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Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Victor Thorn Mar 2014
Libera me, Domine,
de morte aeterna
in die illa tremenda
quando coeli movendi sunt et terra

dum veneris judicare
saeculum per ignem.
Tremens factus sum
ego et timeo,
dum discussion venerit atque venture ira:
quando coeli movendi sunt et terra.

November 21, 1976. 11:00 P.M.

With nothing
he packs his suitcase, turns
to his own personal prophet
and watches and waits
and waits, he will wait
for an hour.

And finally
the prophet speaks
in monotone, three short syllables.

He opens the door, careful
not to wake dad.
Turning the corner,
the suitcase jars the door ajar.

A stirring from upstairs.

Remembering the face of madness
behind the pulpit
behind the door,
he races out, fearful
of footsteps drawing louder
and with them, promises
of pain.
Inspired by the corresponding text in Verdi's Messa da Requiem (movement 2) and the story of Nathan Phelps' escape from the Westboro Baptist Church at midnight on his 18th birthday.
De los hombres lanzado al desprecio,
de su crimen la víctima fui,
y se evitan de odiarse a sí mismos,
fulminando sus odios en mí.
          Y su rencor
al poner en mi mano, me hicieron
          su vengador;
          y se dijeron
«Que nuestra vergüenza común caiga en él;
se marque en su frente nuestra maldición;
su pan amasado con sangre y con hiel,
su escudo con armas de eterno baldón
          sean la herencia
          que legue al hijo,
          el que maldijo
          la sociedad.»
          ¡Y de mí huyeron,
de sus culpas el manto me echaron,
y mi llanto y mi voz escucharon
          sin piedad!
Al que a muerte condena le ensalzan...
¿Quién al hombre del hombre hizo juez?
¿Que no es hombre ni siente el verdugo
imaginan los hombres tal vez?
          ¡Y ellos no ven
Que yo soy de la imagen divina
          copia también!
          Y cual dañina
fiera a que arrojan un triste animal
que ya entre sus dientes se siente crujir,
así a mí, instrumento del genio del mal,
me arrojan el hombre que traen a morir.
          Y ellos son justos,
          yo soy maldito;
          yo sin delito
          soy criminal:
          mirad al hombre
que me paga una muerte; el dinero
me echa al suelo con rostro altanero,
          ¡a mí, su igual!
El tormento que quiebra los huesos
y del reo el histérico ¡ay!,
y el crujir de los nervios rompidos
bajo el golpe del hacha que cae,
          son mi placer.
Y al rumor que en las piedras rodando
          hace, al caer,
          del triste saltando
la hirviente cabeza de sangre en un mar,
allí entre el bullicio del pueblo feroz
mi frente serena contemplan brillar,
tremenda, radiante con júbilo atroz
          que de los hombres
          en mí respira
          toda la ira,
          todo el rencor:
          que a mí pasaron
la crueldad de sus almas impía,
y al cumplir su venganza y la mía
          gozo en mi horror.
Ya más alto que el grande que altivo
con sus plantas hollara la ley
al verdugo los pueblos miraron,
y mecido en los hombros de un rey:
          y en él se hartó,
embriagado de gozo aquel día
          cuando espiró;
          y su alegría
su esposa y sus hijos pudieron notar,
que en vez de la densa tiniebla de horror,
miraron la risa su labio amargar,
lanzando sus ojos fatal resplandor.
          Que el verdugo
          con su encono
          sobre el trono
          se asentó:
          y aquel pueblo
          que tan alto le alzara bramando,
          otro rey de venganzas, temblando,
          en él miró.
En mí vive la historia del mundo
que el destino con sangre escribió,
y en sus páginas rojas Dios mismo
mi figura imponente grabó.
          La eternidad
ha tragado cien siglos y ciento,
          y la maldad
          su monumento
en mí todavía contempla existir;
y en vano es que el hombre do brota la luz
con viento de orgullo pretenda subir:
¡preside el verdugo los siglos aún!
          Y cada gota
          que me ensangrienta,
          del hombre ostenta
          un crimen más.
          Y yo aún existo,
fiel recuerdo de edades pasadas,
a quien siguen cien sombras airadas
          siempre detrás.
¡Oh! ¿por qué te ha engendrado el verdugo,
tú, hijo mío, tan puro y gentil?
En tu boca la gracia de un ángel
presta gracia a tu risa infantil.
          ¡Ay!, tu candor,
tu inocencia, tu dulce hermosura
          me inspira horror.
          ¡Oh!, ¿tu ternura,
mujer, a qué gastas con ese infeliz?
¡Oh!, muéstrate madre piadosa con él;
ahógale y piensa será así feliz.
¿Qué importa que el mundo te llame cruel?
          ¿mi vil oficio
          querrás que siga,
          que te maldiga
          tal vez querrás?
          ¡Piensa que un día
al que hoy miras jugar inocente,
maldecido cual yo y delincuente
          también verás!
Mafe Oct 2012
"Uma corte recheada de incertezas.
Diz o mestre:
- A todos vocês condeno essas correntes ventrais.
Condeno essa pressão cardíaca, essa confusão mental.
Não desejeis vós que o sentimento profundo lhes fosse concedido?
E quem há de me jurar que com ele não viria tremenda descordenação,
tremendo derrocamento?
Ouçam o bardo correndo louco entre as paredes de pedra.
Ouçam o gondoleiro, barcarolando as canções de amor.
Ouçam o basbaque som dos encantados,
os afeiçoados e doados de coração.
Eis a verdade, corte, corte de sentimentos.
Jaz aqui o vento que me tragou a esta ilusão.
Gritam altissonantes os mares,
arriscai-vos corações,
antes que o mar os leve a vossos esquifes,
antes que seja muito tarde para arriscar.
Porém que seja espúrioso o vosso amor.
Pois é sentimento que se perde em lamentações,
e para vive-lo, arriscar é necessário, não aja com esquivança,
uma vez entrelaçado, o amor é mais que a promessa,
é a eternidade, é um fado, é um facho,
é imensurável,
é imane,
é ilibado,
insinuante sinal de maravilhas,
ofusca os olhos de quem sente,
faz plenitude e traz saudade a quem não tem,
mas ainda sim muito além,
é uma reta paralela, e dele deve ser padrinho em solenidade,
é um pardieiro implorando piedade, e nós somos a reconstrução.
Então amem corte, mas paguem o preço,
na labuta e na luta,
pois o amor é um mestiço, meio amargo, meio doce,
mas é nato em perfeição."
Ardiente juventud, tú que la herencia
Recoges ya del siglo diez y nueve,
Y que el maduro fruto de la ciencia
Llevas al porvenir con planta breve;
Tú que en la edad viril, la limpia aurora
Verás del nuevo siglo, en que, alentado
Por el rico saber que hoy atesora,
Tu espíritu esforzado,
Al saludar gozosa el sol naciente,
Honrarás las conquistas del presente
Con las sabias lecciones del pasado:

