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Arcassin B May 2015
By Arcassin Burnham

I,
Could be,
The one,
To show you life,
Breathe on your own,
I,
Would like to,
Know,
What drives you,
May I take you home,
Cause if the hour of love is real,
I can't go on,

So take your short breaths,
Be,
fulfilling,
Why we should live this way,
Take just one more step,
Hands,
On my face,
A kiss,
Would be okay,
Cause if the hour of love is real,
I can't go on,


I,
Could be,
The one,
To show you life,
Breathe on your own,
And when,
The time comes,
We will see,
Each other,
Again someday,
Cause if the hour of love is real,
I'm here to stay.
emily posa is a character taken from the movie seven pounds starring will smith , i love this movie til the day i die because it hits hard at your emotions .... :(
Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
È lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno cò suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dir questa
Solitudine immensa? Ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu sè queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ** fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
Todo amor nuevo que aparece
nos ilumina la existencia,
nos la perfuma y enflorece.

En la más densa oscuridad
toda mujer es refulgencia
y todo amor es claridad.
Para curar la pertinaz
pena, en las almas escondida,
un nuevo amor es eficaz;
porque se posa en nuestro mal
sin lastimar nunca la herida,
como un destello en un cristal.

Como un ensueño en una cuna,
como se posa en la rüina
la piedad del rayo de la luna.
como un encanto en un hastío,
como en la ***** de una espina
una gotita de rocío...
¿Que también sabe hacer sufrir?
¿Que también sabe hacer llorar?
¿Que también sabe hacer morir?
-Es que tú no supiste amar...
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai né pensi
Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m'affaccio,
E l'antica natura onnipossente,
Che mi fece all'affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or dà trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già ch'io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell'artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
Di què popoli antichi? Or dov'è il grido
Dè nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
Che n'andò per la terra e l'oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s'aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s'udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
¿Hay algo en esta vida
Toda dolores,
Más tierno que los niños
Y que las flores?
¿Hay símbolo más dulce,
Más elocuente,
Que diga lo que el alma
Callando siente?
Mirad... cierran el campo
Los horizontes;
Son murallas azules
Los altos montes.
En sus cimas se posa
La blanca nube
Que del tranquilo lago
Ligera sube.
El sol quiebra sus rayos
En la cascada,
Y ios vientos suspiran
En la enramada.
Sobre el enhiesto roble
Tosco y severo,
Entre las verdes hojas
Canta el jilguero.
La parvada de tordos
Rauda se aleja,
Y en los lirios azules
Zumba la abeja.
Luce el granado flores
Como escarlata,
Las azucenas fingen
Copas de plata;
Y en naranjos que mecen
Doradas pomas,
Cantoras de la tarde
Son las palomas.
Al son de los arroyos
Murmuradores
Se duelen y se plañen
Los ruiseñores,
Y en los alegres prados
Y en las colinas,
¡Qué alegres van y vuelven
Las golondrinas!
¡Cómo brillan los rayos
Del sol fecundo!
¡Qué jardín tan risueño
Parece el mundo!
Es porque está de gala
Natura entera;
Es porque está reinando
La Primavera,
Y no hay en esta vida,
Toda dolores,
Nada tan expresivo
Como las flores.
Una flor en el pecho
Del ser amado,
Es la llave de un cielo
Siempre anhelado.
Allí encuentra la vida
Que el alma quiere,
Y al fuego de esa vida
Marchita muere.
Que así en amores miran
Los corazones,
Morir como las rosas
Las ilusiones.
En la iglesia más pobre,
Más solitaria,
Es un ramo de flores
Una plegaria:
Que sus hojas que adornan
El templo santo
La fe las humedece
Con tierno llanto;
Y la fe con sus alas
De raudo vuelo,
Oración y perfume
Remonta al cielo.
Cual corona de estrellas
Los azahares
Brillan en blancas frentes
En los altares:
¿Qué diadema más digna
De la belleza?
¿Qué símbolo más tierno
De la pureza?...
¡Ay! también en las tumbas
Las flores crecen;
Ni se cansan, ni olvidan,
Ni desfallecen.
Allí, lejos del brillo
Del mundo vano,
Crecen sobre la madre,
Sobre el hermano.
Que el manto del olvido
La tumba envuelva:
Sobre él tiende sus flores
La madreselva.
La memoria de un muerto
Queda perdida;
La flor es una hermana
Que nunca olvida,
Y de la helada tumba
Bajo el abrigo,
Dice al que duerme solo:
«Yo estoy contigo».
¡Ay! son flores hermosas
Las ilusiones
Que embriagan y adormecen
Los corazones.
Allá en la Primavera
¡Cuántas nacieron!
Unas se marchitaron,
Otras se fueron,
Y sobre elcampo estéril
De los dolores,
Son cardos los recuerdos:
¡Qué tristes flores!
El campo que hoy alegra
La luz del día,
Lo secará diciembre
Con mano fría;
Pero pronto, a ios besos
Del sol ardiente,
Tornará su belleza
Más esplendente.
Y abrirán sus nectarios
En las corolas,
Los lirios, las violetas,
Las amapolas.
Tendrá rumor la fuente,
Aroma el prado,
El jardín mariposas,
Fruto el granado;
Y sonarán los cantos
Dulces, sentidos,
De avecillas que pueblen
Los nuevos nidos.
Así también el alma
Que sufre y llora,
Tras de la negra noche
Tiene su aurora.
A cuántos bellos nombres
Su luz alcanza
Se llama fe, ventura,
Gloria, esperanza;
Que si son cual invierno
Las decepciones,
¡Tienen su primavera
Las ilusiones!
Se llora una esperanza
Que se derrumba,
Y luego crecen flores
Sobre su tumba.
Fecunda el alma humana
Como la tierra,
Gérmenes de ventura
Constante encierra,
Y halla, para consuelo
De sus dolores:
¡La mujer! ¡La más bella
Flor de las flores!
novedad de hoy y ruina de pasado mañana, enterrda y resucitada cada día,
  convivida en calles, plazas, autobuses, taxis, cines, teatros, bares, hoteles, palomares, catacumbas,
    la ciudad enorme que cabe en un cuarto de tres metros cuadrados inacabable como una galaxia,
    la ciudad que nos sueña a todos y que todos hacemos y deshacemos y rehacemos mientras soñamos,
    la ciudad que todos soñamos y que cambia sin cesar mientras la soñamos,
    la ciudad que despierta cada cien años y se mira en el espejo de una palabra y no se reconoce y otra vez se echa a dormir,
    la ciudad que brota de los párpados de la mujer que duerme a mi lado y se convierte,
    con sus monumentos y sus estatuas, sus historias y sus leyendas,
    en un manantial hecho de muchos ojos y cada ojo refleja el mismo paisaje detenido,
    antes de las escuelas y las prisiones, los alfabetos y los números, el altar y la ley:
    el río que es cuatro ríos, el huerto, el árbol, la Varona y el  Varón vestido de viento
    -volver, volver, ser otra vez arcilla, bañarse en esa luz, dormir bajo esas luminarias,
    flotar sobre las aguas del tiempo como la hoja llameante del arce que arrastra la corriente,
    volver, ¿estamos dormidos o despiertos?, estamos, nada más estamos, amanece, es temprano,
    estamos en la ciudad, no podemos salir de ella sin caer en  otra, idéntica aunque sea distinta,
    hablo de la ciudad inmensa, realidad diaria hecha de dos palabras: los otros,
    y en cada uno de ellos hay un yo cercenado de un nosotros, un yo a la deriva,
    hablo de la ciudad construida por los muertos, habitada por sus tercos fantasmas, regida por su despótica memoria,
    la ciudad con la que hablo cuando no hablo con nadie y que ahora me dicta estas palabras insomnes,
    hablo de las torres, los puentes, los subterráneos, los hangares, maravillas y desastres,
    El estado abstracto y sus policías concretos, sus pedagogos, sus carceleros, sus predicadores,
    las tiendas en donde hay de todo y gastamos todo y todo se vuelve humo,
    los mercados y sus pirámides de frutos, rotación de las cuatro estaciones, las reses en canal colgando
de los garfios, las colinas de especias y las torres de frascos y conservas,
    todos los sabores y los colores, todos los olores y todas las materias, la marea de las voces -agua, metal, madera, barro-, el trajín, el regateo y el trapicheo desde el comienzo de los días,
    hablo de los edificios de cantería y de mármol, de cemento, vidrio, hierro, del gentío en los vestíbulos y portales, de los elevadores que suben y bajan como el mercurio en los termómetros,
    de los bancos y sus consejos de administración, de las fábricas y sus gerentes, de los obreros y sus máquinas incestuosas,
    hablo del desfile inmemorial de la prostitución por calles largas como el deseo y como el aburrimiento,
    del ir y venir de los autos, espejo de nuestros afanes, quehaceres y pasiones (¿por qué, para qué, hacia dónde?),
    de los hospitales siempre repletos y en los que siempre morimos solos,
    hablo de la penumbra de ciertas iglesias y de las llamas titubeantes de los cirios en los altares,
    tímidas lenguas con las que los desamparados hablan con los santos y con las vírgenes en un lenguaje ardiente y entrecortado,
    hablo de la cena bajo la luz tuerta en la mesa coja y los platos desportillados,
    de las tribus inocentes que acampan en los baldíos con sus mujeres y sus hijos, sus animales y sus espectros,
    de las ratas en el albañal y de los gorriones valientes que anidan en los alambres, en las cornisas y en los árboles martirizados,
    de los gatos contemplativos y de sus novelas libertinas a la luz de la luna, diosa cruel de las azoteas,
    de los perros errabundos, que son nuestros franciscanos y nuestros bhikkus, los perros que desentierran los huesos del sol,
    hablo del anacoreta y de la fraternidad de los libertarios, de la conjura de los justicieros y de la banda de los ladrones,
    de la conspiración de los iguales y de la sociedad de amigos del Crimen, del club de los suicidas y de Jack el Destripador,
    del Amigo de los Hombres, afilador de la guillotina, y de César, Delicia del Género Humano,
    hablo del barrio paralítico, el muro llagado, la fuente seca, la estatua pintarrajeada,
    hablo de los basureros del tamaño de una montaña y del sol taciturno que se filtra en el polumo,
    de los vidrios rotos y del desierto de chatarra, del crimen de anoche y del banquete del inmortal Trimalción,
    de la luna entre las antenas de la televisión y de una mariposa sobre un bote de inmundicias,
    hablo de madrugadas como vuelo de garzas en la laguna y del sol de alas transparentes que se posa en los follajes de piedra de las iglesias y del gorjeo de la luz en los tallos de vidrio de los palacios,
    hablo de algunos atardeceres al comienzo del otoño, cascadas de oro incorpóreo, transfiguración de este mundo, todo pierde cuerpo, todo se queda suspenso,
    la luz piensa y cada uno de nosotros se siente pensado por esa luz reflexiva, durante un largo instante el tiempo se disipa, somos aire otra vez,
    hablo del verano y de la noche pausada que crece en el horizonte como un monte de humo que poco a poco se desmorona y cae sobre nosotros como una ola,
    reconciliación de los elementos, la noche se ha tendido y su cuerpo es un río poderoso de pronto dormido, nos mecemos en el oleaje de su respiración, la hora es palpable, la podemos tocar como un fruto,
    han encendido las luces, arden las avenidas con el fulgor del deseo, en los parques la luz eléctrica atraviesa los follajes y cae sobre nosotros una llovizna verde y fosforescente que nos ilumina sin mojarnos, los árboles murmuran, nos dicen algo,
    hay calles en penumbra que son una insinuación sonriente, no sabemos adónde van, tal vez al embarcadero de las islas perdidas,
    hablo de las estrellas sobre las altas terrazas y de las frases indescifrables que escriben en la piedra del cielo,
    hablo del chubasco rápido que azota los vidrios y humilla las arboledad, duró veinticinco minutos y ahora allá arriba hay agujeros azules y chorros de luz, el vapor sube del asfalto, los coches relucen, hay charcos donde navegan barcos de reflejos,
    hablo de nubes nómadas y de una música delgada que ilumina una habitación en un quinto piso y de un rumor de risas en mitad de la noche como agua remota que fluye entre raíces y yerbas,
    hablo del encuentro esperado con esa forma inesperada en la que encarna lo desconocido y se manifiesta a cada uno:
    ojos que son la noche que se entreabre y el día que despierta, el mar que se tiende y la llama que habla, pechos valientes: marea lunar,
    labios que dicen sésamo y el tiempo se abra y el pequeño cuarto se vuelve jardín de metamorfosis y el aire y el fuego se enlazan, la tierra y el agua se confunden,
    o es el advenimiento del instante en que allá, en aquel otro lado que es aquí mismo, la llave se cierra y el tiempo cesa de manar;
    instante del hasta aquí, fin del hipo, del quejido y del ansia, el alma pierde cuerpo y se desploma por un agujero del piso, cae en sí misma, el tiempo se ha desfondado, caminamos por un corredor sin fin, jadeamos en un arenal,
    ¿esa música se aleja o se acerca, esas luces pálidas se encienden o apagan?, canta el espacio, el tiempo se disipa: es el boqueo, es la mirada que resbala por la lisa pared, es la pared que se calla, la pared,
    hablo de nuestra historia pública y de nuestra historia secreta, la tuya y la mía,
    hablo de la selva de piedra, el desierto del profeta, el hormigüero de almas, la congregación de tribus, la casa de los espejos, el laberinto de ecos,
    hablo del gran rumor que viene del fondo de los tiempos, murmullo incoherente de naciones que se juntan o dispersan, rodar de multitudes y sus armas como peñascos que se despeñan, sordo sonar de huesos cayendo en el hoyo de la historia,
    hablo de la ciudad, pastora de siglos, madre que nos engendra y nos devora, nos inventa y nos olvida.

