Ramper des monstres nés d'accouplements hideux ;
Des jardins suspendus, pleins de fleurs et d'arcades,
Où la lune jetait son écharpe aux cascades ;
Des temples où siégeaient sur de riches carreaux
Cent idoles de jaspe à têtes de taureaux ;
Des plafonds d'un seul bloc couvrant de vastes salles,
Où, sans jamais lever leurs têtes colossales,
Veillaient, assis en cercle, et se regardant tous,
Des dieux d'airain, posant leurs mains sur leurs genoux.
Ces rampes, ces palais, ces sombres avenues
Où partout surgissaient des formes inconnues,
Ces ponts, ces aqueducs, ces arcs, ces rondes tours,
Effrayaient l'œil perdu dans leurs profonds détours ;
On voyait dans les cieux, avec leurs larges ombres,
Monter comme des caps ces édifices sombres,
Immense entassement de ténèbres voilé !
Le ciel à l'horizon scintillait étoilé,
Et, sous les mille arceaux du vaste promontoire,
Brillait comme à travers une dentelle noire.

Ah ! villes de l'enfer, folles dans leurs désirs !
Là, chaque heure inventait de monstrueux plaisirs,
Chaque toit recelait quelque mystère immonde,
Et, comme un double ulcère, elles souillaient le monde.

Tout dormait cependant : au front des deux cités,
À peine encor glissaient quelques pâles clartés,
Lampes de la débauche, en naissant disparues,
Derniers feux des festins oubliés dans les rues,
De grands angles de murs, par la lune blanchis,
Coupaient l'ombre, ou tremblaient dans une eau réfléchis.
Peut-être on entendait vaguement dans les plaines
S'étouffer des baisers, se mêler des haleines,
Et les deux villes surs, lasses des feux du jour,
Murmurer mollement d'une étreinte d'amour !

Et le vent, soupirant sous le frais sycomore,
Allait tout parfumé de Sodome à Gomorrhe.
C'est alors que passa le nuage noirci,
Et que la voix d'en haut lui cria : - C'est ici !

VIII.

La nuée éclate !
La flamme écarlate
Déchire ses flancs,
L'ouvre comme un gouffre,
Tombe en flots de soufre
Aux palais croulants,
Et jette, tremblante,
Sa lueur sanglante
Sur leurs frontons blancs !

Gomorrhe ! Sodome !
De quel brûlant dôme
Vos murs sont couverts !
L'ardente nuée
Sur vous s'est ruée,
Ô peuples pervers !
Et ses larges gueules
Sur vos têtes seules
Soufflent leurs éclairs !

Ce peuple s'éveille,
Qui dormait la veille
Sans penser à Dieu.
Les grands palais croulent ;
Mille chars qui roulent
Heurtent leur essieu ;
Et la foule accrue,
Trouve en chaque rue
Un fleuve de feu.

Sur ces tours altières,
Colosses de pierres
Trop mal affermis,
Abondent dans l'ombre
Des mourants sans nombre
Encore endormis.
Sur des murs qui pendent
Ainsi se répandent
De noires fourmis !

Se peut-il qu'on fuie
Sous l'horrible pluie ?
Tout périt, hélas !
Le feu qui foudroie
Bat les ponts qu'il broie,
Crève les toits plats,
Roule, tombe, et brise
Sur la dalle grise
Ses rouges éclats !

Sous chaque étincelle
Grossit et ruisselle
Le feu souverain.
Vermeil et limpide,
Il court plus rapide
Qu'un cheval sans frein ;
Et l'idole infâme,
Croulant dans la flamme,
Tord ses bras d'airain !

Il gronde, il ondule,
Du peuple incrédule
Bat les tours d'argent ;
Son flot vert et rose,
Que le soufre arrose,
Fait, en les rongeant,
Luire les murailles
Comme les écailles
D'un lézard changeant.

Il fond comme cire
Agate, porphyre,
Pierres du tombeau,
Ploie, ainsi qu'un arbre,
Le géant de marbre
Qu'ils nommaient Nabo,
Et chaque colonne
Brûle et tourbillonne
Comme un grand flambeau.

En vain quelques mages
Portent les images
Des dieux du haut lieu ;
En vain leur roi penche
Sa tunique blanche
Sur le soufre bleu ;
Le flot qu'il contemple
Emporte leur temple
Dans ses plis de feu !

Plus **** il charrie
Un palais, où crie
Un peuple à l'étroit ;
L'onde incendiaire
Mord l'îlot de pierre
Qui fume et décroît,
Flotte à sa surface,
Puis fond et s'efface
Comme un glaçon froid !

Le grand-prêtre arrive
Sur l'ardente rive
D'où le reste a fui.
Soudain sa tiare
Prend feu comme un phare,
Et pâle, ébloui,
Sa main qui l'arrache
À son front s'attache,
Et brûle avec lui.

Le peuple, hommes, femmes,
Court... Partout les flammes
Aveuglent les yeux ;
Des deux villes mortes
Assiégeant les portes
À flots furieux,
La foule maudite
Croit voir, interdite,
L'enfer dans les cieux !

IX.

On dit qu'alors, ainsi que pour voir un supplice
Un vieux captif se dresse aux murs de sa prison,
On vit de **** Babel, leur fatale complice,
Regarder par-dessus les monts de l'horizon.

On entendit, durant cet étrange mystère,
Un grand bruit qui remplit le monde épouvanté,
Si profond qu'il troubla, dans leur morne cité,
Jusqu'à ces peuples sourds qui vivent sous la terre.

X.

Le feu fut sans pitié ! Pas un des condamnés
Ne put fuir de ces murs brûlant et calcinés.
Pourtant, ils levaient leurs mains viles,
Et ceux qui s'embrassaient dans un dernier adieu,
Terrassés, éblouis, se demandaient quel dieu
Versait un volcan sur leurs villes.

Contre le feu vivant, contre le feu divin,
De larges toits de marbre ils s'abritaient en vain.
Dieu sait atteindre qui le brave.
Ils invoquaient leurs dieux ; mais le feu qui punit
Frappait ces dieux muets dont les yeux de granit
Soudain fondaient en pleurs de lave !

Ainsi tout disparut sous le noir tourbillon,
L'homme avec la cité, l'herbe avec le sillon !
Dieu brûla ces mornes campagnes ;
Rien ne resta debout de ce peuple détruit,
Et le vent inconnu qui souffla cette nuit
Changea la forme des montagnes.

XI.

Aujourd'hui le palmier qui croît sur le rocher
Sent sa feuille jaunie et sa tige sécher
À cet air qui brûle et qui pèse.
Ces villes ne sont plus ; et, miroir du passé,
Sur leurs débris éteints s'étend un lac glacé,
Qui fume comme une fournaise !

Octobre 1828.
Stefano Feb 2013
Freddi silenti e arcuati
Imprevedibili canti dalle rime abbandonate
Ghiaccio e neve sulle cime di montagne imponenti
Angeli dalle ali spezzate
Ingiustamente bruciati nel vizio e nel peccato
Organi muti
il canto della disperazione.

Occhi sbarrati sul mondo.
tangshunzi Jul 2014
Per quanto adoro un matrimonio moderno o rustico .io sono un vero romantico a cuore .Un amante Jane Austen che si innamora perdutamente di morbidi .fiori lussureggianti e giardino ricevimenti partito- esque che vi toglierà il fiato .Questo .amici miei .è uno di quei matrimoni.Una splendida storia drop-dead .che è tutto il romanticismo .e tutto sulla bella .Vedi tutto catturato dalle Fotografia Redfield nella piena galleria .