Atiende aquí a mi voz; vibre mi acento
Como un canto triunfal en tus oídos;
Y en noble sentimiento,
Como al sonar de bélico instrumento,
Los generosos pechos encendidos,
Al escucharse de la lira mía
Las toscas pulsaciones,
La acompañen en rítmica armonía
Latiendo vuestros nobles corazones.

Madre es la Patria, que confiada espera,
Al contemplaros, de su amor ufana,
En la marcial carrera,
Su porvenir, su nombre y su bandera
En vuestras manos entregar mañana;
Y, escudos de la ley y del derecho,
La mente con la ciencia engalanada,
Las patricias virtudes en el pecho,
Podréis decir que irradia vuestra espada
Aquella luz que en África una noche
Vieron brillar de César los guerreros
Como lenguas de fuego en sus aceros.

Que no siempre el aliento de la guerra
Fue engendro del rencor y la venganza;
Ni el odio y la matanza
Sobre la faz de la extendida tierra
Han llevado las huestes victoriosas
Que, cual fieros torrentes desbordados,
Destruyeron naciones poderosas
En los heroicos tiempos ya pasados.

El saber, las costumbres, las ideas;
El rico idioma que a mezclarse llega
Con ignotos idiomas escondidos;
La extraña actividad que se desplega,
Al formar vencedores y vencidos
Nuevos pueblos, y razas, y naciones,
Con más altas tendencias,
Con más nobles creencias,
Y más rico caudal de aspiraciones:

Esta la guerra fue. ¡Cuán grande miro,
Sobre la deslumbrante Babilonia,
Su poderoso imperio alzando Ciro!
¡Y al hundirse la asiría monarquía,
De sus escombros de oro y alabastro
Surgir una era nueva, como un astro
Derramando la luz del nuevo día!