CARTA DE CREENCIA
Diego Scarca Feb 2010
Alla voce della persona, ignorata,
non risponde che uno stesso sfondo
di suono paziente, vuoto.
Con gesti circospetti
non si fermano gli oggetti
lasciati in un punto.

C'è stato un giorno qualsiasi,
un avvenimento banale:
qualcuno che dormiva
nelle camere di fianco
mentre si parlava.
E continuan le abitudini.

Sul cortile riposano
la nera facciata
e gli archi dei terrazzi.
Da un angolo proviene
una vampata di terrore.
S'arresta il rumore dei fili
della luce sbattuti.
S'apre una corta reminiscenza.

Nello stesso spazio
occupato prima da un senso strano
ora è un cemento d'angoscia.
Sul parapetto del muro di fronte
cade qualcosa,
poi si muove un animale nel fondo.

Arriveranno altri perduti dettagli,
si sentirà l'assenza.
Quando dal vicolo si scorge
un'altra spoglia di ringhiera
e una parvenza di passi sulla ghiaia,
come un pazzo risvolto, si ripete,
nel grembo dell'essere t'assale,
senza speranza,
un incontrastato malessere
così forte che il tempo appare
nella posa arrogante degli oggetti.

Oltre la scarpata,
piani di terra asciutta, martoriata,
i campi dove si tuffi
l'acqua di motori accesi nella notte
e, dietro, il mare.
E' un disuguale accorgersi
delle distanze.

A volte si sostiene per ore
un manto di oscurità feroce
intorno ad una statua.
Poi non resta che il dissapore
per aver inteso domandare pietà
da un'inutile voce.
Diego Scarca, Architetture del vuoto, Torino, Edizioni Angolo Manzoni, 2007
EM Jun 2014
les deux filles se tenaient maintenant debout face a face. elles avaient l'air plus calmées mais ça en était pas le cas. une atmosphère inconfortable régnait dans la chambre et rien ne se fessait entendre appart les gouttelettes de pluie qui frôlaient furieusement les vitres des fenêtres. plusieurs minutes se passaient lourdement en silence.
"je suis folle amoureuse de lui!" hurla enfin Neira
Esra garda le silence, elle ne préférait pas répondre et n'avait rien a dire en tout cas. elle étais mal à l'aise avec le fait qu'une autre était amoureuse de lui. lui. cet homme impardonnable. elle reçoit presque chaque semaine une histoire le concernant; une histoire qui lui fessait douter de leur relation de plus en plus, une histoire qui fessait diminuer son respect pour lui de plus en plus. cet homme qu'elle a cru être différent c'est avérait similaire aux autres cons si'il n'était pas encore pire. "je n'ai jamais su les choisir" se dit-elle. elle regarda Neira qui avais les yeux larmoyants avec pitié. "pauvre petite" pensa-elle. elle ressentait une certaine culpabilité pour cette situations. si elle n'avait pas bourrer son nez dans les affaires des autre, elle ne serait pas la en ce moment, elle n'aurait pas su cette histoire et elle n'aurait pas briser le cœur de cette fille. oui elle aurait préféré ne pas savoir. un proverbe anglais disait que ce que nous ne savons pas ne nous fait pas mal; et elle y croie forment. elle était sur qu'il y'avait encore plein de choses et de drame sur lui qu'elle ne savait pas et elle en était satisfaite, parce qu’elle savait qu'elle ne pourrais jamais s’éloigner de lui quelque soit ce qu'elle découvre sur lui et que savoir de nouvelle histoire pareils sur lui ne lui donnerait rien appart une autre déchirure au cœur sans avoir la force de le quitter. les paroles de neira la sorti de ses pensées "mon cœur est grand, disait cette dernière. plus grande que tu ne puisse imaginer, je ne veux causer des problèmes a personne et j'ai compris que tu l'aime alors je vais vous laisser tranquille." elle attendit une réaction ou une parole de la part d'Esra mais celle ci la regardait avec un détacher sans dire un mot, comme si elle n'avait rien dit. elle supporta son regard pour quelque moment puis sortis brusquement sans rien dire non plus. Esra resta toute seule. elle se posa nonchalamment sur le canapé le plus proche. elle était contente que l'autre soit partie. elle se rappela d'un film qu'elle a vu qui racontait l'histoire d'un garçon qui au qu'on croirait au début être la victime d'une fille sans pitié qui lui a briser le cœur mais qui s'est avérait a la fin être le contraire une histoire compliqué qui a montré a Esra comment les apparence sont trompeuse. au début elle voulait juste parler a cette fille pour lui dire de s’éloigne de lui parce qu'elle l’ennuyer, elle croyait que c'était une gamine qui se collait a lui comme les autres mais après toute une autre histoire a exploser.. mais elle aime encore autant. elle allume une cigarette et prends son portable pour composer son numéro, mais elle n'as pas eu le courage de l'appeler, tant pis. elle se leva et pris la bouteille de whisky mise sur la table  puis monta au toit et s'assis au bord du bâtiment. elle n'avait pas peur, elle ne sentait rien elle pensait juste qu'elle s'est trouver beaucoup trop de fois dans une situation pareils avec une douleur pareils a cause de lui et elle ne savait pas quoi en faire. elle resta ainsi un long temps assise sur le bord du toit le paquet de cigarettes a sa droite, la bouteille et le portable a sa gauche tanto elle buvait, tantot elle fumait en regardant le coucher du soleil et les larmes coulait a flots de ses yeux sans qu'elle ne rends même compte. soudainement elle entendis un voix qu'elle distinguerait entre mille.
"Esra." disait la voix d'un calme insupportable. c'était lui. sa présence la rendait heureuse et attristé en même temps elle se tourna vers lui sans répondre alors il ajouta "qu'est ce que tu fais? viens." elle se leva et allait vers  lui. il souria. elle fondut dans ses bras. "pourquoi me fais tu ça? pourquoi? je ne le mérite pas et tu le sais." il ne répondis pas. la nuit se passa trés douce pour Esra entre ses bras, il lui a tout fait oublier par une simple enlaçade et elle a su ce qu'elle allait faire, elle allait faire la même chose que toujours, elle allait le pardonner et continuer a l'aimer en attendant qu'il fasse de meme. parce que l'amour ne vous laisse pas de choix.
Sputnik Andrade Feb 2013
But release your precious heart to its feast.*

A veces imagino tu mano que se posa suave, muy suave como un viento anónimo, en mi mejilla. Y me tocas el cuello y el lóbulo de la oreja con mucho cuidado.

Imagino sólo tu mano. Quisiera morderla y beberme la sangre que emane de tus dedos. Quisiera que me mancharas los labios con esa sangre negra muy negra, suave y muy tibia.

Sueño que estoy muy cerca. Puedo contarte las pestañas. Te mueves al ritmo de tu respiración. No te mueves. Tus ojos se llenan de brillo conforme la navaja se llena más de ti. No he visto nunca nada tan hermoso. Y no gimes, no luchas. Piensas que todo nos llevó a esto y yo te lo confirmo cuando pongo mi oreja en tu pecho y escucho lo últimos latidos

pum, pum

pum

p

Te sigo con la mirada. Tienes las manos frías y las estrellas apenas alcanzan a resplandecer. Tu sombra es tan ligera que puedo tomarla y hacerla mía para siempre. Y lo haré. Serás mío para toda la vida. Y tus manos heladas, tu piel y tu carne. No conocerás nada más que mi lengua sobre tu espalda, mis dientes en tus nudillos, mis uñas arañando tu cabeza.