ColorsSeasonsSummerSettingsMansionStylesRomanticTraditional Elegance

Da Sposa.Peter e io ci siamo incontrati nella scuola media.ma non iniziare risalente fino a dopo ci siamo laureati di scuola superiore .Dopo incontri per oltre otto anni .Peter ha infine deciso di proporre .con l'aiuto del nostro cane .Dexter .Peter fece un segno da appendere al collo Dexter ' che ha dettoè èommy .vuoi sposare papà?ècon un po' di zampa di cane sul segno .363 giorni dopo che Peter ha proposto .ci siamo sposati .Se potessi scegliere alcune parole chiave per descrivere l'ispirazione complessiva



e il tema stavamo andando perché sarebbero: romantico .classico ed elegante .Niente di troppo pesanteèVolevamo una serata piena luce d'amore .risate .la famiglia e gli amici .Volevamo solo che tutto sia classico .
tocchi speciali e progetti fai da te : Abbiamo avuto un artista dal vivo (pittore ).che ogni singolo ospite pensava fosse davvero incredibile !E lei era assolutamente abiti da cerimonia taglie forti incredibile ;una giovane donna di grande talento .Inoltre .il nostro cane ha svolto un ruolo speciale .era sullo sfondo della cerimonia di nozze .e poi dopo ci siamo sposati ufficialmente è venuto avanti in modo che potessimo recesso lungo la navata come una famiglia .La nostra lista di birra è stata inoltre selezionata a mano dal padre dello sposo .

PROGETTI fai da te:zecche

èsalvavita nel cartoncino che sembravano coi libri conè e èsu di loro .o la data del matrimonio .o la nostra monogramma sposato in penna d'oro .

èLa toile e tabella navy numeri in corniciè eacquisti per telai per diversi mesi .raccogliendo una o due qui o là .poi spray dipinto tutti loro oro .Mi piace toile e volevo nel mio matrimonio in qualche modo .ma non è tutto .così ** avuto l'idea di fare la tabella numeri toile .Quindi.con avorio e carta da parati blu toile .** tagliato ogni pezzo in base vestiti da sposa economici alle dimensioni del telaio.rintracciato numeri .e poi dipinto i numeri blu navy con vernice artigianali .

èHo anche fatto ilè èr .e la signoraèfirmare allo stesso modo.ma utilizzata vernice d'oro per un tocco diverso .

Fotografia : Fotografia Redfield | Florist : Radebaugh ' fioraio e Greenhouse | Wedding Cake : Graul ' Mercato | Cerimonia Luogo : La Liriodendron Mansion | Banco Luogo vestiti da sposa economici : La Liriodendron Mansion | Scarpe : Ivanka Trump | Bridesmaids Dresses : Alfed Sung | Catering :Dean And Brown Catering | vestito dello sposo : Tux Da Chaps Ralph Lauren | Grooms Scarpe : Clarks bostoniano | Cerimonia Musicista : Miriam Joy | Day Of Coordinatore: Stephanie Day Of Dream Day Planners | Abiti Groomsmen ' : Tux Da Chaps Ralph Lauren | Hair Stylist :sally Morales Of Blondie ' Hair Studio | Inviti .programmi e Signage: persnickety Invito Studio | Jewlerey : Kate ***** | live Artista / Pittore : Leah Crumbling | Banco Gruppo: The Bachelor Ragazzi band | Videographers : Reflexion Videografia | Designer Abito da sposa: AmsaleAmsale è un membro del nostro Look Book .Per ulteriori informazioni su come vengono scelti i membri .fare clic qui
http://www.belloabito.com/goods.php?id=449
http://188.138.88.219/imagesld/td//t35/productthumb/1/551335353535_394271.jpeg
http://www.belloabito.com/abiti-da-sposa-economici-c-48
Giardino di nozze presso il Liriodendron Mansion_vestito da sera
Diego Scarca Dec 2010
Adesso, nella calma,
si vedon muovere i pali
della luce, i fogli di carta
sui recinti di legno dei cantieri.

Un’altra volta
c’era stato il commento
degli arabi, dei negri.
In un vecchio vano della casa,
le povere braccia,
le gambe lunghe e magre legate,
incominciano i racconti.

E si urtano gli oggetti
finiti sul fondo della strada,
mentre, per errore,
un fruscìo dei rami avverte
chi vi cammina
o da una griglia esala ancora
l’odore tiepido dell’umidità.

Si dissolve il colore
dalle pianure disegnate
nel sonno dell’umanità. Le creste delle piante
viste d’improvviso
da un punto oscuro
ravvicinate, mute,
perché si possieda in alto
qualche luce della quiete?
Diego Scarca, Architetture del vuoto, Torino, Edizioni Angolo Manzoni, 2007
Si pasce di se il fiume, bruca
serpeggiando
le sue
quasi essiccate sgorature,
visita
le sue
quasi aride pozzanghere,
si trascina ai suoi già putridi ristagni
finche, poco più oltre
un poco lo confortano
misteriosi trasudamenti,
lo irrorano frescure,
umori, vene
dal più profondo
del suo cuore sotterraneo
ed eccolo
rinasce esso dalle secche,
ora, si lascia dietro la sassaia
della sua quasi estinzione
per il suo nuovo cammino -
si muove verso se stesso il fiume,
si sposta dentro il suo cangiante bruco
ed entra, fiume nuovo
uscito dalle sue ceneri
nei luoghi dove opera
la primavera e non c'è
fiore né gemma, non c'è ancora
ma c'è quella radiosa incandescenza
di luce e opacità nel bianco dell'aria,
c'è, ed ecco si diffonde, quella trepidante animula
e quel chiaro sopra la linea degli alberi,
quel già più festoso scintillamento delle acque.
C'è tutto "quello". E c'è
lui fiume,
ne vibra intimamente
il senso. C'è questo, c'è prodigiosamente.
Improvviso il mille novecento
cinquanta due passa sull'Italia:
solo il popolo ne ha un sentimento
vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
la modernità, benché sempre il più
moderno sia esso, il popolo, spanto
in borghi, in rioni, con gioventù
sempre nuove - nuove al vecchio canto -
a ripetere ingenuo quello che fu.

Scotta il primo sole dolce dell'anno
sopra i portici delle cittadine
di provincia, sui paesi che sanno
ancora di nevi, sulle appenniniche
greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
i nuovi colori delle tele, i nuovi
vestiti come in limpidi roghi
dicono quanto oggi si rinnovi
il mondo, che diverse gioie sfoghi...

Ah, noi che viviamo in una sola
generazione ogni generazione
vissuta qui, in queste terre ora
umiliate, non abbiamo nozione
vera di chi è partecipe alla storia
solo per orale, magica esperienza;
e vive puro, non oltre la memoria
della generazione in cui presenza
della vita è la sua vita perentoria.

Nella vita che è vita perché assunta
nella nostra ragione e costruita
per il nostro passaggio - e ora giunta
a essere altra, oltre il nostro accanito
difenderla - aspetta - cantando supino,
accampato nei nostri quartieri
a lui sconosciuti, e pronto fino
dalle più fresche e inanimate ère -
il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

E se ci rivolgiamo a quel passato
ch'è nostro privilegio, altre fiumane
di popolo ecco cantare: recuperato
è il nostro moto fin dalle cristiane
origini, ma resta indietro, immobile,
quel canto. Si ripete uguale.
Nelle sere non più torce ma globi
di luce, e la periferia non pare
altra, non altri i ragazzi nuovi...

Tra gli orti cupi, al pigro solicello
Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
di Toscana, con strilli di rondinini:
Hor atorno fratt Helya! La santa
violenza sui rozzi cuori il clero
calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
feroce nel feudo provinciale l'Impero
da Iddio imposto: e il popolo canta.

Un grande concerto di scalpelli
sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
suona, giganteggiando il travertino
nel nuovo spazio in cui s'affranca
l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
jersera... ripete con l'anima spanta
nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
resta nel popolo. E il popolo canta.

Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
e trepidi nel vento napoleonico,
all'Inno dell'Albero della Libertà,
tremano i nuovi colori delle nazioni.
Ma, cane affamato, difende il bracciante
i suoi padroni, ne canta la ferocia,
Guagliune 'e mala vita! In branchi
feroci. La libertà non ha voce
per il popolo cane. E il popolo canta.

Ragazzo del popolo che canti,
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
è vero, cantando, l'antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare.

Nella tua incoscienza è la coscienza
che in te la storia vuole, questa storia
il cui Uomo non ha più che la violenza
delle memorie, non la libera memoria...
E ormai, forse, altra scelta non ha
che dare alla sua ansia di giustizia
la forza della tua felicità,
e alla luce di un tempo che inizia
la luce di chi è ciò che non sa.
J'entrai dernièrement dans une vieille église ;

La nef était déserte, et sur la dalle grise,

Les feux du soir, passant par les vitraux dorés,

Voltigeaient et dansaient, ardemment colorés.