El espíritu helénico ¿a quién debe
Su más alto esplendor? Se alza primero
Como lejana luz brillando leve;
Lo trasforma en un sol la voz de Homero;
Y su inmortal fulgor, grande y fecundo,
Viene a alumbrar la historia,
Cuando Alejandro, en alas de la gloria,
Lo extiende en sus conquistas por el mundo.

Predilecto del genio y la victoria,
Por donde quiera que la firme planta
Asienta el hijo de Filipo, un templo
Para honrar el progreso se levanta.
¡Oh caudillo esforzado y sin ejemplo!
Su triunfal estandarte
Pueblos, reyes y obstáculos desprecia,
Porque lleva con él la fe de Grecia,
La voz del genio y el poder del arte.
Y al calor de la lucha y de las armas,
Y a la sombra del águila altanera
Que hacia el Oriente sus legiones guía,
Cifra imperecedera
De inmensa gloria, nace Alejandría.

¡Augusto emporio del saber humano,
Irguióse altiva entre la mar y el Nilo,
Siguiendo el trazo que con diestra mano
Supo copiar Dinócrates tranquilo
Del manto militar del soberano!

Ved: las romanas picas aparecen
Anunciando a la tierra
Que otros gérmenes crecen;
Que en la ciudad de Rómulo se encierra
El porvenir de cien generaciones,
Que llevarán, en alas de la guerra,
Fuertes y victoriosas sus legiones.
Y bajo el sol ardiente de Cartago,
Y en la margen del Támesis sombrío,
Y del Danubio entre el murmullo vago,
Y al pintoresco pie del Alpe frío,
Con César y Pompeyo soberanas,
Llevando al mundo entre sus garras preso,
De la victoria al encendido beso,
Se han de cernir las águilas romanas.

Y al cruzar esas huestes, anchas vías
Se abren para el viajero;
Despiertan en los pueblos simpatías,
Del mercader audaz rico venero;
Surcan tendidos mares los bajeles,
Y, nuevo Deucalión, Roma dejando
Su camino regado de laureles,
Fantásticas ciudades van brotando;
Y, el polvo que levantan los corceles,
Al disipar los vientos,
Dejan ver, como huellas de su paso,
Soberbios monumentos
Desde do nace el sol hasta el ocaso.

Después de tantos siglos de victoria
Roma también inclina su bandera;
Y los últimos fastos de su historia
El triunfo son de muchedumbre fiera
Atravesando con feroz encono
Los lejanos y estériles desiertos,
Y en numerosas hordas conducidos
Por caminos inciertos.
Cual de mares que están embravecidos,
Su espuma salpicando en las arenas
Las gigantescas olas,
Llegan a sepultar playas serenas:
Así vienen, ardientes y terribles,
Hunos, godos, alanos y lombardos,
Vándalos, francos, suevos, burguiñones,
Galos y anglo-sajones;
Y de ese hervor de muchedumbre extraña
Surgen nuevas naciones:
Inglaterra, Alemania, Francia, España.

Del escondido seno de la Arabia
Brota un incendio nuevo que devora
Al mundo ya cristiano;
Brilla la media luna aterradora;
Lanza un grito de guerra el africano;
Y Europa, en otro tiempo vencedora,
Trémula mira la atrevida mano
Del hijo del profeta,
Que, incontrastable, vino
A clavar su pendón sobre los muros
De la imperial ciudad de Constantino.
Su irresistible empuje
Hace rodar el trono de los godos;
Al paso del islam la tierra cruje,
Y al cielo de la ciencia tres estrellas
En tan sangrienta y trágica demanda
Asoman luego espléndidas y bellas:
Son Córdoba, Bagdad y Samarcanda.

Y en esa larga noche tenebrosa
Del espíritu humano, en la Edad Media,
Esos astros de luz esplendorosa
Guardan el sacro fuego
Que el mundo entonces desconoce ciego,
Y que otra culta edad mira asombrada,
Cuando su noble admiración excita
De Córdoba la arábiga Mezquita,
Y la soberbia Alhambra de Granada.