Tendrás los colores de un atardecer:  escarlata, azafrán, índigo y luego muy ***** y muy brillante, como una noche luminosa.

Eres extraordinario. Y me comeré tu corazón.
EME Dec 2014
Te veo, mi mirada fijamente se posa en tus ojos, ese par de esferas llenas de una luminosidad atrevida, perversa pero hermosa. Mis ojos acarician lentamente todo el contorno tan bello y fino de tu rostro, tus labios, tu pequeña y fina nariz esas mejillas tersas y blancas como rociadas por un baño de luna, la mejor conjunción poética recreada instintivamente por una naturaleza casi divina.
Victor Marques Feb 2012
Cataratas

Elas são vaidosas,
Nas montanhas rochosas,
O seu legado é eterno,
Fáceis de descer puro engano.


A sua beleza não é minha,
Pedras jazem desfeitas,
A água que salpica,
Estranha farsa,
A água de cair não se farta,
Ritmo que incita.

A natureza posa por amor,
Que belas e exuberantes,
Assustam o mais temível conquistador,
E deliciam as nossas mentes.

Victor Marques
Sergio MP Mar 2015
Me escuchas? Descalzo
camino mirando
tu pecho desnudo
subiendo y bajando

Te mueves ligera
sintiendo mis pasos
te miro de nuevo:
tus ojos cerrados.

Pero hay sin embargo
una diferencia:
sonrisa secreta
susurra "sutil" y
se posa discreta:

Te estás despertando

me rindo y sonrío
y sé que mañana
volveré a intentarlo
Vuelve a la noche,
racimo de horas sombrías;
córtalo, come el fruto de tiniebla,
saborea la ignorancia
Con orgullo de árbol
plantado de pleno torbellino
te desvistes
                      con el gesto del agua
saltando de la peña
abandonas tus cuerpos
con los pasos sonámbulos del viento
te arrojas en el lecho
con los ojos cerrados
buscas tu más antigua desnudez
Caigo en ti con la ciega caída de la ola
tu cuerpo me sostiene como la ola que renace
el viento sopla afuera y reúne las aguas
todos los bosques son un solo árbol

Navega la ciudad en plena noche
tierra y cielo y marea que no cesa
los elementos enlazados tejen
la vestidura de un día desconocido
Desierto inmenso y fuente secreta
balanza del silencio y árbol de gemidos
cuerpo que se despliega como la vela
cuerpo que se repliega como la brasa
corazón que desgajo de la noche
escorpión que se clava en mi pecho
sello de sangre sobre mis años de hombre
(Hago lo que dices)

Con un Sí
la lámpara que te guía a la entrada del sueño
Con un No
la balanza que pesa la falacia y la verdad del deseo
Con un Ay
el hueso floreciendo para atravesar la muerte
(Hoy, siempre hoy)

Hablas (se oyen muchas lluvias)
no sé lo que dices (una mano amarilla nos sostiene)
Callas (nacen muchos pájaros)
no sé adónde estamos (un alveolo escarlata nos encierra)
Ríes (las piernas del río se cubren de hojas)
no sé adónde vamos (hoy es ya mañana en mitad de la noche)

          Hoy que se abre y se cierra
          nunca se mueve y no se detiene
          corazón que nunca se apaga
          Hoy (un pájaro se posa
          en una torre de granito)
          Siempre es mediodía
Sola nel mondo eterna, a cui si volve
Ogni creata cosa,
In te, morte, si posa
Nostra ignuda natura;
Lieta no, ma sicura
Dall'antico dolor. Profonda notte
Nella confusa mente
Il pensier grave oscura;
Alla speme, al desio, l'arido spirto
Lena mancar si sente:
Così d'affanno e di temenza è sciolto,
E l'età vote e lente
Senza tedio consuma.
Vivemmo: e qual di paurosa larva,
E di sudato sogno,
A lattante fanciullo erra nell'alma
Confusa ricordanza:
Tal memoria n'avanza
Del viver nostro: ma da tema è lunge
Il rimembrar. Che fummo?
Che fu quel punto acerbo
Che di vita ebbe nome?
Cosa arcana e stupenda
Oggi è la vita al pensier nostro, e tale
Qual dè vivi al pensiero
L'ignota morte appar. Come da morte
Vivendo rifuggia, così rifugge
Dalla fiamma vitale
Nostra ignuda natura;
Lieta no ma sicura,
Però ch'esser beato
Nega ai mortali e nega à morti il fato.
El bosque centenario
En sus antros encierra
Ese silencio eterno que acompaña
A las salvajes pompas de la América.

En el espeso toldo
Que al sol el paso niega,
Los cenzontles que cantan en las noches,
De rama en rama sin zozobras vuelan.

Y el cardenal errante,
Y el colibrí de seda,
Al beso de las tibias alboradas,
Dando celos al iris, juguetean.

De las copas más altas,
Como argentadas hebras,
Las canas de los viejos ahuehuetes
Dan a los vientos sus robustas crenchas.

Y revistiendo el tronco
De secular corteza,
Matizando sus tronos de esmeralda,
Se abre a la luz la trepadora hiedra.

Tapiza el suelo un musgo
Que ni el verano seca,
Donde recoge el aire en las mañanas
Un sempiterno olor a flores nuevas.

El bosque centenario
En su extensión inmensa
Repercute en las tardes los acentos
Más dulces de los cánticos aztecas.

Las voces de una raza
Peregrina y guerrera
Que va dejando con su sangre hirviente
De su incesante caminar las huellas.

Y vagan esas notas
Dulcísimas y tiernas,
Enseñando a los pájaros salvajes
Tristes y melancólicas cadencias.

Las repite el cenzontle
En la noche serena,
Cuando la luna en el azul espacio
El heno de los árboles platea.

Las dice la calandria,
El clarín las remeda,
Y en las tardes de mayo los jilgueros
Trovan los himnos de su amor con ellas.

Y cuando en tristes horas
De lluvia y de tinieblas
La tempestad su carro de relámpagos
Sobre los viejos árboles pasea,

Y con ojos de llamas
La lechuza agorera
Predice la catástrofe y la muerte
Como alada Sibila de la selva,

Cuando los vientos rugen,
Cuando los troncos tiemblan
Y cual cinta de lumbre en ***** abismo
El rayo retumbando culebrea,

En el fondo del bosque,
Rasgando las tinieblas,
Se oye dulcísima y doliente
Que canta melancólicas endechas.

Son las notas de un arpa
De misteriosas cuerdas
En que surgen estrofas no aprendidas
Cuando calla el placer y hablan las penas.

Las extrañas canciones
Entre la sombra vuelan,
Mezclándose del viento a los rugidos
Y al sordo rebramar de la tormenta.

Vagan en el ramaje,
Cruzan por la maleza,
Y el paso no les corta la falange
De sabinos cual mudos centinelas.

Se extienden en los lagos
De superficie tersa
Donde crecen los juncos cimbradores
Y sus corolas abren las ninfeas.

Cruzan por los maizales
Cuyas cañas esbeltas
Sus hinchadas espigas, a las lluvias
Levantan a los cielos en ofrenda.

¿Quién canta esas canciones?
¿Quién dice esas endechas,
Que ya traspuesto el sol y quieto el mundo
Repiten los cenzontles en la selva?

¿De qué garganta brotan?
¿Quién delira con ellas
Y en la imponente majestad del bosque
En tristísimas horas las eleva?

Mirad, hay en el fondo,
Tras la enramada espesa,
Dominando los altos ahuehuetes
Una montaña de verdor cubierta.

La mano de un gigante
Amontonó sus piedras,
Sobre las cuales fabricó un palacio,
Para propio solaz, un rey azteca.

Son espesos sus muros,
Angostas son sus puertas,
Y parece, mirado desde lejos,
Vetusta cripta en la extensión desierta.

Pega el nopal al muro
Sus espinosas pencas,
Y como cenicientos obeliscos
Los órganos tristísimos lo cercan.

No tiene escudo noble
Tan rara fortaleza,
Ni levadizo puente, ni ancho foso,
Ni rastrillo, ni glacis, ni poterna.

No guarda férreos cascos,
Ni lanzas, ni rodelas,
Ni resonó jamás en sus salones
La armadura brutal de la Edad Media.

Los señores que ha visto
Esgrimen arco y flecha,
Llevan al combatir desnudo el ****
Y adornada con plumas la cabeza.

Obscuros son sus ojos,
Sus cabelleras negras,
Su cutis, siempre al sol, color de trigo,
Sencillas sus costumbres y su lengua.

En tan triste palacio
Con sus damas se hospeda
Siempre sola, llorosa y resignada,
Como un lirio con alma, una princesa.

Y vive sin que nadie
A visitarla venga,
Que por rencor y celos y venganza
Víctima del amor allí la encierran.

Amó, cual amar saben
En su raza, en su tierra,
Las mujeres que encienden sus pupilas
Con la del alma inextinguible hoguera,

Un hermano celoso
De su pasión intensa,
Mató al indio bizarro que formaba
El culto terrenal de la doncella.

Y entonces con la rabia
Que electriza a las fieras,
Cuando el artero cazador destroza
Al cachorro que esconden en la cueva,

Ella tomó en sus manos
La macana de piedra
Y castigó a su hermano con un golpe
Que bien pudo arrancarle la existencia.

El padre, como ejemplo,
Como justa sentencia,
La alejó de su lado y encerróla,
Del viejo bosque en la mansión severa.

Y allí con la alborada,
Cuando la luz despierta,
Cuando en todas las ramas hay cantares
Y alza un himno de amor toda la selva,

Cuando se abren las fibras
Y en sus corolas tiemblan
Los pintados y errantes chupamirtos
Que de sabrosas mieles se alimentan,

Se oye como desciende,
Por las abruptas peñas,
Envuelta en un mantón de blancas plumas,
Seguida de sus damas, la Princesa.

Siempre al pisar el bosque
Toma la misma senda,
Para buscar el sitio apetecido
En que el placer y la delicia encuentra.

Allá, bajo las ramas
Más verdes, más espesas,
Y donde en haces de colores vivos
El sol naciente sus fulgores quiebra,

Engastada en el musgo
Cual líquida turquesa,
Convidando a la vida y al deleite,
Espejo del follaje, está la alberca.

El manantial fecundo
Al fondo borbotea,
Sin que nadie perciba sus rumores
Ni la quietud perturbe de la selva.

Dicen que cuando alguno
Se posa en sus arenas,
Queda encantado y con extraña forma,
Y el que a buscarlo va, jamás lo encuentra.