Comme je m'en allais, visitant les chapelles,

Avec tous leurs festons et toutes leurs dentelles,

Dans un coin du jubé j'aperçus un tableau

Représentant un Christ qui me parut très-beau.

On y voyait saint Jean, Madeleine et la Vierge ;

Leurs chairs, d'un ton pareil à la cire de cierge,

Les faisaient ressembler, sur le fond sombre et noir,

A ces fantômes blancs qui se dressent le soir,

Et vont croisant les bras sous leurs draps mortuaires ;

Leurs robes à plis droits, ainsi que des suaires,

S'allongeaient tout d'un jet de leur nuque à leurs pieds ;

Ainsi faits, l'on eût dit qu'ils fussent copiés

Dans le campo-Santo sur quelque fresque antique,

D'un vieux maître Pisan, artiste catholique,

Tant l'on voyait reluire autour de leur beauté,

Le nimbe rayonnant de la mysticité,

Et tant l'on respirait dans leur humble attitude,

Les parfums onctueux de la béatitude.


Sans doute que c'était l'œuvre d'un Allemand,

D'un élève d'Holbein, mort bien obscurément,

A vingt ans, de misère et de mélancolie,

Dans quelque bourg de Flandre, au retour d'Italie ;

Car ses têtes semblaient, avec leur blanche chair,

Un rêve de soleil par une nuit d'hiver.


Je restai bien longtemps dans la même posture,

Pensif, à contempler cette pâle peinture ;

Je regardais le Christ sur son infâme bois,

Pour embrasser le monde, ouvrant les bras en croix ;

Ses pieds meurtris et bleus et ses deux mains clouées,

Ses chairs, par les bourreaux, à coups de fouets trouées,

La blessure livide et béante à son flanc ;

Son front d'ivoire où perle une sueur de sang ;

Son corps blafard, rayé par des lignes vermeilles,

Me faisaient naître au cœur des pitiés nonpareilles,

Et mes yeux débordaient en des ruisseaux de pleurs,

Comme dut en verser la Mère de Douleurs.

Dans l'outremer du ciel les chérubins fidèles,

Se lamentaient en chœur, la face sous leurs ailes,

Et l'un d'eux recueillait, un ciboire à la main,

Le pur-sang de la plaie où boit le genre humain ;

La sainte vierge, au bas, regardait : pauvre mère

Son divin fils en proie à l'agonie amère ;

Madeleine et saint Jean, sous les bras de la croix

Mornes, échevelés, sans soupirs et sans voix,

Plus dégoutants de pleurs qu'après la pluie un arbre,

Étaient debout, pareils à des piliers de marbre.


C'était, certes, un spectacle à faire réfléchir,

Et je sentis mon cou, comme un roseau, fléchir

Sous le vent que faisait l'aile de ma pensée,

Avec le chant du soir, vers le ciel élancée.

Je croisai gravement mes deux bras sur mon sein,

Et je pris mon menton dans le creux de ma main,

Et je me dis : « O Christ ! Tes douleurs sont trop vives ;

Après ton agonie au jardin des Olives,

Il fallait remonter près de ton père, au ciel,

Et nous laisser à nous l'éponge avec le fiel ;

Les clous percent ta chair, et les fleurons d'épines

Entrent profondément dans tes tempes divines.

Tu vas mourir, toi, Dieu, comme un homme. La mort

Recule épouvantée à ce sublime effort ;

Elle a peur de sa proie, elle hésite à la prendre,

Sachant qu'après trois jours il la lui faudra rendre,

Et qu'un ange viendra, qui, radieux et beau,

Lèvera de ses mains la pierre du tombeau ;

Mais tu n'en as pas moins souffert ton agonie,

Adorable victime entre toutes bénie ;

Mais tu n'en a pas moins avec les deux voleurs,

Étendu tes deux bras sur l'arbre de douleurs.


Ô rigoureux destin ! Une pareille vie,

D'une pareille mort si promptement suivie !

Pour tant de maux soufferts, tant d'absinthe et de fiel,

Où donc est le bonheur, le vin doux et le miel ?

La parole d'amour pour compenser l'injure,

Et la bouche qui donne un baiser par blessure ?

Dieu lui-même a besoin quand il est blasphémé,

Pour nous bénir encore de se sentir aimé,

Et tu n'as pas, Jésus, traversé cette terre,

N'ayant jamais pressé sur ton cœur solitaire

Un cœur sincère et pur, et fait ce long chemin

Sans avoir une épaule où reposer ta main,

Sans une âme choisie où répandre avec flamme

Tous les trésors d'amour enfermés dans ton âme.


Ne vous alarmez pas, esprits religieux,

Car l'inspiration descend toujours des cieux,

Et mon ange gardien, quand vint cette pensée,

De son bouclier d'or ne l'a pas repoussée.

C'est l'heure de l'extase où Dieu se laisse voir,

L'Angélus éploré tinte aux cloches du soir ;

Comme aux bras de l'amant, une vierge pâmée,

L'encensoir d'or exhale une haleine embaumée ;

La voix du jour s'éteint, les reflets des vitraux,

Comme des feux follets, passent sur les tombeaux,

Et l'on entend courir, sous les ogives frêles,

Un bruit confus de voix et de battements d'ailes ;

La foi descend des cieux avec l'obscurité ;

L'orgue vibre ; l'écho répond : Eternité !

Et la blanche statue, en sa couche de pierre,

Rapproche ses deux mains et se met en prière.

Comme un captif, brisant les portes du cachot,

L'âme du corps s'échappe et s'élance si haut,

Qu'elle heurte, en son vol, au détour d'un nuage,

L'étoile échevelée et l'archange en voyage ;

Tandis que la raison, avec son pied boiteux,

La regarde d'en-bas se perdre dans les cieux.

C'est à cette heure-là que les divins poètes,

Sentent grandir leur front et deviennent prophètes.


Ô mystère d'amour ! Ô mystère profond !

Abîme inexplicable où l'esprit se confond ;

Qui de nous osera, philosophe ou poète,

Dans cette sombre nuit plonger avant la tête ?

Quelle langue assez haute et quel cœur assez pur,

Pour chanter dignement tout ce poème obscur ?

Qui donc écartera l'aile blanche et dorée,

Dont un ange abritait cette amour ignorée ?

Qui nous dira le nom de cette autre Éloa ?

Et quelle âme, ô Jésus, à t'aimer se voua ?


Murs de Jérusalem, vénérables décombres,

Vous qui les avez vus et couverts de vos ombres,

Ô palmiers du Carmel ! Ô cèdres du Liban !

Apprenez-nous qui donc il aimait mieux que Jean ?

Si vos troncs vermoulus et si vos tours minées,

Dans leur écho fidèle, ont, depuis tant d'années,

Parmi les souvenirs des choses d'autrefois,

Conservé leur mémoire et le son de leur voix ;

Parlez et dites-nous, ô forêts ! ô ruines !

Tout ce que vous savez de ces amours divines !

Dites quels purs éclairs dans leurs yeux reluisaient,

Et quels soupirs ardents de leurs cœurs s'élançaient !

Et toi, Jourdain, réponds, sous les berceaux de palmes,

Quand la lune trempait ses pieds dans tes eaux calmes,

Et que le ciel semait sa face de plus d'yeux,

Que n'en traîne après lui le paon tout radieux ;

Ne les as-tu pas vus sur les fleurs et les mousses,

Glisser en se parlant avec des voix plus douces

Que les roucoulements des colombes de mai,

Que le premier aveu de celle que j'aimai ;

Et dans un pur baiser, symbole du mystère,

Unir la terre au ciel et le ciel à la terre.


Les échos sont muets, et le flot du Jourdain

Murmure sans répondre et passe avec dédain ;

Les morts de Josaphat, troublés dans leur silence,

Se tournent sur leur couche, et le vent frais balance

Au milieu des parfums dans les bras du palmier,

Le chant du rossignol et le nid du ramier.


Frère, mais voyez donc comme la Madeleine

Laisse sur son col blanc couler à flots d'ébène

Ses longs cheveux en pleurs, et comme ses beaux yeux,

Mélancoliquement, se tournent vers les cieux !