Siempre tras de la guerra,
Más vigorosa llega la cultura:
Así sobre la tierra
La negra tempestad ruge en la altura;
Tremenda se desata
De su seno la hirviente catarata;
El formidable rayo serpentea;
El relámpago incendia el horizonte;
El huracán los ámbitos pasea,
Infundiendo el terror del prado al monte
Y aquella confusión que, estremecida
Y acobardada ve Naturaleza,
Es nueva fuente de vigor y vida,
Y manantial de amor y de belleza.

Recordadlo vosotros, cuyo pecho
Desde temprana edad honra la insignia
Del soldado del pueblo y del derecho;
Y no olvidéis jamás, si acaso un día,
Siguiendo con valor vuestra bandera.
Lleváis o resistís la guerra impía
De nación extranjera,
Sin consentir jamás infame yugo,
Que la espada esgrimís del ciudadano,
No el hacha del verdugo:
Que el pendón que enarbola vuestra mano,
Es la antorcha de luz, y no la tea
Del incendiario vil: que los desvelos
De esta patria, tan tiernos y prolijos,
Es hallar en vosotros dignos hijos
De Hidalgo, de Guerrero y de Morelos.

No olvidéis que mecióse vuestra cuna
En el mismo recinto
Sobre el cual resistieron los aztecas
A las huestes del César Carlos Quinto;
Y que el indio jamás huyó cobarde,
Ni al ver flotando espléndidos palacios
En el revuelto mar, de audacia alarde;
Ni al ver cruzar, silbando en el espacio,
El duro proyectil; ni ante el ruido
Atronador del arcabuz ibero;
Ni al conocer el ágil y ligero
Corcel, que, resoplando entre la espuma
De sus hinchadas fauces, parecía
Hundir el virgen suelo que regía
Con su dorado cetro Moctezuma.
Recordad que a los golpes de la espada,
Y de las lanzas a los botes rudos,
Nunca temió la raza denodada,
Cuyos pechos desnudos
Puso ante los cañones por escudos.
Recordad que este pueblo, cuando siente
Herir su dignidad, fulmina el rayo,
Lo mismo en las montañas insurgente,
Que en los baluartes bajo el sol de mayo:
Que, en páginas de luz dejando escritas,
Glorias que nunca empañará la niebla,
Hidalgo fue un titán de Granaditas,
Y fue un gigante Zaragoza en Puebla:
Que merece en la historia eterna vida
La guerra al invasor osado y fiero,
Cual merece la guerra fratricida
La maldición del Universo entero:
Que una docta experiencia
Dicen que dan el triunfo ambicionado,
Más que las toscas armas del soldado,
Las invencibles armas de la ciencia;
Y, sabios y prudentes,
Al recoger la enseña sacrosanta
De esta patria, que hoy ciñe vuestras frentes
Con el lauro debido a vuestro celo,
Veladla siempre con amor profundo;
Y así cual brilla el sol sobre la esfera,
Mire brillar en vuestra mano el mundo,
Libre y llena de honor, nuestra bandera.
Dad de firmeza y de heroísmo ejemplo;
Nunca luchéis hermano contra hermano;
Amad la patria: y hallaréis por templo
El corazón del pueblo mejicano.
¡Oh la luna, la luna que cantan los poetas!
¡Oh la luna brillante de tristeza tremenda!
¡La luna que no sabe ni del frescor del agua
ni del viento que tacta, como un fauno, las selvas!

¡La luna que no tiene ni un árbol, ni una brizna,
ni una mujer y un hombre que se quieran en ella,
ni un puñado de polvo que dance en remolinos,
ni un río que haga ruido saltando entre sus piedras!

Parece tan hermosa, tan nueva, tan luciente,
y no es más que una pobre vieja desposeída,
frente a frente a la tierra millonaria de dones
una muerta consciente frente a frente a una viva.

¡Piedad para la luna! ¡Piedad para la luna!
No beséis vuestras novias, ¡oh novios!, ante ella.
¡Dios sabe de qué envidias y angustias está llena
la luz que nos envían la luna y las estrellas.
Vita che non osai chiedere e fu,
mite, incredula d'essere sgorgata
dal sasso impenetrabile del tempo,
sorpresa, poi sicura della terra,
tu vita ininterrotta nelle fibre
vibranti, tese al vento della notte...