Por eso todos temen,
Y aún los hombres recelan,
Sumergirse en las ondas cristalinas
De una agua tan azul y tan serena.

Sólo la hermosa joven,
Cuando a los bordes llega,
Fija en el manantial una mirada
Que es la viva expresión de una promesa.

Deja el manto de pluma,
Sus cabellos destrenza,
Y a las caricias púdicas del agua,
Dando tregua al dolor, feliz se entrega.

Y míranse en las ondas
Las formas hechiceras,
Deslizarse flotantes y tranquilas
Como la flor que la corriente lleva.

Si el bello busto asoma,
Sobre los senos ruedan
Las gotas trasparentes y brillantes
Como si fuesen lágrimas o perlas.

Y cuando el cuerpo airoso
Quieto flotando queda,
Parece que el cristal azul y terso,
Enamorado sus contornos besa.

Semeja blanca ondina,
Ruborosa sirena,
Que, con un beso, el sol americano
Quemó su piel y la tornó trigueña.

¿Oís? cantan muy dulce
Las aves de la selva,
Las brisas no estremecen el ramaje,
Ni el heno gris en los sabinos tiembla.

El aire está suspenso,
Ningún rumor se eleva,
Porque en el viejo bosque centenario
Juega desnuda la gentil doncella.


Salta un instante al borde
De la azulosa terma,
Y los encantos que la dio natura
Sin velo encubridor al aire muestra.

Y escúchase de pronto
Un grito de sorpresa,
Cual lo lanzara el que soñó en un cielo
Y al fin, sin esperarlo, lo contempla.

Por el vetusto bosque,
El grito aquel resuena,
Y levanta los ojos espantados
La ninfa que en las aguas se refleja.

Y sin tino, temblando,
Pálida, como muerta,
Descubre entre las ramas de un sabino
De un ser desconocido la cabeza.

Es un amante osado,
Es un guerrero azteca,
Que adora a la doncella y la persigue,
Y hoy en su virgen desnudez la acecha.

Sin conceder más tiempo
De que sus formas vea,
Herida en su pudor la altiva joven
Se sumerge en el agua con violencia.

Y al manantial desciende
Y toca sus arenas,
Y se pierde a los ojos de sus damas
Y el guerrero la busca y no la encuentra.

Cruzaron varios soles
Por la azulada esfera,
Y nadie supo el postrimer destino
De aquella humana y púdica azucena.
Que allí quedó encantada,
Refieren las leyendas,
Y que al mediar los soles y las lunas
Flota sobre la líquida turquesa.

Su nombre ignoran todos,
Nadie ignora sus penas,
Y quedan de sus gracias como espejo
Los movibles cristales de la alberca.
Se la ruota si impiglia nel groviglio
delle stesse filanti ed il cavallo
s'impenna tra la calca, se ti nevica
fra i capelli e le mani un lungo brivido
d'iridi trascorrenti o alzano i bambini
le flebili ocarine che salutano
il tuo viaggio e i lievi echi si sfaldano
giù dal ponte sul fiume
se si sfolla la strada e ti conduce
in un mondo soffiato entro una tremula
bolla d'aria e di luce dove il sole
saluta la tua grazia-hai ritrovato
forse la strada che tentò un istante
il piombo fuso a mezzanotte quando
finì l'anno tranquillo senza spari.

Ed ora vuoi sostare dove un filtro
fa spogli i suoni
e ne deriva i sorridenti ed acri
fumi che ti compongono il domani;
ora chiedi il paese dove gli onagri
mordano quadri di zucchero dalle tue mani
e i tozzi alberi spuntino germogli
miracolosi al becco dei pavoni.

(Oh, il tuo carnevale sarà più triste
stanotte anche del mio, chiusa fra i doni
tu per gli assenti: carri dalle tinte
di rosolio, fantocci ed archibugi,
palle di gomma, arnesi da cucina
lillipuziani: l'urna li segnava
a ognuno dei lontani amici l'ora
che il gennaio si schiuse e nel silenzio
si compì il sortilegio. È carnevale
o il dicembre s'indugia ancora? Penso
che se muovi la lancetta al piccolo
orologio che rechi al polso, tutto
arretrerà dentro un disfatto prisma
babelico di forme e di colori... )

E il natale verrà e il giorno dell'anno
che sfolla le caserme e ti riporta
gli amici spersi e questo carnevale
pur esso tornerà che ora ci sfugge
tra i muri che si fendono già. Chiedi
tu di fermare il tempo sul paese
che attorno si dilata? Le grandi ali
screziate ti sfiorano, le logge
sospingono all'aperto esili bambole
bionde, vive, le pale dei mulini
rotano fisse sulle pozze garrule.
Chiedi di trattenere le campane
d'argento sopra il borgo e il suono rauco
delle colombe? Chiedi tu i mattini
trepidi delle tue prode lontane?

Come tutto si fa strano e difficile
come tutto è impossibile, tu dici.
La tua vita è quaggiù dove rimbombano
le ruote dei carriaggi senza posa
e nulla torna se non forse
in questi disguidi del possibile.
Ritorna là fra i morti balocchi
ove è negato pur morire; e col tempo che ti batte
al polso e all'esistenza ti ridona,
tra le mura pesanti che non s'aprono
al gorgo degli umani affaticato,
torna alla via dove con te intristisco
quella che mi additò un piombo raggelato
alle mie, alle tue sere:
torna alle primavere che non fioriscono.
La calva prematura
brilla sobre la frente amplia y severa;
bajo la piel pálida tersura
se trasluce la fina calavera.
      Mentón agudo y pómulos marcados
por trazos de un punzón adamantino;
y de insólita púrpura manchados
los labios que soñara un florentino.
      Mientras la boca sonreír parece,
los ojos perspicaces,
que un ceño pensativo empequeñece,
miran y ven, profundos y tenaces.
      Tiene sobre la mesa un libro viejo
donde posa la mano distraída.
Al fondo de la cuadra, en el espejo,
una tarde dorada está dormida.
      Montañas de violeta
y grasientos breñales,
la tierra que ama el santo y el poeta,
los buitres y las águilas caudales.
      Del abierto balcón al blanco muro
va una franja de sol anaranjada
que inflama el aire, en el ambiente obscuro
que envuelve la armadura arrinconada.
Mon rêve le plus cher et le plus caressé,

Le seul qui rit encore à mon cœur oppressé,

C'est de m'ensevelir au fond d'une chartreuse,

Dans une solitude inabordable, affreuse ;

****, bien ****, tout là-bas, dans quelque Sierra

Bien sauvage, où jamais voix d'homme ne vibra,

Dans la forêt de pins, parmi les âpres roches,

Où n'arrive pas même un bruit lointain de cloches ;

Dans quelque Thébaïde, aux lieux les moins hantés,

Comme en cherchaient les saints pour leurs austérités ;

Sous la grotte où grondait le lion de Jérôme,

Oui, c'est là que j'irais pour respirer ton baume

Et boire la rosée à ton calice ouvert,

Ô frêle et chaste fleur, qui crois dans le désert

Aux fentes du tombeau de l'Espérance morte !

De non cœur dépeuplé je fermerais la porte

Et j'y ferais la garde, afin qu'un souvenir

Du monde des vivants n'y pût pas revenir ;

J'effacerais mon nom de ma propre mémoire ;

Et de tous ces mots creux : Amour, Science et Gloire

Qu'aux jours de mon avril mon âme en fleur rêvait,

Pour y dormir ma nuit j'en ferais un chevet ;

Car je sais maintenant que vaut cette fumée

Qu'au-dessus du néant pousse une renommée.

J'ai regardé de près et la science et l'art :

J'ai vu que ce n'était que mensonge et hasard ;

J'ai mis sur un plateau de toile d'araignée

L'amour qu'en mon chemin j'ai reçue et donnée :

Puis sur l'autre plateau deux grains du vermillon

Impalpable, qui teint l'aile du papillon,

Et j'ai trouvé l'amour léger dans la balance.

Donc, reçois dans tes bras, ô douce somnolence,

Vierge aux pâles couleurs, blanche sœur de la mort,

Un pauvre naufragé des tempêtes du sort !

Exauce un malheureux qui te prie et t'implore,

Egraine sur son front le pavot inodore,

Abrite-le d'un pan de ton grand manteau noir,

Et du doigt clos ses yeux qui ne veulent plus voir.

Vous, esprits du désert, cependant qu'il sommeille,

Faites taire les vents et bouchez son oreille,

Pour qu'il n'entende pas le retentissement

Du siècle qui s'écroule, et ce bourdonnement

Qu'en s'en allant au but où son destin la mène

Sur le chemin du temps fait la famille humaine !


Je suis las de la vie et ne veux pas mourir ;

Mes pieds ne peuvent plus ni marcher ni courir ;

J'ai les talons usés de battre cette route

Qui ramène toujours de la science au doute.

Assez, je me suis dit, voilà la question.


Va, pauvre rêveur, cherche une solution

Claire et satisfaisante à ton sombre problème,

Tandis qu'Ophélia te dit tout haut : Je t'aime ;

Mon beau prince danois marche les bras croisés,

Le front dans la poitrine et les sourcils froncés,

D'un pas lent et pensif arpente le théâtre,

Plus pâle que ne sont ces figures d'albâtre,

Pleurant pour les vivants sur les tombeaux des morts ;

Épuise ta vigueur en stériles efforts,

Et tu n'arriveras, comme a fait Ophélie,

Qu'à l'abrutissement ou bien à la folie.

C'est à ce degré-là que je suis arrivé.

Je sens ployer sous moi mon génie énervé ;

Je ne vis plus ; je suis une lampe sans flamme,

Et mon corps est vraiment le cercueil de mon âme.


Ne plus penser, ne plus aimer, ne plus haïr,

Si dans un coin du cœur il éclot un désir,

Lui couper sans pitié ses ailes de colombe,

Être comme est un mort, étendu sous la tombe,

Dans l'immobilité savourer lentement,

Comme un philtre endormeur, l'anéantissement :

Voilà quel est mon vœu, tant j'ai de lassitude,

D'avoir voulu gravir cette côte âpre et rude,

Brocken mystérieux, où des sommets nouveaux

Surgissent tout à coup sur de nouveaux plateaux,

Et qui ne laisse voir de ses plus hautes cimes

Que l'esprit du vertige errant sur les abîmes.


C'est pourquoi je m'assieds au revers du fossé,

Désabusé de tout, plus voûté, plus cassé

Que ces vieux mendiants que jusques à la porte

Le chien de la maison en grommelant escorte.