Qu'elle est belle ! Jamais, depuis Ève la blonde,

Une telle beauté n'apparut sur le monde ;

Son front est si charmant, son regard est si doux,

Que l'ange qui la garde, amoureux et jaloux,

Quand le désir craintif rôde et s'approche d'elle,

Fait luire son épée et le chasse à coups d'aile.


Ô pâle fleur d'amour éclose au paradis !

Qui répands tes parfums dans nos déserts maudits,

Comment donc as-tu fait, ô fleur ! Pour qu'il te reste

Une couleur si fraîche, une odeur si céleste ?

Comment donc as-tu fait, pauvre sœur du ramier,

Pour te conserver pure au cœur de ce bourbier ?

Quel miracle du ciel, sainte prostituée,

Que ton cœur, cette mer, si souvent remuée,

Des coquilles du bord et du limon impur,

N'ait pas, dans l'ouragan, souillé ses flots d'azur,

Et qu'on ait toujours vu sous leur manteau limpide,

La perle blanche au fond de ton âme candide !

C'est que tout cœur aimant est réhabilité,

Qu'il vous vient une autre âme et que la pureté

Qui remontait au ciel redescend et l'embrasse,

comme à sa sœur coupable une sœur qui fait grâce ;

C'est qu'aimer c'est pleurer, c'est croire, c'est prier ;

C'est que l'amour est saint et peut tout expier.


Mon grand peintre ignoré, sans en savoir les causes,

Dans ton sublime instinct tu comprenais ces choses,

Tu fis de ses yeux noirs ruisseler plus de pleurs ;

Tu gonflas son beau sein de plus hautes douleurs ;

La voyant si coupable et prenant pitié d'elle,

Pour qu'on lui pardonnât, tu l'as faite plus belle,

Et ton pinceau pieux, sur le divin contour,

A promené longtemps ses baisers pleins d'amour ;

Elle est plus belle encore que la vierge Marie,

Et le prêtre, à genoux, qui soupire et qui prie,

Dans sa pieuse extase, hésite entre les deux,

Et ne sait pas laquelle est la reine des cieux.


Ô sainte pécheresse ! Ô grande repentante !

Madeleine, c'est toi que j'eusse pour amante

Dans mes rêves choisie, et toute la beauté,

Tout le rayonnement de la virginité,

Montrant sur son front blanc la blancheur de son âme,

Ne sauraient m'émouvoir, ô femme vraiment femme,

Comme font tes soupirs et les pleurs de tes yeux,

Ineffable rosée à faire envie aux cieux !

Jamais lis de Saron, divine courtisane,

Mirant aux eaux des lacs sa robe diaphane,

N'eut un plus pur éclat ni de plus doux parfums ;

Ton beau front inondé de tes longs cheveux bruns,

Laisse voir, au travers de ta peau transparente,

Le rêve de ton âme et ta pensée errante,

Comme un globe d'albâtre éclairé par dedans !

Ton œil est un foyer dont les rayons ardents

Sous la cendre des cœurs ressuscitent les flammes ;

O la plus amoureuse entre toutes les femmes !

Les séraphins du ciel à peine ont dans le cœur,

Plus d'extase divine et de sainte langueur ;

Et tu pourrais couvrir de ton amour profonde,

Comme d'un manteau d'or la nudité du monde !

Toi seule sais aimer, comme il faut qu'il le soit,

Celui qui t'a marquée au front avec le doigt,

Celui dont tu baignais les pieds de myrrhe pure,

Et qui pour s'essuyer avait ta chevelure ;

Celui qui t'apparut au jardin, pâle encore

D'avoir dormi sa nuit dans le lit de la mort ;

Et, pour te consoler, voulut que la première

Tu le visses rempli de gloire et de lumière.


En faisant ce tableau, Raphaël inconnu,

N'est-ce pas ? Ce penser comme à moi t'est venu,

Et que ta rêverie a sondé ce mystère,

Que je voudrais pouvoir à la fois dire et taire ?

Ô poètes ! Allez prier à cet autel,

A l'heure où le jour baisse, à l'instant solennel,

Quand d'un brouillard d'encens la nef est toute pleine.

Regardez le Jésus et puis la Madeleine ;

Plongez-vous dans votre âme et rêvez au doux bruit

Que font en s'éployant les ailes de la nuit ;

Peut-être un chérubin détaché de la toile,

A vos yeux, un moment, soulèvera le voile,

Et dans un long soupir l'orgue murmurera

L'ineffable secret que ma bouche taira.
bk Jul 2015
Delle volte mi concentro su particolari lontani e totalmente irrilevanti come la posizione delle dita delle mani appoggiate allo stipite della porta o su un bicchiere e io penso sfiorami sfiorami sfiorami.
mi ricordo casa di mia nonna, il suo parquet, la luce che enTrava dalle grandi finestre, tutta la lista di cose che mi era vietato toccare
Sulla chiara aderenza del suo viso
dove balena il ritmico, selvaggio,
sentimento dell'alba
mentre della notturna s'addolora
quiete silvestre e cinge a dominare
il boato del tempo la più cauta
trepida luce, salgono veloci
i profili irrequieti del destino.

Mirabile linguaggio che trascorre
dalle limpide acque alla vibrata
forza dell'inumana profezia!

Ora nell'ampia conca dell'eremo
un soffuso candore si raccoglie
dalle acque sui rami ed accompagna
di cenni lacrimevoli il congedo.
Credei ch'al tutto fossero
In me, sul fior degli anni,
Mancati i dolci affanni
Della mia prima età:
I dolci affanni, i teneri
Moti del cor profondo,
Qualunque cosa al mondo
Grato il sentir ci fa.

Quante querele e lacrime
Sparsi nel novo stato,
Quando al mio cor gelato
Prima il dolor mancò!
Mancàr gli usati palpiti,
L'amor mi venne meno,
E irrigidito il seno
Di sospirar cessò!

Piansi spogliata, esanime
Fatta per me la vita
La terra inaridita,
Chiusa in eterno gel;
Deserto il dì; la tacita
Notte più sola e bruna;
Spenta per me la luna,
Spente le stelle in ciel.

Pur di quel pianto origine
Era l'antico affetto:
Nell'intimo del petto
Ancor viveva il cor.
Chiedea l'usate immagini
La stanca fantasia;
E la tristezza mia
Era dolore ancor.

Fra poco in me quell'ultimo
Dolore anco fu spento,
E di più far lamento
Valor non mi restò.
Giacqui: insensato, attonito,
Non dimandai conforto:
Quasi perduto e morto,
Il cor s'abbandonò.

Qual fui! Quanto dissimile
Da quel che tanto ardore,
Che sì beato errore
Nutrii nell'alma un dì!
La rondinella vigile,
Alle finestre intorno
Cantando al novo giorno,
Il cor non mi ferì:

Non all'autunno pallido
In solitaria villa,
La vespertina squilla,
Il fuggitivo Sol.
Invan brillare il vespero
Vidi per muto calle,
Invan sonò la valle
Del flebile usignol.

E voi, pupille tenere,
Sguardi furtivi, erranti,
Voi dè gentili amanti
Primo, immortale amor,
Ed alla mano offertami
Candida ignuda mano,
Foste voi pure invano
Al duro mio sopor.

D'ogni dolcezza vedovo,
Tristo; ma non turbato,
Ma placido il mio stato,
Il volto era seren.
Desiderato il termine
Avrei del viver mio;
Ma spento era il desio
Nello spossato sen.

Qual dell'età decrepita
L'avanzo ignudo e vile,
Io conducea l'aprile
Degli anni miei così:
Così quegl'ineffabili
Giorni, o mio cor, traevi,
Che sì fugaci e brevi
Il cielo a noi sortì.

Chi dalla grave, immemore
Quiete or mi ridesta?
Che virtù nova è questa,
Questa che sento in me?
Moti soavi, immagini,
Palpiti, error beato,
Per sempre a voi negato
Questo mio cor non è?

Siete pur voi quell'unica
Luce dè giorni miei?
Gli affetti ch'io perdei
Nella novella età?
Se al ciel, s'ai verdi margini,
Ovunque il guardo mira,
Tutto un dolor mi spira,
Tutto un piacer mi dà.

