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tangshunzi Jun 2014
Ti ** mai detto che io sono un pollone completo per una storia d'amore ?Probabilmente capito che fuori già



.ma io amo sentire come fuori di tutte le persone del mondo .due persone è capitato di trovare l'altro - e quando finisce in un matrimonio bello come questo.mi rivolgo in poltiglia .Catturato da Heather Pipino Fotografia questa storia d'amore ha un finale molto felice.Vedere ancora di più qui .
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Da Heather Pipino Fotografia. "Quattro anni fa non avrei maiè èe credevoè ñessere qui in piedi con una ragazza che camminava in un negozio di caffè che indossa un cappello Dodgers .ditutte le cose . abbiamo aspettato quasi due mesi prima che ci incontrassimo a vicenda . Dopo che tutti i testi .e-mail e telefonate abbiamo tenuto il nostro respiro e ha preso un salto .e abbiamo imparato nella vita.che tutto ciò che serve è venti secondi di coraggio folle afare qualcosa di grande accadere. "

Quelle parole erano solo una porzione di dolce voti Sam 'a Lindsey .ma danno una buona sbirciatina per i bellissimi cuori e amore stimolante che Sam e condividere Lindsey .Sono entrambi persone così gentili e genuini e la loro vita e l'amore riflettere sul fatto che in ogni modo.E 'doesnè èimporta quanto tempo siè èe li noti .Sam e abiti da sposa corti Lindsey sono il tipo di persone che ti accolgono con un caloroso abbraccio e lascerà piena di gioia .Essi vi invitano nel loro mondo e ti fanno abiti da sposa on line sentire come seè èe stati amici per anni .E ' questo amore che essi hanno per l'altro e per le persone intorno a loro che hanno fatto il loro giorno di nozze così incredibile .In una bella giornata in California.presso la Estancia Resort a La Jolla .amici e parenti si sono riuniti per sostenere e amare questa coppia che aveva toccato ciascuna delle loro vite .E 'stata una giornata piena di lacrime di gioia .il romanticismo .l'amore e la bellezza .e Sam e Lindsey meritato ogni singolo istante.

Da Bride.How ci siamo incontrati : Le nostre mamme lavorano insieme in una scuola nella Bay Area .Una volta che la sua mamma ha imparato che vivevo a San Diego .ha pensato che sarebbe stata una buona idea per me di mostrare il suo figlio in giro come gli era stato appena assunto lì .Lei e mi aveva viaggiato a Parigi circa sette anni fa con mia mamma e un altro insegnante .Mi ricordo che lei mi dice allora che avevo bisogno di incontrare suo figlio ma eravamo entrambi risalenti altre persone al momento .Ero titubante a incontrarlo fino a quando ** fatto un po ' di Facebook stalking.voglio dire .la ricerca .Mi fu colpito in primo click.The prima richiesta di amicizia è stata inviata e tanti.tanti .( molti) messaggi e fino a tarda notte dopo.i messaggi si rivolse a testi e testi voltai per le telefonate .Questo è durato per un certo periodo come i sentimenti si erano formate veloce e siamo stati nervosi e ansiosi di incontrarsi other.Finally un incontro è stato fissato al Coffee Bean a Carlsbad .Eravamo lì per quattro ore e quasi chiudiamo il posto in fondo .Il giorno dopo.unè edata irstèè stata impostata e il resto è storia !

Il nostro matrimonio ha avuto luogo a La Jolla .in California presso l' Estancia Hotel.Abbiamo scelto questa posizione perché è rilassato eleganza .giardini mozzafiato .ed è vicino a dove viviamo .Perché ci siamo incontrati e viviamo qui a San Diego e volevamo festeggiare il nostro amore qui .La maggior parte dei nostri ospiti di nozze erano da fuori città .abbiamo voluto l' atmosfera di essere caldo.accogliente.e una volta tutti vorremmo amare .

I colori erano nero.bianco e verde e il tema era classica .semplice eleganza.Volevamo la sede per parlare di se stesso in modo non volevo fiori eccessivamente fatto .ma felci semplicemente dichiarati e fiori bianchi .Isari Floral Studio ha fatto un lavoro incredibile catturare la nostra visione .