C'est pourquoi, fatigué d'errer et de gémir,

Comme un petit enfant, je demande à dormir ;

Je veux dans le néant renouveler mon être,

M'isoler de moi-même et ne plus me connaître ;

Et comme en un linceul, sans y laisser un seul pli,

Rester enveloppé dans mon manteau d'oubli.


J'aimerais que ce fût dans une roche creuse,

Au penchant d'une côte escarpée et pierreuse,

Comme dans les tableaux de Salvator Rosa,

Où le pied d'un vivant jamais ne se posa ;

Sous un ciel vert, zébré de grands nuages fauves,

Dans des terrains galeux clairsemés d'arbres chauves,

Avec un horizon sans couronne d'azur,

Bornant de tous côtés le regard comme un mur,

Et dans les roseaux secs près d'une eau noire et plate

Quelque maigre héron debout sur une patte.

Sur la caverne, un pin, ainsi qu'un spectre en deuil

Qui tend ses bras voilés au-dessus d'un cercueil,

Tendrait ses bras en pleurs, et du haut de la voûte

Un maigre filet d'eau suintant goutte à goutte,

Marquerait par sa chute aux sons intermittents

Le battement égal que fait le cœur du temps.

Comme la Niobé qui pleurait sur la roche,

Jusqu'à ce que le lierre autour de moi s'accroche,

Je demeurerais là les genoux au menton,

Plus ployé que jamais, sous l'angle d'un fronton,

Ces Atlas accroupis gonflant leurs nerfs de marbre ;

Mes pieds prendraient racine et je deviendrais arbre ;

Les faons auprès de moi tondraient le gazon ras,

Et les oiseaux de nuit percheraient sur mes bras.


C'est là ce qu'il me faut plutôt qu'un monastère ;

Un couvent est un port qui tient trop à la terre ;

Ma nef tire trop d'eau pour y pouvoir entrer

Sans en toucher le fond et sans s'y déchirer.

Dût sombrer le navire avec toute sa charge,

J'aime mieux errer seul sur l'eau profonde et large.

Aux barques de pêcheur l'anse à l'abri du vent,

Aux simples naufragés de l'âme, le couvent.

À moi la solitude effroyable et profonde,

Par dedans, par dehors !


Par dedans, par dehors ! Un couvent, c'est un monde ;

On y pense, on y rêve, on y prie, on y croit :

La mort n'est que le seuil d'une autre vie ; on voit

Passer au long du cloître une forme angélique ;

La cloche vous murmure un chant mélancolique ;

La Vierge vous sourit, le bel enfant Jésus

Vous tend ses petits bras de sa niche ; au-dessus

De vos fronts inclinés, comme un essaim d'abeilles,

Volent les Chérubins en légions vermeilles.

Vous êtes tout espoir, tout joie et tout amour,

À l'escalier du ciel vous montez chaque jour ;

L'extase vous remplit d'ineffables délices,

Et vos cœurs parfumés sont comme des calices ;

Vous marchez entourés de célestes rayons

Et vos pieds après vous laissent d'ardents sillons !


Ah ! grands voluptueux, sybarites du cloître,

Qui passez votre vie à voir s'ouvrir et croître

Dans le jardin fleuri de la mysticité,

Les pétales d'argent du lis de pureté,

Vrais libertins du ciel, dévots Sardanapales,

Vous, vieux moines chenus, et vous, novices pâles,

Foyers couverts de cendre, encensoirs ignorés,

Quel don Juan a jamais sous ses lambris dorés

Senti des voluptés comparables aux vôtres !

Auprès de vos plaisirs, quels plaisirs sont les nôtres !

Quel amant a jamais, à l'âge où l'œil reluit,

Dans tout l'enivrement de la première nuit,

Poussé plus de soupirs profonds et pleins de flamme,

Et baisé les pieds nus de la plus belle femme

Avec la même ardeur que vous les pieds de bois

Du cadavre insensible allongé sur la croix !

Quelle bouche fleurie et d'ambroisie humide,

Vaudrait la bouche ouverte à son côté livide !

Notre vin est grossier ; pour vous, au lieu de vin,

Dans un calice d'or perle le sang divin ;

Nous usons notre lèvre au seuil des courtisanes,

Vous autres, vous aimez des saintes diaphanes,

Qui se parent pour vous des couleurs des vitraux

Et sur vos fronts tondus, au détour des arceaux,

Laissent flotter le bout de leurs robes de gaze :

Nous n'avons que l'ivresse et vous avez l'extase.

Nous, nos contentements dureront peu de jours,

Les vôtres, bien plus vifs, doivent durer toujours.

Calculateurs prudents, pour l'abandon d'une heure,

Sur une terre où nul plus d'un jour ne demeure,

Vous achetez le ciel avec l'éternité.

Malgré ta règle étroite et ton austérité,

Maigre et jaune Rancé, tes moines taciturnes

S'entrouvrent à l'amour comme des fleurs nocturnes,

Une tête de mort grimaçante pour nous

Sourit à leur chevet du rire le plus doux ;

Ils creusent chaque jour leur fosse au cimetière,

Ils jeûnent et n'ont pas d'autre lit qu'une bière,

Mais ils sentent vibrer sous leur suaire blanc,

Dans des transports divins, un cœur chaste et brûlant ;

Ils se baignent aux flots de l'océan de joie,

Et sous la volupté leur âme tremble et ploie,

Comme fait une fleur sous une goutte d'eau,

Ils sont dignes d'envie et leur sort est très-beau ;

Mais ils sont peu nombreux dans ce siècle incrédule

Creux qui font de leur âme une lampe qui brûle,

Et qui peuvent, baisant la blessure du Christ,

Croire que tout s'est fait comme il était écrit.

Il en est qui n'ont pas le don des saintes larmes,

Qui veillent sans lumière et combattent sans armes ;

Il est des malheureux qui ne peuvent prier

Et dont la voix s'éteint quand ils veulent crier ;

Tous ne se baignent pas dans la pure piscine

Et n'ont pas même part à la table divine :

Moi, je suis de ce nombre, et comme saint Thomas,

Si je n'ai dans la plaie un doigt, je ne crois pas.


Aussi je me choisis un antre pour retraite

Dans une région détournée et secrète

D'où l'on n'entende pas le rire des heureux

Ni le chant printanier des oiseaux amoureux,

L'antre d'un loup crevé de faim ou de vieillesse,

Car tout son m'importune et tout rayon me blesse,

Tout ce qui palpite, aime ou chante, me déplaît,

Et je hais l'homme autant et plus que ne le hait

Le buffle à qui l'on vient de percer la narine.

De tous les sentiments croulés dans la ruine,

Du temple de mon âme, il ne reste debout

Que deux piliers d'airain, la haine et le dégoût.

Pourtant je suis à peine au tiers de ma journée ;

Ma tête de cheveux n'est pas découronnée ;

À peine vingt épis sont tombés du faisceau :

Je puis derrière moi voir encore mon berceau.

Mais les soucis amers de leurs griffes arides

M'ont fouillé dans le front d'assez profondes rides

Pour en faire une fosse à chaque illusion.

Ainsi me voilà donc sans foi ni passion,

Désireux de la vie et ne pouvant pas vivre,

Et dès le premier mot sachant la fin du livre.

Car c'est ainsi que sont les jeunes d'aujourd'hui :

Leurs mères les ont faits dans un moment d'ennui.

Et qui les voit auprès des blancs sexagénaires

Plutôt que les enfants les estime les pères ;

Ils sont venus au monde avec des cheveux gris ;

Comme ces arbrisseaux frêles et rabougris

Qui, dès le mois de mai, sont pleins de feuilles mortes,

Ils s'effeuillent au vent, et vont devant leurs portes

Se chauffer au soleil à côté de l'aïeul,

Et du jeune et du vieux, à coup sûr, le plus seul,

Le moins accompagné sur la route du monde,

Hélas ! C'est le jeune homme à tête brune ou blonde

Et non pas le vieillard sur qui l'âge a neigé ;

Celui dont le navire est le plus allégé

D'espérance et d'amour, lest divin dont on jette

Quelque chose à la mer chaque jour de tempête,

Ce n'est pas le vieillard, dont le triste vaisseau

Va bientôt échouer à l'écueil du tombeau.

L'univers décrépit devient paralytique,

La nature se meurt, et le spectre critique

Cherche en vain sous le ciel quelque chose à nier.

Qu'attends-tu donc, clairon du jugement dernier ?

Dis-moi, qu'attends-tu donc, archange à bouche ronde

Qui dois sonner là-haut la fanfare du monde ?

Toi, sablier du temps, que Dieu tient dans sa main,

Quand donc laisseras-tu tomber ton dernier grain ?
El son del viento en la arcada
tiene la clave de mí mismo:
soy una fuerza exacerbada
y soy un clamor de abismo.
Entre los coros estelares
oigo algo mío disonar.
Mis acciones y mis cantares
tenían ritmo particular.
Vine al torrente de la vida
en Santa Rosa de Osos,
una medianoche encendida
en astros de signos borrosos.
Tomé posesión de la tierra,
mía en el sueño y el lino y el pan;
y, moviendo a las normas guerra,
fui Eva... y fui Adán.
Yo ceñía el campo maduro
como si fuera una mujer,
y me enturbiaba un vino oscuro
de placer.
Yo gustaba la voz del viento
como una piñuela en sazón,
y me la comía... con lamento
de avidez en el corazón.
Y, alígero esquife al día,
y a la noche y al tumbo del mar,
bogaba mi fantasía
en un rayo de luz solar.
Iba tras la forma suprema,
tras la nube y el ruiseñor
y el cristal y el doncel y la gema
del dolor.
Iba al Oriente, al Oriente,
hacia las islas de la luz,
a donde alzara un pueblo ardiente
sublimes himnos a lo azul.
Ya, cruzando la Palestina,
veía el rostro de Benjamín,
su ojo límpido, su boca fina
y su arrebato de carmín.
O de Grecia en el día de oro,
do el cañuto le daba Pan,
amaba a Sófocles en el Coro
sonoro que canta el Peán.
O con celo y ardor de paloma
en celo, en la Arabia de Alá
seguía el curso de Mahoma
por la hermosura de Abdalá:
Abdalá era cosa más bella
que lauro y lira y flauta y miel;
cuando le llevó una doncella
¡cien doncellas murieron por él!
... Mis manos se alzaron al ámbito
para medir la inmensidad;
pero mi corazón buscaba ex-ámbito
la luz, el amor, la verdad.
Mis pies se hincaban en el suelo
cual pezuña de Lucifer,
y algo en mí tendía el vuelo
por la niebla, hacia el rosicler...
Pero la Dama misteriosa
de los cabellos de fulgor
viene y en mí su mano posa
y me infunde un fatal amor.
Y lo demás de mi vida
no es sino aquel amor fatal,
con una que otra lámpara encendida
ante el ara del ideal.
Y errar, errar, errar a solas,
la luz de Saturno en mi sien,
roto mástil sobre las olas
en vaivén.
Y una prez en mi alma colérica
que al torvo sino desafía:
el orgullo de ser, ¡oh América!
el Ashaverus de tu poesía...
Y en la flor fugaz del momento
querer el aroma perdido,
y en un deleite sin pensamiento
hallar la clave del olvido;
después un viento... un viento... un viento...
¡y en ese viento, mi alarido!
Tuo fratello morì giovane;
tu eri la bimba scaruffata che mi guarda
"in posa" nell'ovale di un ritratto.
Scrisse musiche inedite, inaudite
oggi sepolte in un baule, o andate al macero.
Forse le reinventa qualcuno
inconsapevole se ciò che è scritto è scritto.
L'amavo senza averlo conosciuto.
Fuori di te nessuno lo ricordava.
Non ** fatto ricerche: ora è inutile.