Era, donde scendesse, un salto d'acque
silenziose, frenetiche, affluenti
da una febbrile trasparenza d'astri
ove di giorno ero travolto in giorno,
da me profondamente entro di me
e l'angoscia d'esistere tra rocce
perdevo e ritrovavo sempre intatta.

Tempo di consentire sei venuto,
giorno in cui mi maturo, ripetevo,
e mormora la crescita del grano,
ronza il miele futuro. Senza pausa
una ventilazione oscura errava
tra gli alberi, sfiorava nubi e lande;
correva, ove tendesse, vento astrale,
deserto tra le prime fredde foglie,
portava una germinazione oscura
negli alberi, turbava pietre e stelle.

Con lo sgomento d'una porta
che s'apra sotto un peso ignoto, entrava
nel cuore una vertigine d'eventi,
moveva il delirio e la pietà.
Le immagini possibili di me,
passi uditi nel sogno ed inseguiti,
svanivano, con che tremenda forza
ti fu dato di cogliere, dicevo,
tra le vane la forma destinata!
Quest'ora ti edifica e ti schianta.
L'uno ancora implacato, l'altro urgeva -
con insulto di linfa chiusa i giorni
vorticosi nascevano da me,
rapidi, colmi fino al segno, ansiosi,
senza riparo n'ero trascinato.
Fosti, quanto puoi chiedere, reale,
la contesa col nulla era finita,
spirava un tempo lucido e furente,
senza fine perivi e rinascevi,
ne sentivi la forza e la paura.
Una disperazione antica usciva
dagli alberi, passava sulle tempie.
Vita, ne misuravi la pienezza,.
La Señora Silenciosa,
La Veterana Infalible.
La Muerte, cosa terrible,
La Muerte... ¡tremenda cosa!
Qué fuerza tan misteriosa,
implacable, traicionera:
Llegas al que no te espera,
huyes del que te reclama,
ríes del pobre que clama:
¡Muerte, si otra muerte hubiera...!
Quisiera librar al mundo
de tu macabra misión.
Quisiera darte prisión
en un abismo profundo.
Quisiera, por un segundo,
contemplarte cara a cara
y que el Cosmos me dotara
de indestructible poder
conjugando un verbo Ser
que de ti me libertara.
Muerte, yo te desafío,
tu presencia no me extraña,
me burlo de tu guadaña
y de tus huesos me río.
Muerte, no le temo al frío
Que los corazones para.
Muerte, si otra te matara,
al saberte ya destruida,
con la prenda más querida
a esa Muerte pagara.
Muerte que todo lo callas
estás en todo lugar,
en las nubes, en el mar,
en los campos de batalla.
Cada bala de metralla
es tu palabra certera...
Si de otra muerte muriera,
si otra muerte me llevase
a esa Muerte pagase
porque a ti, muerte te diera.
Mateuš Conrad Dec 2019
Orléans, the maid Jean (Żąn of Arc)...

i have made peace with the paganism revival
in the medium realm of music,
i once entertained the idea...
but upon watching Floki crawl into the heart
of the mountain
  (vikings t.v. series)...
and seeing a cross at its base,
                   rather than a hammer of a dwarven
master smithy...
  breaking down and crying...
          and then recounting his ambitions?
for a people to adopt an approach of a people
to do not consider revenge?
          him screaming, from the mountain's heart,
which resulted in a volvanic eruption...
what god was he seeking,
to begin with?
             i moved from pop, rock, alt., punk
etc. into pagan revival music,
but i also transitioned from pagan revival
music into the realm of the templar chants,
byzantine chants, the gregorian...
and it was so soothing,
         my faith, my heart lies with the music
that appeases me, my angers and my doubts...
it's not the most spectacular of examples,
but its the only honesty i can ever give,
i cry at beauty...
   when i spent the whole night
watching the indian sea pillage and ****
  the kenyan coast...
when i first heard ola gjeilo's ubi caritas,
when i first heard
vaughan william's fantasia on a theme
by thomas tallis...
            it is so hard to cry when presented
with beauty...

     i side with the christian chants...
akin to the gregorian: libera me domine...