Volevamo il matrimonio per avere tocchi di tutti noi in tutto.Abbiamo parcheggiato la nostra hot rod (1932 Ford Roadster ) nel modo di entrata dell'hotel.Mio padre aveva una splendida "Just Married " segno gessato per noi.così abbiamo potuto avere un scappare con stile !Il nostro cane (leggi : nostro figlio ) . Non poteva essere sulla proprietà .purtroppo .così abbiamo avuto una foto incorniciata di lui fatta con un cartello appeso al collo che diceva : " Sono contento che tu sia qui a festeggiare con i miei genitori prega di godere il cagnolinoborse da me . Woof .Lux " .Su quel tavolo .avevamo sacchetti di biscotti monogramma di Michele Coulon Dessertier .Per il nostro libro degli ospiti .abbiamo lavorato con un graphic designer per fare quello di un manifesto sorta di nostra sede .Ora abbiamo questa grande opera d'arte.con parole gentili di tutti appendere in casa nostra .Sulle pareti della Sala Grande .avevo il nostro invito fatto saltare in aria e sparsi sui muri nelle loro cornici .Tutti questi tocchi davvero reso il giorno così memorabile .

nostro incredibile team di venditori e la nostra famiglia e gli amici sono ciò che veramente ha reso questa giornata il giorno più speciale della nostra vita finora.Siamo così fortunati ad aver avuto un bel matrimonio tale .Sono entusiasta di essere sposata con Sam per il resto della nostra vita !Fotografia

: Heather Pepin Fotografia | dell'artista: Aqua Vivus Productions | Event Design : Sherry Glommen | Pianificazione : Swann Soirees | Floral Design : Isari Flower Studio | Floral Design : Isari Flower Studio | Cake : la zia della sposa | Inviti : Smitten Onpaper | Cerimonia Luogo : Estancia La Jolla | Banco Luogo : Estancia La abiti da sposa on line Jolla | Bridesmaids Dresses : Nordstrom | capelli: Jessica / Michelle - Koda Salon | Calligraphy : Brown Fox Calligrafia | Abbigliamento da Groomsmen : Nero risvolto | officiante : Cerimonie Per Bethel | pipistrelli pergroomsmen : Louisville Slugger | vestito nuziale : Tara Keely | sposa / damigella d'onore Abiti : Abbastanza Plum zucchero | Cookies : Michele Coulon Dessertier | Guest Book Graphic Designer : Designs J Gal | Musica live / DJ : Collin Elliot -Ancora Ascolto Productions | Trucco : FioreBeauty | Photobooth : Photobooth mobileHayley Paige e Jim Hjelm occasioni sono membri della nostra Look Book .Per ulteriori informazioni su come vengono scelti i membri .fare clic qui .Fiore Bellezza .Isari Fiore Studio + Design Event .Plum Piuttosto Zucchero.JLM Couture .Inc. e Mobile Photo Booth sono membri del nostro Little Black Book .Scopri come i membri sono scelti visitando la nostra pagina delle FAQ .Fiore di bellezza VIEW PORTFOLIO Isari Fiore Studio vedi portfolio Plum graziosa Zucchero vedi portfolio JLM Couture Wedding Gown Bouti ... vedi portfolio Mobile Photo Booth VIEW
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http://www.belloabito.com/goods.php?id=230
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Elegante Wedding at Estancia La Jolla_abiti da sposa 2014
Siendo mozo Alvargonzález,
dueño de mediana hacienda,
que en otras tierras se dice
bienestar y aquí, opulencia,
en la feria de Berlanga
prendóse de una doncella,
y la tomó por mujer
al año de conocerla.Muy ricas las bodas fueron
y quien las vio las recuerda;
sonadas las tornabodas
que hizo Alvar en su aldea;
hubo gaitas, tamboriles,
flauta, bandurria y vihuela,
fuegos a la valenciana
y danza a la aragonesa.   Feliz vivió Alvargonzález
en el amor de su tierra.
Naciéronle tres varones,
que en el campo son riqueza,
y, ya crecidos, los puso,
uno a cultivar la huerta,
otro a cuidar los merinos,
y dio el menor a la Iglesia.   Mucha sangre de Caín
tiene la gente labriega,
y en el hogar campesino
armó la envidia pelea.   Casáronse los mayores;
tuvo Alvargonzález nueras,
que le trajeron cizaña,
antes que nietos le dieran.   La codicia de los campos
ve tras la muerte la herencia;
no goza de lo que tiene
por ansia de lo que espera.   El menor, que a los latines
prefería las doncellas
hermosas y no gustaba
de vestir por la cabeza,
colgó la sotana un día
y partió a lejanas tierras.La madre lloró, y el padre
diole bendición y herencia.   Alvargonzález ya tiene
la adusta frente arrugada,
por la barba le platea
la sombra azul de la cara.   Una mañana de otoño
salió solo de su casa;
no llevaba sus lebreles,
agudos canes de caza;