Meco ritorna a vivere
La piaggia, il bosco, il monte;
Parla al mio core il fonte,
Meco favella il mar.
Chi mi ridona il piangere
Dopo cotanto obblio?
E come al guardo mio
Cangiato il mondo appar?

Forse la speme, o povero
Mio cor, ti volse un riso?
Ahi della speme il viso
Io non vedrò mai più.
Proprii mi diede i palpiti,
Natura, e i dolci inganni.
Sopiro in me gli affanni
L'ingenita virtù;

Non l'annullàr: non vinsela
Il fato e la sventura;
Non con la vista impura
L'infausta verità.
Dalle mie vaghe immagini
So ben ch'ella discorda:
So che natura è sorda,
Che miserar non sa.

Che non del ben sollecita
Fu, ma dell'esser solo:
Purché ci serbi al duolo,
Or d'altro a lei non cal.
So che pietà fra gli uomini
Il misero non trova;
Che lui, fuggendo, a prova
Schernisce ogni mortal.

Che ignora il tristo secolo
Gl'ingegni e le virtudi;
Che manca ai degni studi
L'ignuda gloria ancor.
E voi, pupille tremule,
Voi, raggio sovrumano,
So che splendete invano,
Che in voi non brilla amor.

Nessuno ignoto ed intimo
Affetto in voi non brilla:
Non chiude una favilla
Quel bianco petto in sé.
Anzi d'altrui le tenere
Cure suol porre in gioco;
E d'un celeste foco
Disprezzo è la mercè.

Pur sento in me rivivere
Gl'inganni aperti e noti;
E, dè suoi proprii moti
Si maraviglia il sen.
Da te, mio cor, quest'ultimo
Spirto, e l'ardor natio,
Ogni conforto mio
Solo da te mi vien.

Mancano, il sento, all'anima
Alta, gentile e pura,
La sorte, la natura,
Il mondo e la beltà.
Ma se tu vivi, o misero,
Se non concedi al fato,
Non chiamerò spietato
Chi lo spirar mi dà.
Metà segreteria
soviet o comitato
ai cani sciolti, al volontariato
ai centri sociali, agli operai
a chi non molla mai
a chi fa opposizione
anche se non è inquadrato
dalle direttive prese,
dalle telecamere accese.
katy winser Jul 2014
Uno sguardo ,due anime perdute ,
Un solo attimo per riportarle a galla !
Gli occhi di lei…
Gli occhi di lui …
Una sola anima ormai !
Lui, forte creatura leggendaria dal spasimato passato
si sente fragile e impotente come mai prima.
Le lacrime di lei  colpiscono più di mille *****,
e il  sorriso …oh! Il  sorriso , non li dà gioia…no,
perché è il sorriso di lei  la ragione della tua esistenza ,
non più la Terra a tenerlo fermo ,ma l’esistenza di lei.
Lo sguardo di lui  che colpisce gli occhi di lei fa invidia anche al sole:
dolce, sereno, colmo di un eterno e sconfinato amore
che gli fa perdere il senso della vita e della persona,
quel amore che è l’unica cosa a poterlo  salvare
dal suo lurido destino e strapparlo  dalle  grinfie  della  solitudine!
Improvviso il mille novecento
cinquanta due passa sull'Italia:
solo il popolo ne ha un sentimento
vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
la modernità, benché sempre il più
moderno sia esso, il popolo, spanto
in borghi, in rioni, con gioventù
sempre nuove - nuove al vecchio canto -
a ripetere ingenuo quello che fu.

Scotta il primo sole dolce dell'anno
sopra i portici delle cittadine
di provincia, sui paesi che sanno
ancora di nevi, sulle appenniniche
greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
i nuovi colori delle tele, i nuovi
vestiti come in limpidi roghi
dicono quanto oggi si rinnovi
il mondo, che diverse gioie sfoghi...

Ah, noi che viviamo in una sola
generazione ogni generazione
vissuta qui, in queste terre ora
umiliate, non abbiamo nozione
vera di chi è partecipe alla storia
solo per orale, magica esperienza;
e vive puro, non oltre la memoria
della generazione in cui presenza
della vita è la sua vita perentoria.

Nella vita che è vita perché assunta
nella nostra ragione e costruita
per il nostro passaggio - e ora giunta
a essere altra, oltre il nostro accanito
difenderla - aspetta - cantando supino,
accampato nei nostri quartieri
a lui sconosciuti, e pronto fino
dalle più fresche e inanimate ère -
il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

E se ci rivolgiamo a quel passato
ch'è nostro privilegio, altre fiumane
di popolo ecco cantare: recuperato
è il nostro moto fin dalle cristiane
origini, ma resta indietro, immobile,
quel canto. Si ripete uguale.
Nelle sere non più torce ma globi
di luce, e la periferia non pare
altra, non altri i ragazzi nuovi...

Tra gli orti cupi, al pigro solicello
Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
di Toscana, con strilli di rondinini:
Hor atorno fratt Helya! La santa
violenza sui rozzi cuori il clero
calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
feroce nel feudo provinciale l'Impero
da Iddio imposto: e il popolo canta.

Un grande concerto di scalpelli
sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
suona, giganteggiando il travertino
nel nuovo spazio in cui s'affranca
l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
jersera... ripete con l'anima spanta
nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
resta nel popolo. E il popolo canta.

Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
e trepidi nel vento napoleonico,
all'Inno dell'Albero della Libertà,
tremano i nuovi colori delle nazioni.
Ma, cane affamato, difende il bracciante
i suoi padroni, ne canta la ferocia,
Guagliune 'e mala vita! In branchi
feroci. La libertà non ha voce
per il popolo cane. E il popolo canta.

Ragazzo del popolo che canti,
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
è vero, cantando, l'antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare.

Nella tua incoscienza è la coscienza
che in te la storia vuole, questa storia
il cui Uomo non ha più che la violenza
delle memorie, non la libera memoria...
E ormai, forse, altra scelta non ha
che dare alla sua ansia di giustizia
la forza della tua felicità,
e alla luce di un tempo che inizia
la luce di chi è ciò che non sa.
O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme
Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
Oimè quante ferite,
Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio,
Formesissima donna!
Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia,
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.
Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Perché, perché? Dov'è la forza antica?
Dove l'armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica
0 qual tanta possanza,
Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? Non ti difende
Nessun dè tuoi? L'armi, qua l'armi: ío solo
Combatterà, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl'italici petti il sangue mio.
Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d'armi
E di carri e di voci e di timballi
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di *****
Come tra nebbia lampi.
Nè ti conforti e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L'itata gioventude? 0 numi, o numi
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.
Oh venturose e care e benedette
L'antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre
E voi sempre onorate e gloriose,
0 tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch'alme franche e generose!
Lo credo che le piante e i sassi e l'onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprir le invitte schiere
Dè corpi ch'alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l'Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
E sul colle d'Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salia,
Guardando l'etra e la marina e il suolo.
E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Toglicasi in man la lira:
Beatissimi voi,
Ch'offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
Nell'armi e nè perigli
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
Come si lieta, o figli,
L'ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e, duro?
Parea ch'a danza e non a morte andasse
Ciascun dè vostri, o a splendido convito:
Ma v'attendea lo scuro
Tartaro, e l'ond'a morta;
Nè le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l'aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.
Ma non senza dè Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia;
Tal fra le Perse torme infuriava
L'ira dè greci petti e la virtute.
Vè cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute,
E correr frà primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno;
vè come infusi e tintí
Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d'infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scriva.
Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell'imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
0 benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall'uno all'altro polo.
Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest'alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch'io per la Grecia i mororibondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
Così la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la, vostra duri.
Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l'aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! Allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l'aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre dè servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.
Né mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sé, ma perché tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol dè malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch'** appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l'allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell'arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M'era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! Sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m'avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell'imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d'affanno.
E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
Dè miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai cò silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia! ) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
O Nerina! E di te forse non odo
Questi luoghi parlar? Caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond'eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
Io ti ** vista seduta al pianoforte
e mi sei parsa un angelo, una vergine
di certissimo aspetto - come fossi
oggi cresciuta lì su quelle soglie
di sveltissima musica, o fermento
bello di donna dalle dritte spalle
cui le dita di angelo racchiuso

hanno impresso una curva di mistero
mentre che all'apparenza ne gioivi
profondamente come in veste nuova.