  after all... the post-roman scripts are
not pretty, esp. the english language
pretending to know the existence of orthography...
which it doesn't: given it has no diacritical
marker applicability...
             hardly a diacritical marking system
if...   ȷust so, as ι saιd... and also... they disappear
upon the CAPITAL STATED...
  JUST LIKE, SO...

               but at least the post-roman
latιn remaιns allow, more for a language to be
sung... than could ever be saιd...
hardly to claιm... ι, I, L, l...
   (after all... what of the asiatic people?
they have a complex phonetic encoding
system,
   last time i checked...
      they drew beautifully...
     but when it came to singing?
                  i find crows to croack
more beautifully than their peoples singing;
i guess you really need a castrato harem
of choir boys to reach the sort of pop
established by 20th century artists...
     how almost wonderful...
             castratos ascribed the governance
of song, rather than disgruntled harem ******)...
                
now... please excuse me, whιle ι translate
the lyrιcs of lιbera me domιne
   (in pig latin)...

     libera me domine
                      de mortem aeterna
           in die illa tremenda
     caeli movendi sunt et terra
        dum veneris
                   judicare saeculum per ignem
     tremens factus sum ego et timeo
        dum discussio venerit
      atque ventura ira
                 quando caeli vendi sunt et terra
dies illes dies irae
    calamatis et miseriae
         dies magna et amara valde
dum veneris
                 judicare saeculum per ignem
    requiem aeternam dona eis domine
  et lux per petua luceat eis
  liber me domine
                  de morte aeterna...
in die illa tremenda...

    free me lord
              from death's eternity
into your godliness that's awe inspiring
  (as also terrible)
heaven moves both sun and earth
while love judges heathenism
    by fire
    rest from the eternal gifts as
does the lord...
   and the light from its "petulance"
to continue to shine...

   will gregorian chants be censored?
templar chants? byzantine chants?
                   i tired of pop songs,
of 20th century "innovations"...

    petua...
                 in english... the word implies:
advice...
ah!
     et lux per petua luceat eis
   and from seeking advice from the light
that shines!
so much for: petulance...

what a contradictory song...
               still...
                                what's next,
they ban gregorian chants,
   and fall flat praising and clapping
the next adhan?!
Geovanni Alfaro Sep 2016
El toque frío y suave de tu dulce voz era la ultima arma del malvado Zeus.
Que con un gesto de anticipación y con los dientes rechinando
arrojó el rayo en el par de mi cuello.

"Una falla tremenda!" exlame,
pero un delicuente sabe mas que su victima.

Ya han pasado cuatro años desde el nacimiento de mi entendimiento y no ha occurido nada.

Ayy Tristessa.
Cordero tranquilo, cordero que paces
tu grama y ajustas tu ser a la eterna armonía:
hundiendo en el lodo las plantas fugaces
huí de mis campos feraces
un día...
Ruiseñor de la selva encantada
que preludias el orto abrileño:
a pesar de la fúnebre muerte, y la sombra, y la nada,
yo tuve el ensueño.
Sendero que vas del alcor campesino
a perderte en la azul lontananza:
los dioses me han hecho un regalo divino:
la ardiente esperanza.
Espiga que mecen los vientos, espiga
que conjuntas el trigo dorado:
al influjo de soplos violentos,
en las noches de amor, he temblado.
Montaña que el sol transfigura.
Tabor al febril mediodía,
silente deidad en la noche estilífera y pura:
¡nadie supo en la tierra sombría
mi dolor, mi temblor, mi pavura!
Y vosotros, rosal florecido,
lebreles sin amo, luceros, crepúsculos,
escuchadme esta cosa tremenda: ¡He Vivido!
He vivido con alma, con sangre, con nervios, con músculos,
y voy al olvido...
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Oh mar, enorme mar, corazón fiero
De ritmo desigual, corazón malo,
Yo soy más blanda que ese pobre palo
Que se pudre en tus ondas prisionero.
Oh mar, dame tu cólera tremenda,
Yo me pasé la vida perdonando,
Porque entendía, mar, yo me fui dando:
«Piedad, piedad para el que más ofenda».
Vulgaridad, vulgaridad me acosa.
Ah, me han comprado la ciudad y el hombre.
Hazme tener tu cólera sin nombre:
Ya me fatiga esta misión de rosa.
¿Ves al ******? Ese ****** me apena,
Me falta el aire y donde falta quedo,
Quisiera no entender, pero no puedo:
Es la vulgaridad que me envenena.
Me empobrecí porque entender abruma,
Me empobrecí porque entender sofoca,
¡Bendecida la fuerza de la roca!
Yo tengo el corazón como la espuma.
Mar, yo soñaba ser como tú eres,
Allá en las tardes que la vida mía
Bajo las horas cálidas se abría...
Ah, yo soñaba ser como tú eres.