  iba triste y pensativo
por la alameda dorada;
anduvo largo camino
y llegó a una fuente clara.   Echóse en la tierra; puso
sobre una piedra la manta,
y a la vera de la fuente
durmió al arrullo del agua.   Y Alvargonzález veía,
como Jacob, una escala
que iba de la tierra al cielo,
y oyó una voz que le hablaba.Mas las hadas hilanderas,
entre las vedijas blancas
y vellones de oro, han puesto
un mechón de negra lana.Tres niños están jugando
a la puerta de su casa;
entre los mayores brinca
un cuervo de negras alas.La mujer vigila, cose
y, a ratos, sonríe y canta.-Hijos, ¿qué hacéis? -les pregunta.Ellos se miran y callan.-Subid al monte, hijos míos,
y antes que la noche caiga,
con un brazado de estepas
hacedme una buena llama.   Sobre el lar de Alvargonzález
está la leña apilada;
el mayor quiere encenderla,
pero no brota la llama.-Padre, la hoguera no prende,
está la estepa mojada.   Su hermano viene a ayudarle
y arroja astillas y ramas
sobre los troncos de roble;
pero el rescoldo se apaga.Acude el menor, y enciende,
bajo la negra campana
de la cocina, una hoguera
que alumbra toda la casa.   Alvargonzález levanta
en brazos al más pequeño
y en sus rodillas lo sienta;-Tus manos hacen el fuego;
aunque el último naciste
tú eres en mi amor primero.   Los dos mayores se alejan
por los rincones del sueño.
Entre los dos fugitivos
reluce un hacha de hierro.   Sobre los campos desnudos,
la luna llena manchada
de un arrebol purpurino,
enorme globo, asomaba.Los hijos de Alvargonzález
silenciosos caminaban,
y han visto al padre dormido
junto de la fuente clara.   Tiene el padre entre las cejas
un ceño que le aborrasca
el rostro, un tachón sombrío
como la huella de un hacha.Soñando está con sus hijos,
que sus hijos lo apuñalan;
y cuando despierta mira
que es cierto lo que soñaba.   A la vera de la fuente
quedó Alvargonzález muerto.Tiene cuatro puñaladas
entre el costado y el pecho,
por donde la sangre brota,
más un hachazo en el cuello.Cuenta la hazaña del campo
el agua clara corriendo,
mientras los dos asesinos
huyen hacia los hayedos.Hasta la Laguna Negra,
bajo las fuentes del Duero,
llevan el muerto, dejando
detrás un rastro sangriento,
y en la laguna sin fondo,
que guarda bien los secretos,
con una piedra amarrada
a los pies, tumba le dieron.   Se encontró junto a la fuente
la manta de Alvargonzález,
y, camino del hayedo,
se vio un reguero de sangre.Nadie de la aldea ha osado
a la laguna acercarse,
y el sondarla inútil fuera,
que es la laguna insondable.Un buhonero, que cruzaba
aquellas tierras errante,
fue en Dauria acusado, preso
y muerto en garrote infame.   Pasados algunos meses,
la madre murió de pena.Los que muerta la encontraron
dicen que las manos yertas
sobre su rostro tenía,
oculto el rostro con ellas.   Los hijos de Alvargonzález
ya tienen majada y huerta,
campos de trigo y centeno
y prados de fina hierba;
en el olmo viejo, hendido
por el rayo, la colmena,
dos yuntas para el arado,
un mastín y mil ovejas.
    Ya están las zarzas floridas
y los ciruelos blanquean;
ya las abejas doradas
liban para sus colmenas,
y en los nidos, que coronan
las torres de las iglesias,
asoman los garabatos
ganchudos de las cigüeñas.Ya los olmos del camino
y chopos de las riberas
de los arroyos, que buscan
al padre Duero, verdean.El cielo está azul, los montes
sin nieve son de violeta.La tierra de Alvargonzález
se colmará de riqueza;
muerto está quien la ha labrado,
mas no le cubre la tierra.   La hermosa tierra de España
adusta, fina y guerrera
Castilla, de largos ríos,
tiene un puñado de sierras
entre Soria y Burgos como
reductos de fortaleza,
como yelmos crestonados,
y Urbión es una cimera.   Los hijos de Alvargonzález,