E noi tutti di te ripensavamo
cose profonde e più miracolosa
che una vetta di sogno la tua dolce
cara presenza ci scioglieva i nodi
dentro il sangue del male e sollevava
la nostr'aria nel palpito felice
dei tuoi biondi finissimi capelli.
Sono cresciuto in una terra strana
dopo che hai messo all'ombra la mia luce,
quasi non mossi piede dalla soglia
della mia meraviglia
per il dio nuovo cui tu m'opponevi.
In me cresceva il Dio dei miei domini
(ero ancora ragazzo)
ma tu mi hai rotto l'urlo ai vorticosi
margini della bocca,
l'urlo della potente giovinezza.
Mamma, io ti ringrazio
dalla rigida tomba entro cui siede
il mio pensiero finalmente puro.
Ora vedo che a forza mi hai strappato
il verde degli amari desideri,
mi hai edificato come l'architetto
sapiente che ritoglie chiari miti
dalle antiche macerie.

Nacqui umana rovina come tutti,
tu mi hai intessuta un'ala senza geli...
Donde, o vecchina, queste violette
serene come un lontanar di monti
nel puro occaso? Poi che il gelo ha strette
tutte le fonti;
il gelo brucia dalle stelle, o nonna,
ogni foglia, ogni radica, ogni zolla. -
- Tiepida, sappi, lungo la Corsonna
geme una polla.
Là noi sciacquiamo il candido bucato
nell'onda calda in mezzo a nevi e brine;
e il poggio è pieno di viole, e il prato
di pratelline. -
Ah!... ma, poeta, non ancor nel pio
tuo cuore è l'onda che discioglie il gelo?
Non è la polla, calda nell'oblio
freddo del cielo?
Ché sempre, se ti agghiaccia la sventura,
se l'odio altrui ti spoglia e ti desola,
spunta, al tepor dell'anima tua pura,
qualche viola.
L'aria infiammata che mi invoca a danze
di primavera non può nulla ormai
sopra il mio corpo sordido dagli anni.

La mia fame è più alata di un uccello
ma si ciba di stupida gramigna.

Forme pure mi scuotono la mente
perché traduca tutte le mie ire,
ma ** le mani inceppate dalle tristi
catene d'ozio e grande lo sconforto
mi ha diluviata dopo che sparisti.

Se affidassi al buon vento questo viso
dove già si accavallano le tracce
di un'antica bellezza e mi affissassi
alla mano pulita della luce,
so che ne tornerei trasfigurata.
Saffo, antica maestra e disperata
portatrice d'amore,
Saffo di viole incoronata e altera
rendimi sciolta e in volo poi che accolga
la tua grande parentesi nel cuore.
Le mie notti deserte io le conosco
già dai tuoi grandi, morbidi giacigli
ove amore avventava alle tue labbra
mirra e miele. Anche io non sono sazia
come tu fosti ma mi aggiro eterna
dentro anime aperte ad ogni lutto.
Anche io ** l'amor mio che mi disdegna,
Saffo mia grande e inutile maestra
perché mi lasci e impoverisci il seno
delle tue offerte? Giacerò infeconda
anche stanotte e intorno a me i costanti
fedelissimi aspetti
di cupido apriranno dentro l'ali
rapidissimi inviti cui rifuggo
rimpiangendo e scoperta e innamorata.
Saffo rendimi pura e innominata
Come le parole, ove non cada
lacrima e tempo, ove non misuri
religione i suoi passi, ch'io non crolli
come crollasti tu dalle tue rupi...
Nulla di ciò che accade e non ha volto
e nulla che precipiti puro, immune da traccia,
percettibile solo alla pietà
come te mi significa la morte.
Il vento ricco oscilla corrugato
sui vetri, finge estatiche presenze
e un oriente bianco s'esala
nei quadrivi di febbre lastricati.
Dalla pioggia alle candide schiarite
si levano allo sguardo variopinto
blocchi d'aria in festevoli distanze.
Apparire e sparire è una chimera.
È questa l'ora tua, è l'ora di quei re
sismici il cui trono è il movimento,
insensibili se non al freddo di morte
che lasciano nel sangue all'improvviso.
Loro sede fulminea è qualche specchio
assorto nella sera, ivi s'incontrano,
ivi si riconoscono in un battito.
Sei certa ed ingannevole, è vano ch'io ti cerchi,
ti persegua di là dai fortilizi,
dalle guglie riflesse negli asfalti,
nei luoghi ove l'amore non può giungere
né la dimenticanza di se stessi.
O voi che, mentre i culmini Apuani
il sole cinge d'un vapor vermiglio,
e fa di contro splendere i lontani
vetri di Tiglio;
venite a questa fonte nuova, sulle
***** la brocca, netta come specchio,
equilibrando tremula, fanciulle
di Castelvecchio;
e nella strada che già s'ombra, il busso
picchia dè duri zoccoli, e la gonna
stiocca passando, e suona eterno il flusso
della Corsonna:
fanciulle, io sono l'acqua della Borra,
dove brusivo con un lieve rombo
sotto i castagni; ora convien che corra
chiusa nel piombo.
A voi, prigione dalle verdi alture,
pura di vena, vergine di fango,
scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure
vergini, piango:
non come piange nel salir grondando
l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo:
io solo mando tra il gorgoglio blando
qualche singhiozzo.
Oh! la mia vita di solinga polla
nel taciturno colle delle capre!
Udir soltanto foglia che si crolla,
cardo che s'apre,
vespa che ronza, e queruli richiami
del forasiepe! Il mio cantar sommesso
era tra i poggi ornati di ciclami
sempre lo stesso;
sempre sì dolce! E nelle estive notti,
più, se l'eterno mio lamento solo
s'accompagnava ai gemiti interrotti
dell'assiuolo,
più dolce, più! Ma date a me, ragazze
di Castelvecchio, date a me le nuove
del mondo bello: che si fa? Le guazze
cadono, o piove?
E per le selve ancora si tracoglie,
o fate appietto? Ed il metato fuma,
o già picchiate? Aspettano le foglie
molli la bruma,
o le crinelle empite nè frondai
in cui dall'Alpe è scesa qualche breve
frasca di faggio? Od è già l'Alpe ormai
bianca di neve?
Più nulla io vedo, io che vedea non molto
quando chiamavo, con il mio rumore
fresco, il fanciullo che cogliea nel folto
macole e more.
Col nepotino a me venìa la bianca
vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo
andare come vaccherella stanca
va col suo redo.
Nella deserta chiesa che rovina,
vive la bianca Matta dei Beghelli
più? Desta lei la sveglia mattutina
più, dè fringuelli?
Essa veniva al garrulo mio rivo
sempre garrendo dentro sé, la vecchia:
e io, garrendo ancora più, l'empivo
sempre la secchia.
Ah! che credevo d'essere sua cosa!
Con lei parlavo, ella parlava meco,
come una voce nella valle ombrosa
parla con l'eco.
Però singhiozzo ripensando a questa
che lasciai nella chiesa solitaria,
che avea due cose al mondo, e gliene resta
l'una, ch'è l'aria.
Rivedo le tue lettere d'amore
illuminata, adesso, dal distacco;
senza quasi rancore...
L'illusione era forte a sostenerci;
ci reggevamo entrambi negli abbracci
pregando che durassero gli intenti,
ci promettemmo il "sempre" degli amanti,
certi nei nostri spiriti d'Iddii...
... E hai potuto lasciarmi,
e hai potuto intuire un'altra luce
che seguitasse dopo le mie spalle!
Mi hai suscitato dalle scarse origini
con richiami di musica divina,
mi hai resa divergenza di dolore,
spazio per la tua vita di ricerca
per abitarmi il tempo di un errore...
... E mi hai lasciato solo le tue lettere
onde ne ribevessi la mia assenza!
Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,
arano: a lente grida, uno le lente
vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra paziente;
ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s'ode
il suo sottil tintinnio come d'oro.
Quando avrò alzato in me l'intimo fuoco
che originava già queste bufere
e sarò salda, libera, vitale,
allora sarò sola?