Mírame aquí, pequeña, miserable,
Todo dolor me vence, todo sueño;
Mar, dame, dame el inefable empeño
De tornarme soberbia, inalcanzable.
Dame tu sal, tu yodo, tu fiereza.
¡Aire de mar!... ¡Oh, tempestad! ¡Oh enojo!
Desdichada de mí, soy un abrojo,
Y muero, mar, sucumbo en mi pobreza.
Y el alma mía es como el mar, es eso,
Ah, la ciudad la pudre y la equivoca;
Pequeña vida que dolor provoca,
¡Que pueda libertarme de su peso!
Vuele mi empeño, mi esperanza vuele...
La vida mía debió ser horrible,
Debió ser una arteria incontenible
Y apenas es cicatriz que siempre duele.
Alan Eshban Jun 2017
Hermosa serendipia pasó aquel día,
Imaginar no podía lo hermosa que te veías,
Tratar de encontrar palabra la cual describirte no existía, fascinante momento, que en mi memoria guardado está como si se tratase del hermoso olor de un rosal, un rosal enrome, de abundancia de flores, de distintos colores. Afortunado mi ser por el poderte conocer, más hermosa que la incandecencia del sol que produce el alba de las mañanas, ahora este gran amor con tremenda dileccion y completamente eviterno entrego a usted; a cambio nada pido, pero me resultára enormemente una gran alegría el que quiera pasar el resto de su vida a lado mío, y juntos poder ser la paraja que el mundo, nunca haya conocido, En el que la gente envidia diera nuestro inmarcesible amor; que por causa nuestra, surjan nuevos poetas, que formen poemas de nuestra maravillosa relación, que surjan escritores que escriban nuestra hermosa historia, y que todos aquellos lectores sientan nuestra pasión, y poder llegar a ser una de las grandes literaturas como Romeo y Julieta lo es.
Entonces... ¿Aceptais mi propuesta... amada mía?, y juntos poder hacer verídicas todas estas profecías...
Nada a las fuerzas próvidas demando,
pues mi propia virtud he comprendido.
Me basta oír el perennal ruido
que en la concha marina está sonando.
Y un lecho duro y un ensueño blando;
y ante la luz, en vela mi sentido
para advertir la sombra que al olvido
el ser impulsa y no sabemos cuándo...
Fijar las lonas de mi móvil tienda
junto a los calcinados precipicios
de donde un soplo de misterio ascienda;
y al amparo de númenes propicios,
en dilatada soledad tremenda
bruñir mi obra y cultivar mis vicios.
Del castigo acercábase el instante.
Entre la niebla gris de la Sabana,
La tribu, a Teusaquillo, en caravana
Llegaba, la amargura en el semblante.

Tisquesusa surgió, todo radiante
De oro, como fúlgida mañana:
En la diestra, su cetro de macana,
Y en los ojos, mirada fulgurante.

Vendado entró el ladrón. Baja la frente;
Los Usaques, en fila, al delincuente
Lanzaban al pasar viles apodos.

¡Iba a cumplirse ya la ley tremenda!
Y al quitarle de súbito la venda
Dijo el ladrón: «¡Un indio como todos!»
A dura sombra el día, a dura sombra
la noche lúcida de orquestada lengua.
El ruiseñor eterno no se asombra
de su rumor, ni él su trino amengua.

La tremenda amapola de las horas,
en la hora de amor, Eros deshoja
y el dios de amor, mi luna de a deshoras,
en su balanza, sin descuento, arroja.