por una empinada senda,
para tomar el camino
de Salduero a Covaleda,
cabalgan en pardas mulas,
bajo el pinar de Vinuesa.Van en busca de ganado
con que volver a su aldea,
y por tierra de pinares
larga jornada comienzan.Van Duero arriba, dejando
atrás los arcos de piedra
del puente y el caserío
de la ociosa y opulenta
villa de indianos. El río
al fondo del valle, suena,
y de las cabalgaduras
los cascos baten las piedras.A la otra orilla del Duero
canta una voz lastimera:«La tierra de Alvargonzález
se colmará de riqueza,
y el que la tierra ha labrado
no duerme bajo la tierra.»   Llegados son a un paraje
en donde el pinar se espesa,
y el mayor, que abre la marcha,
su parda mula espolea,
diciendo: -Démonos prisa;
porque son más de dos leguas
de pinar y hay que apurarlas
antes que la noche venga.Dos hijos del campo, hechos
a quebradas y asperezas,
porque recuerdan un día
la tarde en el monte tiemblan.Allá en lo espeso del bosque
otra vez la copla suena:«La tierra de Alvargonzález
se colmará de riqueza,
y el que la tierra ha labrado
no duerme bajo la tierra».   Desde Salduero el camino
va al hilo de la ribera;
a ambas márgenes del río
el pinar crece y se eleva,
y las rocas se aborrascan,
al par que el valle se estrecha.Los fuertes pinos del bosque
con sus copas gigantescas
y sus desnudas raíces
amarradas a las piedras;
los de troncos plateados
cuyas frondas azulean,
pinos jóvenes; los viejos,
cubiertos de blanca lepra,
musgos y líquenes canos
que el grueso tronco rodean,
colman el valle y se pierden
rebasando ambas laderasJuan, el mayor, dice: -Hermano,
si Blas Antonio apacienta
cerca de Urbión su vacada,
largo camino nos queda.-Cuando hacia Urbión alarguemos
se puede acortar de vuelta,
tomando por el atajo,
hacia la Laguna Negra
y bajando por el puerto
de Santa Inés a Vinuesa.-Mala tierra y peor camino.
Te juro que no quisiera
verlos otra vez. Cerremos
los tratos en Covaleda;
hagamos noche y, al alba,
volvámonos a la aldea
por este valle, que, a veces,
quien piensa atajar rodea.Cerca del río cabalgan
los hermanos, y contemplan
cómo el bosque centenario,
al par que avanzan, aumenta,
y la roqueda del monte
el horizonte les cierra.El agua, que va saltando,
parece que canta o cuenta:«La tierra de Alvargonzález
se colmará de riqueza,
y el que la tierra ha labrado
no duerme bajo la tierra».
    Aunque la codicia tiene
redil que encierre la oveja,
trojes que guarden el trigo,
bolsas para la moneda,
y garras, no tiene manos
que sepan labrar la tierra.Así, a un año de abundancia
siguió un año de pobreza.   En los sembrados crecieron
las amapolas sangrientas;
pudrió el tizón las espigas
de trigales y de avenas;
hielos tardíos mataron
en flor la fruta en la huerta,
y una mala hechicería
hizo enfermar las ovejas.A los dos Alvargonzález
maldijo Dios en sus tierras,
y al año pobre siguieron
largos años de miseria.   Es una noche de invierno.
Cae la nieve en remolinos.
Los Alvargonzález velan
un fuego casi extinguido.El pensamiento amarrado
tienen a un recuerdo mismo,
y en las ascuas mortecinas
del hogar los ojos fijos.No tienen leña ni sueño.Larga es la noche y el frío
arrecia. Un candil humea
en el muro ennegrecido.El aire agita la llama,
que pone un  fulgor rojizo
sobre las dos pensativas 
testas de los asesinos.El mayor de Alvargonzález,
lanzando un ronco suspiro,
rompe el silencio, exclamando:-Hermano, ¡qué mal hicimos!El viento la puerta bate
hace temblar el postigo,
y suena en la chimenea
con hueco y largo bramido.Después, el silencio vuelve,
y a intervalos el pabilo
del candil chisporrotea
en el aire aterecido.El segundo dijo: -Hermano,
¡demos lo viejo al olvido!