E forse staccherò dalle radici
la rimossa speranza dell'amore,
ricorderò che frutto d'ogni
limite umano è assenza di memoria,
tutta mi affonderò nel divenire...

Ma fino a che io tremo del principio
cui la tua mano mi iniziò da ieri,
ogni attributo vivo che mi preme
giace incomposto nelle tue misure.
Stefano Mar 2013
Scivolando silenziosi sulla strada sinuosa senza sentire sapori scientificamente salati serviti solo sui saliscendi solari
Stavamo scalciando scomodi salmi sapendoci signori socchiusi soltanto da errabondi usurai
musa dalle mille parole socchiudi il silenzio sigillando i miei battiti nel delirio di un bacio
Non è che dalle cuspidi amorose
crescano i mutamenti della carne,
Milano benedetta
Donna altera e sanguigna
con due mammelle amorose
pronte a sfamare i popoli del mondo,
Milano dagli irti colli
che ha veduto qui
crescere il mio amore
che ora è defunto.
Milano dai vorticosi pensieri
dove le mille allegrie
muoiono piangenti sul Naviglio.
tokonoma Nov 2014
sideways ptoses rooted
in statues, bitter waters
of last monarchs clinging
to red cornel crucifixes
while naked november
raised from plutonian mist,
bathing us, almost, again,
in summer paradoxes

——————————————

Italian version, from “Chieti, Scalo”, 2014

AZIONE PARALLELA
le ptosi di tralíce allignavano
in statue, amarissime acque
di ultimi sovrani aggrappati
a rossi crocifissi di corniolo
mentre un nudo novembre
saliva dalle nebbie plutonie
circonfondendoci quasi d’
ancóra paradossi d’estate
Amici ci aspetta una barca e dondola
nella luce ove il cielo s'inarca
e tocca il mare, volano creature pazze ad amare
il viso d'Iddio caldo di speranza
in alto in basso cercando
affetto in ogni occulta distanza
e piangono: noi siamo in terra
ma ci potremo un giorno librare
esilmente piegare sul seno divino
come rose dai muri nelle strade odorose
sul ***** che le chiede senza voce.

Amici dalla barca si vede il mondo
e in lui una verità che precede
intrepida, un sospiro profondo
dalle foci alle sorgenti;
la Madonna dagli occhi trasparenti
scende adagio incontro ai morenti,
raccoglie il cumulo della vita, i dolori
le voglie segrete da anni sulla faccia inumidita.
Le ragazze alla finestra annerita
con lo sguardo verso i monti
non sanno finire d'aspettare l'avvenire.

Nelle stanze la voce materna
senza origine, senza profondità s'alterna
col silenzio della terra, è bella
e tutto par nato da quella.
Sappi - e forse lo sai, nel camposanto -
la bimba dalle lunghe anella d'oro,
e l'altra che fu l'ultimo tuo pianto,
sappi ch'io le raccolsi e che le adoro.
Per lor ripresi il mio coraggio affranto,
e mi detersi l'anima per loro:
hanno un tetto, hanno un nido, ora, mio vanto:
e l'amor mio le nutre e il mio lavoro.
Non son felici, sappi, ma serene:
il lor sorriso ha una tristezza pia:
io le guardo - o mia sola erma famiglia! -
e sempre a gli occhi sento che mi viene
quella che ti bagnò nell'agonia
non terminata lagrima le ciglia.
Di gloria il viso e la gioconda voce,
Garzon bennato, apprendi,
E quanto al femminile ozio sovrasti
La sudata virtude. Attendi attendi,
Magnanimo campion (s'alla veloce
Piena degli anni il tuo valor contrasti
La spoglia di tuo nome), attendi e il core
Movi ad alto desio. Te l'echeggiante
Arena e il circo, e te fremendo appella
Ai fatti illustri il popolar favore;
Te rigoglioso dell'età novella
Oggi la patria cara
Gli antichi esempi a rinnovar prepara.
Del barbarico sangue in Maratona
Non colorò la destra
Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo,
Che stupido mirò l'ardua palestra,
Né la palma beata e la corona
D'emula brama il punse. E nell'Alfeo
Forse le chiome polverose e i fianchi
Delle cavalle vincitrici asterse
Tal che le greche insegne e il greco acciaro
Guidò dè Medi fuggitivi e stanchi
Nelle pallide torme; onde sonaro
Di sconsolato grido
L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido.
Vano dirai quel che disserra e scote
Della virtù nativa
Le riposte faville? E che del fioco
Spirto vital negli egri petti avviva
Il caduco fervor? Le meste rote
Da poi che Febo instiga, altro che gioco
Son l'opre dè mortali? Ed è men vano
Della menzogna il vero? A noi di lieti
Inganni e di felici ombre soccorse
Natura stessa: e là dove l'insano
Costume ai forti errori esca non porse,
Negli ozi oscuri e nudi
Mutò la gente i gloriosi studi.
Tempo forse verrà ch'alle ruine
Delle italiche moli
Insultino gli armenti, e che l'aratro
Sentano i sette colli; e pochi Soli
Forse fien volti, e le città latine
Abiterà la cauta volpe, e l'atro
Bosco mormorerà fra le alte mura;
Se la funesta delle patrie cose
Obblivion dalle perverse menti
Non isgombrano i fati, e la matura
Clade non torce dalle abbiette genti
Il ciel fatto cortese
Dal rimembrar delle passate imprese.
Alla patria infelice, o buon garzone,
Sopravviver ti doglia.
Chiaro per lei stato saresti allora
Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia,
Nostra colpa e fatal. Passò stagione;
Che nullo di tal madre oggi s'onora:
Ma per te stesso al polo ergi la mente.
Nostra vita a che val? Solo a spregiarla:
Beata allor che nè perigli avvolta,
Se stessa obblia, né delle putri e lente
Ore il danno misura e il flutto ascolta;
Beata allor che il piede
Spinto al varco leteo, più grata riede.
Depuis qu'Adam, ce cruel homme,
A perdu son fameux jardin,
Où sa femme, autour d'une pomme,
Gambadait sans vertugadin,
Je ne crois pas que sur la terre
Il soit un lieu d'arbres planté
Plus célébré, plus visité,
Mieux fait, plus joli, mieux hanté,
Mieux exercé dans l'art de plaire,
Plus examiné, plus vanté,
Plus décrit, plus lu, plus chanté,
Que l'ennuyeux parc de Versailles.
Ô dieux ! ô bergers ! ô rocailles !
Vieux Satyres, Termes grognons,
Vieux petits ifs en rangs d'oignons,
Ô bassins, quinconces, charmilles !
Boulingrins pleins de majesté,
Où les dimanches, tout l'été,
Bâillent tant d'honnêtes familles !
Fantômes d'empereurs romains,
Pâles nymphes inanimées
Qui tendez aux passants les mains,
Par des jets d'eau tout enrhumées !
Tourniquets d'aimables buissons,
Bosquets tondus où les fauvettes
Cherchent en pleurant leurs chansons,
Où les dieux font tant de façons
Pour vivre à sec dans leurs cuvettes !
Ô marronniers ! n'ayez pas peur ;
Que votre feuillage immobile,
Me sachant versificateur,
N'en demeure pas moins tranquille.
Non, j'en jure par Apollon
Et par tout le sacré vallon,
Par vous, Naïades ébréchées,
Sur trois cailloux si mal couchées,
Par vous, vieux maîtres de ballets,
Faunes dansant sur la verdure,
Par toi-même, auguste palais,
Qu'on n'habite plus qu'en peinture,
Par Neptune, sa fourche au poing,
Non, je ne vous décrirai point.
Je sais trop ce qui vous chagrine ;
De Phoebus je vois les effets :
Ce sont les vers qu'on vous a faits
Qui vous donnent si triste mine.
Tant de sonnets, de madrigaux,
Tant de ballades, de rondeaux,
Où l'on célébrait vos merveilles,
Vous ont assourdi les oreilles,
Et l'on voit bien que vous dormez
Pour avoir été trop rimés.