Dopo di te sono rimasto il solo
per cui egli è esistito. Ma è possibile,
lo sai, amare un'ombra, ombre noi stessi.
Última flor de mi áspero camino,
mejor que última flor, flor de las flores,
resumen de lo humano y lo divino,
escapas, huyes por los corredores.

Sólo veo tus rizos saltarines
y de tus dulces codos los hoyuelos,
mientras de puntas en tus escarpines
eras la bailarina de los cielos.

De bailarina tu airecillo posa,
ibas a bailar ya, y de repente
te tuve que guardar, ¡oh mariposa!,
todo era terror bajo la puente.

Ahora vas y vienes, cada día
el talle más gentil y erguido el cuello;
para mi oído, toda la armonía,
para mi ojo gris, todo el destello.
Turco Dimas Apr 2013
You're the poet in our Infierno
Hell and sin and spiral wounds
Several books of invierno

Scarlet muse
Ganges moons
Not moon, luz azul

You're our poet in our sea
La luna que posa ante sí
En la playa sonora
De auras primaverales,
De las ondas azules del Sorrento
Mueren bajo frondosos naranjales,
Junto al seto, a la vera del camino,
Hay una tosca piedra,
Que mira indiferente el peregrino.
En ella oculta el alelí frondoso
Un nombre que jamás repite el eco.
Sólo a veces, si en busca de reposo
Errante pasajero se detiene,
Al ver el epitafio entre las hojas,
Ante la luz del moribundo día,
Mientras copiosas lágrimas derrama,
-«¡Diez y seis años!», suspirando clama;
«De morir no era tiempo todavía».
Mas, ¿a qué recordar esas escenas?
Dejad que gima el viento
y que murmuren las azules olas.
Yo no quiero llorar en mi aislamiento;
Quiero soñar con mi dolor a solas.

«¡Diez y seis años! ¡Sí, diez y seis
años!»
Torna a decir el pasajero. Y nunca
En una frente más encantadora
Esa edad fulguró; ni otras pupilas
Más hermosas el brillo reflejaron
De esas playas ardientes e intranquilas.
Hoy en vano la llamo:
¡Sólo el alma responde a mi reclamo!
Pero la siento en mí, y a verla vuelvo;
La vuelvo a ver como en felices días,
De puras e inocentes alegrías,
Cuando fijos en mí los negros ojos,
Cual astros en ignota lontananza,
Me hablaba de su amor entre sonrojos,
Y yo, de mi pasión y mi esperanza.
Bien me acuerdo: ondulaban sus cabellos
Del aura al soplo acompasado y blando;
En torno el viento aromas derramaba;
Del trasparente velo se pintaba
La sombra en su mejilla,
y distintos se oían los cantares

Del pescador en la desierta orilla.
y de pronto mostrándome la luna,
Flor de la noche bruna,
y las espumas de la mar, me dijo:
-«¿Por qué llena de luz el alma siento?
Jamás el firmamento
Donde la estrella del amor nos mira;
Jamás esas arenas donde vienen
Las olas a morir; esas enhiestas
Montañas cuyas crestas
Tiemblan entre los cielos, y los bosques
En torno a la ensenada;
Las luces de la costa abandonada
y del nocturno pescador el canto
Halagaron cual hoy mi fantasía...
¡Nunca infundieron en el alma mía
Este que siento, celestial encanto!
»¿No volveré a soñar cual sueño ahora
En embriagante calma?
¿Es que en los cielos asomó la aurora
O es que una estrella se encendió en mi alma?
Hijo de la mañana, ¿son las noches
De tu país tan bellas
Como esta que a mi lado estás mirando
Tachonada de fúlgidas estrellas?»
Luego la virgen se acercó a la madre
Que la escuchaba cerca del ribazo,
Le dio un beso en la frente,
y quedose dormida en su regazo.

Mas, ¿a qué recordar esas escenas?
Dejad que gima el viento
y que murmuren las azules olas.
Yo no quiero llorar en mi aislamiento;
¡Quiero soñar con mi dolor a solas!
¡Cuánto candor en su mirada! ¡Cuánta
Inocencia en sus labios seductores!
¡Quién no hubiera creído en ese instante
Ver concentrados en su alma virgen
Del cielo de su patria los fulgores!
El bello lago de Nemí, que nunca
Un soplo arruga, es menos trasparente;
Jamás pudo ocultar sus pensamientos;
Sus ojos, de su espíritu trasunto,
Los revelaban sin quererlo al punto.
Todo jugaba en ella; y la sonrisa,
Que es con los años contracción de duelo,
Siempre brillaba en sus carmíneos labios
Como arco-iris en radiante cielo.
Ninguna sombra oscureció su rostro;
y si libre los campos recorría,
Cual suelta mariposa,
Una límpida ola parecía
Coronada de luz esplendorosa.
Corría por correr, y su armoniosa
y halagadora voz, arpegio tierno
De su alma pura, que era un canto eterno,
Alegraba hasta al aura rumorosa.

Fue la primer imagen
Que se imprimió en su corazón la mía,
Como la luz en los dormidos ojos
Que se abren con el día.
Desde que amó, fue amor el Universo;
Confundió mi existencia,
Mi existencia entre lágrimas y abrojos,
Con su vida de paz y de inocencia;
Palpitó con mi alma, y formé parte
Del mundo que flotaba ante sus ojos,
De todos sus anhelos,
De la efímera dicha de la tierra
y la eterna esperanza de los cielos.
No pensaba ni en tiempo ni en distancia,
Ni existía el pasado en su memoria,
Pues para ella la vida era el presente.
Todo su porvenir fueron las tardes
De aquellos días de celeste gloria.
Entregó a la Natura
Su corazón, sin sombra de pecado,
y a la plegaria pura
Que de su huerto con las blancas flores
Iba a esparcir en el altar amado.
y de la mano, como niño humilde,
Me conducía al templo de la aldea,
y de rodillas me decía quedo:
«¡Reza conmigo! ¡Sin tu amor, bien mío,
El cielo mismo comprender no puedo!»

¿No veis el agua azul y trasparente
Al abrigo del aura vagabunda
y del sol encendido,
En el estanque de la clara fuente?
En él un blanco cisne
Nada, de su hermosura haciendo alarde,
y oculta el cuello en el cristal bruñido
Donde tiembla la estrella de la tarde.
Pero si a nuevas fuentes alza el vuelo,
La clara linfa con el ala azota
y extinta queda la visión del cielo.
y con las plumas que dejó deshechas,
Como arrancadas por astuto buitre,
y con la arena que del fondo brota,
El estanque, antes puro,
Que las estrellas reflejaba en calma,
Queda revuelto al fin, triste y oscuro.
Así, cuando partí, todo en su alma
Lo revolvió el dolor; su luz muriente
Huyose al cielo a no volver; y cuando
Vio, sola y afligida,
Su más bella ilusión desvanecida,
Se despidió del porvenir, que goces
No le ofrecía en su abandono aciago;
No disputó su vida al sufrimiento,
Alzó la copa del dolor tranquila
y la apuró de un trago,
En tanto que en su lágrima primera
Ahogaba el corazón; y como el ave

Cuando el sol en los mares se sepulta,
Para dormir oculta
La cabeza en el ala entumecida,
Se envolvió en su tristeza abrumadora,
y se durmió también... pero en la aurora,
En la risueña aurora de su vida.
Mas,  ¿a qué recordar esas escenas?
Dejad que gima el viento
y que murmuren las azules olas,
Yo no quiero llorar en mi aislamiento,
¡Quiero soñar con mi dolor a solas!
En su lecho de tierra ya ha dormido
Muchos años, y nadie
Quizá a llorar a su sepulcro ha ido,
y tal vez en la senda
Que a su postrer asilo conducía.
Se encontrará extendido
El segundo sudario de los muertos,
El implacable olvido.
Nadie esa piedra ya medio borrada
Con una flor visita;
Nadie solloza allá, nadie medita.
Sólo mi pensamiento en esa tumba
Ruega contrito, si remonto el vuelo
De este bullicio, donde sufre el alma,
A otra región de amor, de luz y calma,
y al corazón demando esas queridas

Prendas que ya no existen, y columbro
En las sombras calladas
Sus luminosas huellas,
y lloro tantas fúlgidas estrellas
En mi nublado cielo ya apagadas.
La primera ella fue, mas el divino
y dulce resplandor que en torno vierte
Aun alumbra mi lóbrego camino,
De errante peregrino,
De errante peregrino hacia la muerte.
Un espinoso arbusto
De pálida verdura
Crece junto a su humilde sepultura;
Por el sol calcinado
y por los vientos de la mar batido,
Vive en la roca, sin prestarle sombra,
Como un pesar en corazón herido.
El polvo de la ruta
Blanqueó su follaje, y a la tierra
Baja a servir de pasto
A la cabra montés. Como de nieve
Limpio copo, al nacer la primavera,
Brota en él una flor; mas, ¡ay!, en breve,
Antes de dar al aura lisonjera
Su aroma regalado,
La arranca de su tallo el viento airado,
Cual la vida apagada por la muerte
Antes que al corazón haya halagado

Un ave solitaria el vuelo posa
Sobre una rama que se dobla, y canta
Con voz entristecida,
Cuando cae la tarde silenciosa.
¡Oh, dime, flor marchita sobre el lodo,
Flor que tan pronto marchitó la vida!,
¿No hay otra vida en que renace todo?
Volved a mi memoria,
Tristes recuerdos de esa triste historia;
Volved, recuerdos de mi amor primero,
A traer a mi espíritu la calma.
Ve, pensamiento, a donde va mi alma...
¡Mi corazón rebosa, y llorar quiero!
Arcassin B Aug 2015
By Arcassin Burnham


"Better"

Sometimes I wanna cry,
Your beauty is remarkable,
Do you ever think that I could be a gust of wind,
To be *** high from a huge contact from a friend
I met on the way here from the store,
I'll be your everything and more,
We could make good decisions for the better,
Ashes on the moon from the cigarette I'm not suppose
To smoke, cause me asthma made a truce or whatever,
So I'm very cautious,
Although I'm feeling nauseous,
I'm really into you,
Teenage love don't last as much as we'd like,
We're not kids anymore , from the gates we can
Soar or remain in a comfortable state of life,
Love me unconditionally,
Make love like Ben Thomas and Emily posa,
I can,
Be your everything and more for the better.