  Es una noche de invierno.
Azota el viento las ramas
de los álamos. La nieve
ha puesto la tierra blanca.Bajo la nevada, un hombre
por el camino cabalga;
va cubierto hasta los ojos,
embozado en negra capa.Entrado en la aldea, busca
de Alvargonzález la casa,
y ante su puerta llegado,
sin echar pie a tierra, llama.   Los dos hermanos oyeron
una aldabada a la puerta,
y de una cabalgadura
los cascos sobre las piedras.Ambos los ojos alzaron
llenos de espanto y sorpresa.-¿Quién es?  Responda -gritaron.-Miguel -respondieron fuera.Era la voz del viajero
que partió a lejanas tierras.   Abierto el portón, entróse
a caballo el caballero
y echó pie a tierra. Venía
todo de nieve cubierto.En brazos de sus hermanos
lloró algún rato en silencio.Después dio el caballo al uno,
al otro, capa y sombrero,
y en la estancia campesina
buscó el arrimo del fuego.   El menor de los hermanos,
que niño y aventurero
fue más allá de los mares
y hoy torna indiano opulento,
vestía con ***** traje
de peludo terciopelo,
ajustado a la cintura
por ancho cinto de cuero.Gruesa cadena formaba
un bucle de oro en su pecho.Era un hombre alto y robusto,
con ojos grandes y negros
llenos de melancolía;
la tez de color moreno,
y sobre la frente comba
enmarañados cabellos;
el hijo que saca porte
señor de padre labriego,
a quien fortuna le debe
amor, poder y dinero.
De los tres Alvargonzález
era Miguel el más bello;
porque al mayor afeaba
el muy poblado entrecejo
bajo la frente mezquina,
y al segundo, los inquietos
ojos que mirar no saben
de frente, torvos y fieros.   Los tres hermanos contemplan
el triste hogar en silencio;
y con la noche cerrada
arrecia el frío y el viento.-Hermanos, ¿no tenéis leña?-dice Miguel.             -No tenemos
-responde el mayor.               Un hombre,
milagrosamente, ha abierto
la gruesa puerta cerrada
con doble barra de hierro.