En ces lieux où l'ennui repose,
Par respect aussi j'ai dormi.
Ce n'était, je crois, qu'à demi :
Je rêvais à quelque autre chose.
Mais vous souvient-il, mon ami,
De ces marches de marbre rose,
En allant à la pièce d'eau
Du côté de l'Orangerie,
À gauche, en sortant du château ?
C'était par là, je le parie,
Que venait le roi sans pareil,
Le soir, au coucher du soleil,
Voir dans la forêt, en silence,
Le jour s'enfuir et se cacher
(Si toutefois en sa présence
Le soleil osait se coucher).
Que ces trois marches sont jolies !
Combien ce marbre est noble et doux !
Maudit soit du ciel, disions-nous,
Le pied qui les aurait salies !
N'est-il pas vrai ? Souvenez-vous.
- Avec quel charme est nuancée
Cette dalle à moitié cassée !
Voyez-vous ces veines d'azur,
Légères, fines et polies,
Courant, sous les roses pâlies,
Dans la blancheur d'un marbre pur ?
Tel, dans le sein robuste et dur
De la Diane chasseresse,
Devait courir un sang divin ;
Telle, et plus froide, est une main
Qui me menait naguère en laisse.
N'allez pas, du reste, oublier
Que ces marches dont j'ai mémoire
Ne sont pas dans cet escalier
Toujours désert et plein de gloire,
Où ce roi, qui n'attendait pas,
Attendit un jour, pas à pas,
Condé, lassé par la victoire.
Elles sont près d'un vase blanc,
Proprement fait et fort galant.
Est-il moderne ? est-il antique ?
D'autres que moi savent cela ;
Mais j'aime assez à le voir là,
Étant sûr qu'il n'est point gothique.
C'est un bon vase, un bon voisin ;
Je le crois volontiers cousin
De mes marches couleur de rose ;
Il les abrite avec fierté.
Ô mon Dieu ! dans si peu de chose
Que de grâce et que de beauté !

Dites-nous, marches gracieuses,
Les rois, les princes, les prélats,
Et les marquis à grands fracas,
Et les belles ambitieuses,
Dont vous avez compté les pas ;
Celles-là surtout, j'imagine,
En vous touchant ne pesaient pas.
Lorsque le velours ou l'hermine
Frôlaient vos contours délicats,
Laquelle était la plus légère ?
Est-ce la reine Montespan ?
Est-ce Hortense avec un roman,
Maintenon avec son bréviaire,
Ou Fontange avec son ruban ?
Beau marbre, as-tu vu la Vallière ?
De Parabère ou de Sabran
Laquelle savait mieux te plaire ?
Entre Sabran et Parabère
Le Régent même, après souper,
Chavirait jusqu'à s'y tromper.
As-tu vu le puissant Voltaire,
Ce grand frondeur des préjugés,
Avocat des gens mal jugés,
Du Christ ce terrible adversaire,
Bedeau du temple de Cythère,
Présentant à la Pompadour
Sa vieille eau bénite de cour ?
As-tu vu, comme à l'ermitage,
La rondelette Dubarry
Courir, en buvant du laitage,
Pieds nus, sur le gazon fleuri ?
Marches qui savez notre histoire,
Aux jours pompeux de votre gloire,
Quel heureux monde en ces bosquets !
Que de grands seigneurs, de laquais,
Que de duchesses, de caillettes,
De talons rouges, de paillettes,
Que de soupirs et de caquets,
Que de plumets et de calottes,
De falbalas et de culottes,
Que de poudre sous ces berceaux,
Que de gens, sans compter les sots !
Règne auguste de la perruque,
Le bourgeois qui te méconnaît
Mérite sur sa plate nuque
D'avoir un éternel bonnet.
Et toi, siècle à l'humeur badine,
Siècle tout couvert d'amidon,
Ceux qui méprisent ta farine
Sont en horreur à Cupidon !...
Est-ce ton avis, marbre rose ?
Malgré moi, pourtant, je suppose
Que le hasard qui t'a mis là
Ne t'avait pas fait pour cela.
Aux pays où le soleil brille,
Près d'un temple grec ou latin,
Les beaux pieds d'une jeune fille,
Sentant la bruyère et le thym,
En te frappant de leurs sandales,
Auraient mieux réjoui tes dalles
Qu'une pantoufle de satin.
Est-ce d'ailleurs pour cet usage
Que la nature avait formé
Ton bloc jadis vierge et sauvage
Que le génie eût animé ?
Lorsque la pioche et la truelle
T'ont scellé dans ce parc boueux,
En t'y plantant malgré les dieux,
Mansard insultait Praxitèle.
Oui, si tes flancs devaient s'ouvrir,
Il fallait en faire sortir
Quelque divinité nouvelle.
Quand sur toi leur scie a grincé,
Les tailleurs de pierre ont blessé
Quelque Vénus dormant encore,
Et la pourpre qui te colore
Te vient du sang qu'elle a versé.

Est-il donc vrai que toute chose
Puisse être ainsi foulée aux pieds,
Le rocher où l'aigle se pose,
Comme la feuille de la rose
Qui tombe et meurt dans nos sentiers ?
Est-ce que la commune mère,
Une fois son oeuvre accompli,
Au hasard livre la matière,
Comme la pensée à l'oubli ?
Est-ce que la tourmente amère
Jette la perle au lapidaire
Pour qu'il l'écrase sans façon ?
Est-ce que l'absurde vulgaire
Peut tout déshonorer sur terre
Au gré d'un cuistre ou d'un maçon ?
Amore ardente da dove prendi tutte queste energie?
Dalle memorie confuse tra sogni e paure che vorrei bruciare?

Amore perché persisti e non sei fugace come lei?

Strapperei il mio cuore dal mio petto per non sentirlo più pulsare d'un amore morto.

Amore violento che mi hai reso succube dei miei sentimenti, non vorrai mica bruciare per sempre?

Attendo pazientemente che tu mi illuda della tua fine con le tue ceneri
A D.T.
Ci vediamo in proiezione, ed ecco
la città, in una sua povera ora nuda,
terrificante come ogni nudità.
Terra incendiata il cui incendio
spento stasera o da millenni,
è una cerchia infinita di ruderi rosa,
carboni e ossa biancheggianti, impalcature
dilavate dall'acqua e poi bruciate
da nuovo sole. La radiosa Appia
che formicola di migliaia di insetti
- gli uomini d'oggi - i neorealistici
ossessi delle Cronache in volgare.
Poi compare Testaccio, in quella luce
di miele proiettata sulla terra
dall'oltretomba. Forse è scoppiata,
la Bomba, fuori dalla mia coscienza.
Anzi, è così certamente. E la fine
del Mondo è già accaduta: una cosa
muta, calata nel controluce del crepuscolo.
Ombra, chi opera in questa èra.
Ah, sacro Novecento, regione dell'anima
in cui l'Apocalisse è un vecchio evento!
Il Pontormo con un operatore
meticoloso, ha disposto cantoni
di case giallastre, a tagliare
questa luce friabile e molle,
che dal cielo giallo si fa marrone
impolverato d'oro sul mondo cittadino...
e come piante senza radice, case e uomini,
creano solo muti monumenti di luce
e d'ombra, in movimento: perché
la loro morte è nel loro moto.
Vanno, come senza alcuna colonna sonora,
automobili e camion, sotto gli archi,
sull 'asfalto, contro il gasometro,
nell'ora, d'oro, di Hiroshima,
dopo vent'anni, sempre più dentro
in quella loro morte gesticolante: e io
ritardatario sulla morte, in anticipo
sulla vita vera, bevo l'incubo
della luce come un vino smagliante.
Nazione senza speranze! L'Apocalisse
esploso fuori dalle coscienze
nella malinconia dell'Italia dei Manieristi,
ha ucciso tutti: guardateli - ombre
grondanti d'oro nell'oro dell'agonia.
L'uomo, monotono universo,
Crede allargarsi i beni
E dalle sue mani febbrili
Non escono senza fine che limiti.

Attaccato sul vuoto
Al suo filo di ragno,
Non teme e non ******
Se non il proprio grido.

Ripara il logorio alzando tombe,
E per pensarti, Eterno,
Non ha che le bestemmie.

— The End —