Inauguro este sueño a todo fuego
y con un soplo me lo aviva un ángel.
Mujeres de alto pecho, hombres en lego,

dirán, con voz de silvo, que es desángel,
pero mi Dios supremo, a quien lo entrego,
sabe que es El quien empujo al arcángel.
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
una mujer de ojos lujosos y otros pactos conmigo
abre sus pechos bajo el sol lo devora con párpados cerrados
inmóvil en la arena
alimenta sus vestias su potencia su gran casualidad
la riñona se tensa
prepara sus dulzuras las furiosas la húmeda tremenda
calla finge humildad alerta de uñas
cerrada en sí perfecta
contra la luz
bajo sus párpados vigila los movimientos de la noche
Vita che non osai chiedere e fu,
mite, incredula d'essere sgorgata
dal sasso impenetrabile del tempo,
sorpresa, poi sicura della terra,
tu vita ininterrotta nelle fibre
vibranti, tese al vento della notte...

Era, donde scendesse, un salto d'acque
silenziose, frenetiche, affluenti
da una febbrile trasparenza d'astri
ove di giorno ero travolto in giorno,
da me profondamente entro di me
e l'angoscia d'esistere tra rocce
perdevo e ritrovavo sempre intatta.

Tempo di consentire sei venuto,
giorno in cui mi maturo, ripetevo,
e mormora la crescita del grano,
ronza il miele futuro. Senza pausa
una ventilazione oscura errava
tra gli alberi, sfiorava nubi e lande;
correva, ove tendesse, vento astrale,
deserto tra le prime fredde foglie,
portava una germinazione oscura
negli alberi, turbava pietre e stelle.

Con lo sgomento d'una porta
che s'apra sotto un peso ignoto, entrava
nel cuore una vertigine d'eventi,
moveva il delirio e la pietà.
Le immagini possibili di me,
passi uditi nel sogno ed inseguiti,
svanivano, con che tremenda forza
ti fu dato di cogliere, dicevo,
tra le vane la forma destinata!
Quest'ora ti edifica e ti schianta.
L'uno ancora implacato, l'altro urgeva -
con insulto di linfa chiusa i giorni
vorticosi nascevano da me,
rapidi, colmi fino al segno, ansiosi,
senza riparo n'ero trascinato.
Fosti, quanto puoi chiedere, reale,
la contesa col nulla era finita,
spirava un tempo lucido e furente,
senza fine perivi e rinascevi,
ne sentivi la forza e la paura.
Una disperazione antica usciva
dagli alberi, passava sulle tempie.
Vita, ne misuravi la pienezza,.
Vita che non osai chiedere e fu,
mite, incredula d'essere sgorgata
dal sasso impenetrabile del tempo,
sorpresa, poi sicura della terra,
tu vita ininterrotta nelle fibre
vibranti, tese al vento della notte...

Era, donde scendesse, un salto d'acque
silenziose, frenetiche, affluenti
da una febbrile trasparenza d'astri
ove di giorno ero travolto in giorno,
da me profondamente entro di me
e l'angoscia d'esistere tra rocce
perdevo e ritrovavo sempre intatta.

Tempo di consentire sei venuto,
giorno in cui mi maturo, ripetevo,
e mormora la crescita del grano,
ronza il miele futuro. Senza pausa
una ventilazione oscura errava
tra gli alberi, sfiorava nubi e lande;
correva, ove tendesse, vento astrale,
deserto tra le prime fredde foglie,
portava una germinazione oscura
negli alberi, turbava pietre e stelle.

Con lo sgomento d'una porta
che s'apra sotto un peso ignoto, entrava
nel cuore una vertigine d'eventi,
moveva il delirio e la pietà.
Le immagini possibili di me,
passi uditi nel sogno ed inseguiti,
svanivano, con che tremenda forza
ti fu dato di cogliere, dicevo,
tra le vane la forma destinata!
Quest'ora ti edifica e ti schianta.
L'uno ancora implacato, l'altro urgeva -
con insulto di linfa chiusa i giorni
vorticosi nascevano da me,
rapidi, colmi fino al segno, ansiosi,
senza riparo n'ero trascinato.
Fosti, quanto puoi chiedere, reale,
la contesa col nulla era finita,
spirava un tempo lucido e furente,
senza fine perivi e rinascevi,
ne sentivi la forza e la paura.
Una disperazione antica usciva
dagli alberi, passava sulle tempie.
Vita, ne misuravi la pienezza,.

— The End —