El hombre que ha entrado tiene
el rostro del padre muerto.Un halo de luz dorada
orla sus blancos cabellos.
Lleva un haz de leña al hombro
y empuña un hacha de hierro.   De aquellos campos malditos,
Miguel a sus dos hermanos
compró una parte, que mucho
caudal de América trajo,
y aun en tierra mala, el oro
luce mejor que enterrado,
y más en mano de pobres
que oculto en orza de barro.   Diose a trabajar la tierra
con fe y tesón el indiano,
y a laborar los mayores
sus pegujales tornaron.   Ya con macizas espigas,
preñadas de rubios granos,
a los campos de Miguel
tornó el fecundo verano;
y ya de aldea en aldea
se cuenta como un milagro,
que los asesinos tienen
la maldición en sus campos.   Ya el pueblo canta una copla
que narra el crimen pasado:«A la orilla de la fuente
lo asesinaron.¡qué mala muerte le dieron
los hijos malos!En la laguna sin fondo
al padre muerto arrojaron.No duerme bajo la tierra
el que la tierra ha labrado».   Miguel, con sus dos lebreles
y armado de su escopeta,
hacia el azul de los montes,
en una tarde serena,
caminaba entre los verdes
chopos de la carretera,
y oyó una voz que cantaba:«No tiene tumba en la tierra.
Entre los pinos del valle
del Revinuesa,
al padre muerto llevaron
hasta la Laguna Negra».
    La casa de Alvargonzález
era una casona vieja,
con cuatro estrechas ventanas,
separada de la aldea
cien pasos y entre dos olmos
que, gigantes centinelas,
sombra le dan en verano,
y en el otoño hojas secas.   Es casa de labradores,
gente aunque rica plebeya,
donde el hogar humeante
con sus escaños de piedra
se ve sin entrar, si tiene
abierta al campo la puerta.   Al arrimo del rescoldo
del hogar borbollonean
dos pucherillos de barro,
que a dos familias sustentan.   A diestra mano, la cuadra
y el corral; a la siniestra,
huerto y abejar, y, al fondo,
una gastada escalera,
que va a las habitaciones
partidas en dos viviendas.   Los Alvargonzález moran
con sus mujeres en ellas.
A ambas parejas que hubieron,
sin que lograrse pudieran,
dos hijos, sobrado espacio
les da la casa paterna.   En una estancia que tiene
luz al huerto, hay una mesa
con gruesa tabla de roble,
dos sillones de vaqueta,
colgado en el muro, un *****
ábaco de enormes cuentas,
y unas espuelas mohosas
sobre un arcón de madera.   Era una estancia olvidada
donde hoy Miguel se aposenta.
Y era allí donde los padres
veían en primavera
el huerto en flor, y en el cielo
de mayo, azul, la cigüeña
-cuando las rosas se abren
y los zarzales blanquean-
que enseñaba a sus hijuelos
a usar de las alas lentas.   Y en las noches del verano,
cuando la calor desvela,
desde la ventana al dulce
ruiseñor cantar oyeran.   Fue allí donde Alvargonzález,
del orgullo de su huerta
y del amor a los suyos,
sacó sueños de grandeza.   Cuando en brazos de la madre
vio la figura risueña
del primer hijo, bruñida
de rubio sol la cabeza,
del niño que levantaba
las codiciosas, pequeñas
manos a las rojas guindas
y a las moradas ciruelas,
o aquella tarde de otoño,
dorada, plácida y buena,
él pensó que ser podría
feliz el hombre en la tierra.   Hoy canta el pueblo una copla
que va de aldea en aldea:«¡Oh casa de Alvargonzález,
qué malos días te esperan;
casa de los asesinos,
que nadie llame a tu puerta!»   Es una tarde de otoño.
En la alameda dorada
no quedan ya ruiseñores;
enmudeció la cigarra.   Las últimas golondrinas,
que no emprendieron la marcha,
morirán, y las cigüeñas
de sus nidos de retamas,
en torres y campanarios,
huyeron.           Sobre la casa
de Alvargonzález, los olmos
sus hojas que el viento arranca
van dejando. Todavía
las tres redondas acacias,
en el atrio de la iglesia,
conservan verdes sus ramas,
y las castañas de Indias
a intervalos se desgajan
cubiertas de sus erizos;
tiene el rosal rosas grana
otra vez, y en las praderas
brilla la alegre otoñada.   En laderas y en alcores,
en ribazos y en cañadas,
el verde nuevo y la hierba,
aún del estío quemada,
alternan; los serrijones
pelados, las lomas calvas,
se coronan de plomizas
nubes apelotonadas;
y bajo el pinar gigante,
entre las marchitas zarzas
y amarillentos helechos,
corren las crecidas aguas
a engrosar el padre río
por canchales y barrancas.   Abunda en la tierra un gris
de plomo y azul de plata,
con manchas de roja herrumbre,
todo envuelto en luz violada.   ¡Oh tierras de Alvargonzález,
en el corazón de España,
tierras pobres, tierras tristes,
tan tristes que tienen alma!   Páramo que cruza el lobo
aullando a la luna clara
de bosque a bosque, baldíos
llenos de peñas rodadas,
donde roída de buitres
brilla una osamenta blanca;
pobres campos solitarios
sin caminos ni posadas,¡oh pobres campos malditos,
pobres campos de mi patria!
    Una mañana de otoño,
cuando la tierra se labra,
Juan y el indiano aparejan
las dos yuntas de la casa.
Martín se quedó en el huerto
arrancando hierbas malas.   Una mañana de otoño,
cuando los campos se aran,
sobre un otero, que tiene
el cielo de la mañana
por fondo, la parda yunta
de Juan lentamente avanza.   Cardos, lampazos y abrojos,
avena loca y cizaña,
llenan la tierra maldita,
tenaz a pico y a escarda.   Del corvo arado de roble
la hundida reja trabaja
con vano esfuerzo; parece,
que al par que hiende la entraña
del campo y hace camino
se cierra otra vez la zanja.   «Cuando el asesino labre
será su labor pesada;
antes que un surco en la tierra,
tendrá una arruga en su cara».   Martín, que estaba en la huerta
cavando, sobre su azada
quedó apoyado un momento;
frío sudor le bañaba
el rostro.           Por el Oriente,
la luna llena, manchada
de un arrebol purpurino,
lucía tras de la tapia
del huerto.           Martín tenía
la sangre de horror helada.
La azada que hundió en la tierra
teñida de sangre estaba.   En la tierra en que ha nacido
supo afincar el indiano;
por mujer a una doncella
rica y hermosa ha tomado.   La hacienda de Alvargonzález
ya es suya, que sus hermanos
todo le vendieron: casa,
huerto, colmenar y campo.   Juan y Martín, los mayores
de Alvargonzález, un
Circundada por selvas, bajo el cielo
Siempre azulado, nuestra casa era
Algo como el plumón y el terciopelo:
Un tibio corazón de primavera.