_________


"I'm Not Through"


As above and so below the barriers
Of what we stand for,
I'm not through,
Most people wouldn't know what do
With you and your exterior,
I'm not through,
Even the thought of you pesants having more,
I'm not through,
Rots me to the core,
I swear it blends the earth,
I won't be through until he says I'm done,
Run away attention ****** you no place
In my cauldron,
I'm not through,
I wasn't asking , I was telling you,
I'm not through,
But many would ask if they could
See the sun,
I'm not through,
If you think I'm horse playing , I have no
Problem with ever showing you,
I'm not through.

_________

"The Past Gets Harder"


Ripples in the waters of depression,
The fight is being taught to you , I hoped you learned your lesson,
I am not a man nor savior of your blessings,
I am just a kid with abilities that are growing,
Anxiety driven you to madness with family,
Everybody needs a little comfort , even the
Convicts in inner-cities,
The Past gets harder,
Filled with memories,
Y'all got enough of it,
But for starters,
The demons wanna see,
You put the gun to your head,
To end it,
Not A lot of fun,
Having a lot of enemies,
Gotta save my engery,
Have to fight for my future
And my Tendencies,
Artist with an ironfist,
Let me know your secrets,
I won't tell a soul,
I just read between your bones,
If you want some sympathy,
A passion for writing,
I could do exactly what he won't,
So just tell me,
Is it love you feel?
Another Mix !!!!!! No waaaayyy lol
Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
È lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno cò suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dir questa
Solitudine immensa? Ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu sè queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ** fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
Tace ora, mi chiedo se oppressa dal suo Karma,
(so della sua vita, del nome che le dà, e del senso)
mentre mostra a lungo lo schermo
sul selciato una moltitudine
stecchita in una posa tra sonno e morte
levarsi a stento in preghiera e spulciarsi nell'alba.
Né forse la colpisce il primo aspetto
ma un altro più recondito, e vede
una giustizia di diverso stampo
in quella sofferenza di paria
orrida eppure non abietta, e nella sua che le scende addosso.

"Avere o non avere la sua parte in questa vita"
riemerge in parole il suo pensiero - ma solo un lembo.
E io ne tiro a me quella frangia
ansioso mi confidi tutto l'altro,
attento non mi rubi niente
di lei, neppure l'amarezza, ed attendo.
S'interrompe invece. Seguono altre immagini dell'India
e nel loro riverbero le colgo
un sorriso estremo tra di vittima e di bimba
quasi mi lasci quella grazia in pegno
di lei mentre si eclissa nella sua pena
e l'idea di se stessa le muore dentro.

"Perché porti quel giogo, perché non insorgi"
mi trattengo appena dal gridarle,
soffrendo perché soffre, certo,
ma più ancora perché lascia la presa
della mia tenerezza non saziata e piglia il largo piangendo;
"Ascoltami" comincio a mormorarle
e già penso al chiarore della sala dopo il technicolor
e a lei che sul punto di partire
mi guarda da dietro la lampada
della sua solitudine tenuta alzata di fronte.

"Mario" mi previene lei che indovina il resto. "Ancora
levi come una spada, buona a che?,
lo sdegno per le cose che ti resistono.
Uomo chiuso all'intelligenza del diverso,
negato all'amore: del mondo, intendo, di Dio dunque"
e indulge a una smorfia fine di scherno
per se stessa salita sul pulpito, e quasi si annulla.

"Davvero vorrei tu avessi vinto"
le dico con affetto incontenibile, più tardi,
mentre scorre in un brusio d'api, nel film senza commento, l'India.
El hormiguero hace erupción. La herida abierta bortotea, espumea, se expande, se contrae. El sol a estas horas no deja nunca de bombear sangre, con las sienes hinchadas, la cara roja. Un niño -ignorante de que en un recodo de la pubertad lo esperan unas fiebres y un problema de conciencia- coloca con cuidado una piedrecita en la boca despellejada del hormiguero. El sol hunde sus picas en las jorobas del llano, humilla promontorios de basura. Resplandor desenvainado, los reflejos de una lata vacía -erguida sobre una pirámide de piltrafas- acuchillan todos los puntos del espacio.

Los niños buscadores de tesoros y los perros sin dueño escarban el amarillo esplendor del pudridero. A trescientos metros la iglesia de San Lorenzo llama a misa de doce. Adentro, en el altar de la derecha, hay un santo pintado de azul y rosa. De su ojo izquierdo brota un enjambre de insectos de alas grises, que vuelan en línea recta hacia la cúpula y caen, hechos polvo, silencioso derrumbe de armaduras tocadas por la mano del sol. Silban las sirenas de las torres de las fábricas. Falos decapitados. Un pájaro vestido de ***** vuela en círculos y se posa en el único árbol vivo del llano. Después… No hay después. Avanzo, perforo grandes rocas de años, grandes masas de luz compacta, desciendo galerías de minas de arena, atravieso corredores que se cierran como labios de granito. Y vuelvo al llano, donde siempre es mediodía, donde un sol idéntico cae fijamente sobre un paisaje detenido. Y no acaban de caer las doce campanadas, ni de zumbar las moscas, ni de estallar en astillas este minuto que no pasa, que sólo arde y no pasa.
Placida notte, e verecondo raggio
Della cadente luna; e tu che spunti
Fra la tacita selva in su la rupe,
Nunzio del giorno; oh dilettose e care
Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato,
Sembianze agli occhi miei; già non arride
Spettacol molle ai disperati affetti.
Noi l'insueto allor gaudio ravviva
Quando per l'etra liquido si volve
E per li campi trepidanti il flutto
Polveroso dè Noti, e quando il carro,
Grave carro di Giove a noi sul capo,
Tonando, il tenebroso aere divide.
Noi per le balze e le profonde valli
Natar giova trà nembi, e noi la vasta
Fuga dè greggi sbigottiti, o d'alto
Fiume alla dubbia sponda
Il suono e la vittrice ira dell'onda.
Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella
Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta
Infinita beltà parte nessuna
Alla misera Saffo i numi e l'empia
Sorte non fenno. À tuoi superbi regni
Vile, o natura, e grave ospite addetta,
E dispregiata amante, alle vezzose
Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo. A me non ride
L'aprico margo, e dall'eterea porta
Il mattutino albor; me non il canto
Dè colorati augelli, e non dè faggi
Il murmure saluta: e dove all'ombra
Degl'inchinati salici dispiega
Candido rivo il puro seno, al mio
Lubrico piè le flessuose linfe
Disdegnando sottragge,
E preme in fuga l'odorate spiagge.
Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso
Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo
Il ciel mi fosse e di fortuna il volto?
In che peccai bambina, allor che ignara
Di misfatto è la vita, onde poi scemo
Di giovanezza, e disfiorato, al fuso
Dell'indomita Parca si volvesse
Il ferrigno mio stame? Incaute voci
Spande il tuo labbro: i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
Dè celesti si posa. Oh cure, oh speme
Dè più verd'anni! Alle sembianze il Padre,
Alle amene sembianze eterno regno
Diè nelle genti; e per virili imprese,
Per dotta lira o canto,
Virtù non luce in disadorno ammanto.
Morremo. Il velo indegno a terra sparto
Rifuggirà l'ignudo animo a Dite,
E il crudo fallo emenderà del cieco
Dispensator dè casi. E tu cui lungo
Amore indarno, e lunga fede, e vano
D'implacato desio furor mi strinse,
Vivi felice, se felice in terra
Visse nato mortal. Me non asperse
Del soave licor del doglio avaro
Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno
Della mia fanciullezza. Ogni più lieto
Giorno di nostra età primo s'invola.
Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra
Della gelida morte. Ecco di tante
Sperate palme e dilettosi errori,
Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno
Han la tenaria Diva,
E l'atra notte, e la silente riva.
¡Oh este rayo de sol que a mi alcoba se cuela
Como una viva y larga, mágica lentejuela!

Oh este rayo de sol que en mi boca se posa
Fingiendo que en mis labios ha florido una rosa!

¡Oh este rayo de sol que se acuesta en mi seno,
Como una daga fina sobre el cutis moreno!

¡ Oh este rayo de sol que acaso ha acariciado
La dulce y taciturna cabeza de mi amado,

Que taivez en los labios de mi amante dormido
La misma rosa de oro que en mi boca, ha florido!

Enredaste sus manos y entibiaste sus sienes
Y ahora, ¡todo hechizado por su contacto vienes!

Te colgaste a su cuello y llamaste a sus ojos
En los que anoche el sueño pusiera sus cerrojos.

              Ras o de sol fragante
              Que has besado a mi amante!

(Y el rayo es como una culebra de deseo
Que en mi cuerpo vibrante pone su centelleo).
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
l'ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.
Mariah Tulli Jan 2017
M&M
Menina cabeça dura
Quase nunca se entende
E nao se arrepende
De ser tão crua

Possui leveza como na lua
E fica toda reluzente
Quando posa para as lentes
Que te deixam nua

Menina da rua
Que deixa meu coração quente
Nao foge da gente
Porque eu quero ser sua
Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
È lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno cò suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dir questa
Solitudine immensa? Ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu sè queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ** fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
Estás labrando en mí la nueva vida,
pequeña y casta como oscura rosa.
Tu mirada de amor en mi se posa
para el anhelo de que estoy transida.

Llegaste a mí, tu mano conducida
por la de Aquel, celeste, que reposa
sobre toda la luz enclarecida.
Tú eres tierno y perfecto; yo, amorosa.