Se hablaba quedo en nuestra casa;
Cierto que cobijaba tantas aves,
Que nos salían las palabras suaves
Como si las dijéramos a un muerto.

Pero nada era triste: la dulzura
Poníamos tan dócil armonía
Que hasta el suspiro tenue presentía
En sus patios sombreados de verdura.

El mármol blanco de los corredores
Parecía dormir un sueño largo.
Las fuentes compartían su letargo.
Soñaban las estatuas con amores.

Cedían los sillones blandamente,
Como un pecho materno, y era fino,
Muy fino el aire, así como divino,
Cuando filtraba el oro del poniente.

¡Cómo me acuerdo de la noche aquella
En que entré sostenida por tu brazo!
Moría casi bajo el doble abrazo
De tu mirada y de la noche bella.

¡Moría casi! Me llevaste tierno
Por largas escaleras silenciosas
Y ni tuve conciencia de las cosas:
Era un cuerpo cansado y sin gobierno.

No sé cómo llegamos a una estancia.
La penumbra interior, los pasos quedos,
Tus besos que morían en mis dedos
Me tornaron el alma una fragancia.

Abriste una ventana: allá, lejano,
Plateaba el río y el silencio era
Dulce y enorme, y era primavera,
Y se movía el río sobre el llano.

Caminaba hacia el mar con tal dulzura
Que parecía una palabra buena.
Iba a darse sin fin; la quieta arena
Mirábalo pasar con amargura.

Y mi alma también rodó en el río,
Se hundió con él en perfumadas frondas,
Siguiéndolo hasta el mar cayó en sus ondas,
Y suyo fue el divino poderío.

Se curvó blanda en el enorme vaso,
De allí se desprendió como un suspiro,
Ascendió por los buques y el retiro
De otras mujeres sorprendió de paso.

Subió hasta las ciudades de otro mundo;
Dormían todos, todo estaba blanco,
Luego vio cada mundo como un banco
De arena muerta en el azul profundo.

Y desde aquel azul que todo abisma
Miró en la tierra esta ventana abierta:
¿Quién era esa criatura medio muerta?
Y se bajó a mirar. ¡Y era yo misma!

Cuando volvió del viaje, envejecida
De tanto haber vagado unos instantes
La esperaban tus ojos suplicantes:
Se hundió por ellos y encontró la vida.