Amorosa, torcaza, deslumbrada,
corola erguida y alta, condenada
a la ancha sombra y el seguro frío

pero tan dulcemente enamorada,
que de rodillas ante Dios, sonrío
porque en tu sueño, triunfo de la nada.
Tardíamente, en el jardín sombrío,
tardíamente entró una mariposa,
transfigurando en alba milagrosa
el deprimente anochecer de estío.
Y, sedienta de miel y de rocío,
tardíamente en el rosal se posa,
pues ya se deshojó la última rosa
con la primera ráfaga de frío.
Y yo, que voy andando hacia el poniente,
siento llegar maravillosamente,
como esa mariposa, una ilusión;
pero en mi otoño de melancolía,
mariposa de amor, al fin del día,
qué tarde llegas a mi corazón...
Qu'attend-il sur la route

Ce guerrier voyageur ?

L'idole de son cœur,

C'est la gloire, sans doute ?

Mais à Notre-Dame d'Amour

Il priait l'autre jour.


Bien que l'on dût m'attendre,

J'ai ralenti mes pas ;

Mais il priait trop bas ;

Dieu seul pouvait l'entendre.

Ah ! si Notre-Dame d'Amour

Voulait parler un jour !


Ne sait-il de victoire

Qu'en suivant son drapeau ?

Que sert-il d'être beau

Pour n'aimer que la gloire ?

Est-ce bien là, Dame d'Amour,

Son vœu de l'autre jour ?


Un charme m'environne...

Vous qui priez pour nous,

Pourquoi sur vos genoux

Posa-t-il ma couronne ?

Faudra-t-il pas, Dame d'Amour,

Qu'il me la rende un jour ?
Por la sierra, una tarde, pasaba el Campeador.
El sol despertaba su flamígera flor,
y bruñía la púrpura de su esplendor postrero
en la resplandeciente coraza del guerrero.

El oro lo cubría de la frente a los pies:
su escarcela era de oro, y era de oro su arnés,
y un rubí granadino de adorno en la visera,
resplancedía menos que su mirada fiera.
Soberbiamente erguido con marcial bizarría,
no encontrando adversarios ¡con el Sol se batía!

Los pastores en lo alto de las altas montañas,
al ver pasar al héroe de las rudas hazañas
envuelto en su leyenda de osadía y estrago,
entre sí murmuraban: "Es el Cid, o es Santiago".
Pues con el fanatismo que infunde la victoria
unían los dos nombres en una misma gloria.

Así, lento, magnífico, arrogante y severo,
iba por los caminos el radiante viajero,
cuando oyó que del fondo de un barranco surgía
la ronca y débil súplica de una voz de agonía.
Y allí, tendido en tierra, vio un monstruo repugnante
de agarrotadas manos y roído semblante:
Un leproso.
                  De súbito, el corcel de Rodrigo
se encabritó: Tan sórdido y horrible era el mendigo,
que temió el noble bruto contaminar sus cascos
con rozar solamente aquel montón de ascos.

Con un gesto magnánino, el guerrero español,
inclinado su bélico penacho tornasol,
le ofrece al miserable todo lo que le queda:
una moneda de oro y un ademán de seda.

Y entonces, al llameante resplandor del ocaso,
con incrédulos ojos y vacilante paso,
aquella gusanera viviente se incorpora,
y cae de rodillas pesadamente, y llora....

Allí, en aquel oscuro recodo del camino,
lo maldijo una anciana, lo apedreó un campesino,
le fue negada el agua, le fue negado el pan,
y soportó en silencio la injuria y el desmán;
y ahora un caballero de luciente armadura
caritativamente consuela su amargura
sin temer el contagio de su inmunda dolencia,
y le ofrece a sus llagas una flor de clemencia.
Y el monstruo, en un impulso brutalmente sincero,
posa sus labios pútridos sobre el guante de acero.

El paladín lo mira sin desdén, sin temor,
sin cólera: ¡Por algo es el Cid Campeador!

Inmóvil y benigno en su dádiva inmensa,
el gran Rodrigo Díaz de Vivar algo piensa:
¿Qué sentimientos laten bajo su coraza?

De repente, con suave firmeza, lo rechaza;
contempla largamente aquel escombro humano,
se arranca el guantelete... ¡y le tiende la mano!
Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t'accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai né pensi
Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m'affaccio,
E l'antica natura onnipossente,
Che mi fece all'affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or dà trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già ch'io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell'artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov'è il suono
Di què popoli antichi? Or dov'è il grido
Dè nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio
Che n'andò per la terra e l'oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s'aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s'udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.
Vengo del fondo oscuro de una noche implacable
y contemplo los astros con un gesto de asombro.
Al llegar a tu puerta me confieso culpable
y una paloma blanca se me posa en el hombro.
Mi corazón humilde se detiene en tu puerta
con la mano extendida como un viejo mendigo;
y tu perro me ladra de alegría en la huerta,
porque, a pesar de todo, sigue siendo mi amigo.
Al fin creció el rosal aquel que no crecía
y ahora ofrece sus rosas tras la verja de hierro:
Yo también he cambiado mucho desde aquel día,
pues no tienen estrellas las noches del destierro.
Quizás tu alma está abierta tras la puerta cerrada;
pero al abrir tu puerta, como se abre a un mendigo,
mírame dulcemente, sin preguntarme nada,
y sabrás que no he vuelto... ¡porque estaba contigo!
Resígnanse los novios
con subconsciente pánico,
al soso parabién
del concurso inórganico.
Al fin, va la consorte
al pecho del anciano, cuyo porte
patriarcal solemniza
las bodas de su vástago
que lo trajeron de su hogar del Norte.
Y la agobiada mano agricultora
sumérgese en el raso de la espalda,
como la Tradición en el dechado
de la Aurora.
Sobre la luz del raso
se retarda y se engríe
la mano, como una rancia pena
en un tablero vívido que ríe.
Mano agrietada, rígida y terrosa,
que en el vaso metálico se posa,
cual si fuera una nuez
sobre la nitidez
de prístina bandeja inoficiosa...
Ainsi l'hôtel de ville illumine son faîte.
Le prince et les flambeaux, tout y brille, et la fête
Ce soir va resplendir sur ce comble éclairé,
Comme l'idée au front du poète sacré.
Mais cette fête, amis, n'est pas une pensée.
Ce n'est pas d'un banquet que la France est pressée,
Et ce n'est pas un bal qu'il faut, en vérité,
A ce tas de douleurs qu'on nomme la cité !

Puissants ! nous ferions mieux de panser quelque plaie
Dont le sage rêveur à cette heure s'effraie,
D'étayer l'escalier qui d'en bas monte en haut,
D'agrandir l'atelier, d'amoindrir l'échafaud,
De songer aux enfants qui sont sans pain dans l'ombre,
De rendre un paradis au pauvre impie et sombre,
Que d'allumer un lustre et de tenir la nuit
Quelques fous éveillés autour d'un peu de bruit !

Ô reines de nos toits, femmes chastes et saintes,
Fleurs qui de nos maisons parfumez les enceintes,
Vous à qui le bonheur conseille la vertu,
Vous qui contre le mal n'avez pas combattu,
A qui jamais la faim, empoisonneuse infâme,
N'a dit : Vends-moi ton corps, - c'est-à-dire votre âme !
Vous dont le cœur de joie et d'innocence est plein,
Dont la pudeur a plus d'enveloppes de lin
Que n'en avait Isis, la déesse voilée,
Cette fête est pour vous comme une aube étoilée !
Vous riez d'y courir tandis qu'on souffre ailleurs !
C'est que votre belle âme ignore les douleurs ;
Le hasard vous posa dans la sphère suprême ;
Vous vivez, vous brillez, vous ne voyez pas même,
Tant vos yeux éblouis de rayons sont noyés,
Ce qu'au-dessous de vous dans l'ombre on foule aux pieds !

Oui, c'est ainsi. - Le prince, et le riche, et le monde
Cherche à vous réjouir, vous pour qui tout abonde.
Vous avez la beauté, vous avez l'ornement ;
La fête vous enivre à son bourdonnement,
Et, comme à la lumière un papillon de soie,
Vous volez à la porte ouverte qui flamboie !
Vous allez à ce bal, et vous ne songez pas
Que parmi ces passants amassés sur vos pas,
En foule émerveillés des chars et des livrées,
D'autres femmes sont là, non moins que vous parées,
Qu'on farde et qu'on expose à vendre au carrefour ;
Spectres où saigne encor la place de l'amour ;
Comme vous pour le bal, belles et demi-nues ;
Pour vous voir au passage, hélas ! exprès venues,
Voilant leur feuil affreux d'un sourire moqueur,
Les fleurs au front, la boue aux pieds, la haine au cœur !

Mai 1833.
Voyons, d'où vient le verbe ? Et d'où viennent les langues ?
De qui tiens-tu les mots dont tu fais tes harangues ?
Écriture, Alphabet, d'où tout cela vient-il ?
Réponds.

Platon voit l'I sortir de l'air subtil ;
Messène emprunte l'M aux boucliers du Mède ;
La grue offre en volant l'Y à Palamède ;
Entre les dents du chien Perse voit grincer l'R ;
Le Z à Prométhée apparaît dans l'éclair ;
L'O, c'est l'éternité, serpent qui mord sa queue ;
L'S et l'F et le G sont dans la voûte bleue,
Des nuages confus gestes aériens ;
Querelle à ce sujet chez les grammairiens :
Le D, c'est le triangle où Dieu pour Job se lève ;
Le T, croix sombre, effare Ézéchiel en rêve ;
Soit ; crois-tu le problème éclairci maintenant ?
Triptolème, a-t-il fait tomber, en moissonnant,
Les mots avec les blés au tranchant de sa serpe ?
Le grec est-il éclos sur les lèvres d'Euterpe ?
L'hébreu vient-il d'Adam ? le celte d'Irmensul ?
Dispute, si tu veux ! Le certain, c'est que nul
Ne connaît le maçon qui posa sur le vide,
Dans la direction de l'idéal splendide,
Les lettres de l'antique alphabet, ces degrés
Par où l'esprit humain monte aux sommets sacrés,
Ces vingt-cinq marches d'or de l'escalier Pensée.

Eh bien, juge à présent. Pauvre argile insensée,
Homme, ombre, tu n'as point ton explication ;
L'homme pour l'oeil humain n'est qu'une vision ;
Quand tu veux remonter de ta langue à ton âme,
Savoir comment ce bruit se lie à cette gamme,
Néant. Ton propre fil en toi-même est rompu.
En toi, dans ton cerveau, tu n'as pas encor pu
Ouvrir ta propre énigme et ta propre fenêtre,
Tu ne te connais pas, et tu veux le connaître,
LUI ! Voyant sans regard, triste magicien,
Tu ne sais pas ton verbe et veux savoir le sien !

— The End —