¿Recuerdas tú? La casa era un arrullo,
Un perfume infinito, un nido blando:
Nunca se dijo la palabra cuándo.
Se decía, muy quedo: mío y tuyo.
Heme aquí ya, profesor
de lenguas vivas (ayer
maestro de gay-saber,
aprendiz de ruiseñor),
en un pueblo húmedo y frío,
destartalado y sombrío,
entre andaluz y manchego.Invierno. Cerca del fuego.
Fuera llueve un agua fina,
que ora se trueca en neblina,
ora se torna aguanieve.Fantástico labrador,
pienso en los campos.¡Señor
qué bien haces!  Llueve, llueve
tu agua constante y menuda
sobre alcaceles y habares,
tu agua muda,
en viñedos y olivares.Te bendecirán conmigo
los sembradores del trigo;
los que viven de coger
la aceituna;
los que esperan la fortuna
de comer;
los que hogaño,
como antaño,
tienen toda su moneda
en la rueda,
traidora rueda del año.¡Llueve, llueve; tu neblina
que se torne en aguanieve,
y otra vez en agua fina!¡Llueve, Señor, llueve, llueve!   En mi estancia, iluminada
por esta luz invernal
-la tarde gris tamizada
por la lluvia y el cristal-,
sueño y medito.                 Clarea
el reloj arrinconado,
y su tic-tic, olvidado
por repetido, golpea.Tic-tic, tic-tic... Ya te he oído.
Tic-tic, tic-tic... Siempre igual,
monótono y aburrido.Tic-tic, tic-tic, el latido
de un corazón de metal.En estos pueblos, ¿se escucha
el latir del tiempo?  No.En estos pueblos se lucha
sin tregua con el reló,
con esa monotonía
que mide un tiempo vacío.Pero ¿tu hora es la mía?
¿Tu tiempo, reloj, el mío?(Tic-tic, tic-tic...) Era un día
(Tic-tic, tic-tic) que pasó,
y lo que yo más quería
la muerte se lo llevó.   Lejos suena un clamoreo
de campanas...Arrecia el repiqueteo
de la lluvia en las ventanas.Fantástico labrador,
vuelvo a mis campos. ¡Señor,
cuánto te bendecirán
los sembradores del pan!Señor, ¿no es tu lluvia ley,
en los campos que ara el buey,
y en los palacios del rey?¡Oh, agua buena, deja vida
en tu huida!¡Oh, tú, que vas gota a gota,
fuente a fuente y río a río,
como este tiempo de hastío
corriendo a la mar remota,
en cuanto quiere nacer,
cuanto espera
florecer
al sol de la primavera,
sé piadosa,
que mañana
serás espiga temprana,
prado verde, carne rosa,
y más: razón y locura
y amargura
de querer y no poder
creer, creer y creer!   Anochece;
el hilo de la bombilla
se enrojece,
luego brilla,
resplandece
poco más que una cerilla.Dios sabe dónde andarán
mis gafas... entre librotes
revistas y papelotes,
¿quién las encuentra?... Aquí están.Libros nuevos. Abro uno
de Unamuno.¡Oh, el dilecto,
predilecto
de esta España que se agita,
porque nace o resucita!Siempre te ha sido, ¡oh Rector
de Salamanca!, leal
este humilde profesor
de un instituto rural.Esa tu filosofía
que llamas diletantesca,
voltaria y funambulesca,
gran don Miguel, es la mía.Agua del buen manantial,
siempre viva,
fugitiva;
poesía, cosa cordial.¿Constructora?-No hay cimiento
ni en el alma ni en el viento-.Bogadora,
marinera,
hacia la mar sin ribera.Enrique Bergson: Los datos
inmediatos
de la conciencia. ¿Esto es
otro embeleco francés?Este Bergson es un tuno;
¿verdad, maestro Unamuno?Bergson no da como aquel
Immanuel
el volatín inmortal;
este endiablado judío
ha hallado el libre albedrío
dentro de su mechinal.No está mal;
cada sabio, su problema,
y cada loco, su tema.Algo importa 
que en la vida mala y corta
que llevamos
libres o siervos seamos:
mas, si vamos
a la mar,
lo mismo nos ha de dar.¡Oh, estos pueblos!  Reflexiones,
lecturas y acotaciones
pronto dan en lo que son:
bostezos de Salomón.¿Todo es
soledad de soledades.
vanidad de vanidades,
que dijo el Eciesiastés?Mi paraguas, mi sombrero,
mi gabán...El aguacero
amaina...Vámonos, pues.   Es de noche. Se platica
al fondo de una botica.-Yo no sé,
don José,
cómo son los liberales
tan perros, tan inmorales.-¡Oh, tranquilícese usté!
Pasados los carnavales,
vendrán los conservadores,
buenos administradores
de su casa.Todo llega y todo pasa.
Nada eterno:
ni gobierno
que perdure,
ni mal que cien años dure.-Tras estos tiempos vendrán
otros tiempos y otros y otros,
y lo mismo que nosotros
otros se jorobarán.Así es la vida, don Juan.-Es verdad, así es la vida.
-La cebada está crecida.
-Con estas lluvias...
                    Y van
las habas que es un primor.
-Cierto; para marzo, en flor.
Pero la escarcha, los hielos...
-Y, además, los olivares
están pidiendo a los cielos
aguas a torrentes.
                  -A mares.¡Las fatigas, los sudores
que pasan los labradores!En otro tiempo...
                  Llovía
también cuando Dios quería.-Hasta mañana, señores.
  Tic-tic, tic-tic... Ya pasó
un día como otro día,
dice la monotonía
del reloj.   Sobre mi mesa Los datos
de la conciencia, inmediatos.No está mal
este yo fundamental,
contingente y libre, a ratos,
creativo, original;
este yo que vive y siente
dentro la carne mortal
¡ay! por saltar impaciente
las bardas de su corral.
Almendra Isabel Jun 2014
Los sentimientos más tristes y pesados que he sentido los callé con un buen tango. Solía poner a Piazzolla y ahogar mi odio en sus melodías fuertes hasta quedarme sorda, y así mismo, ensordecer mi dolor.
Si pudiera recordar estos años en un futuro probablemente me lamentaría por siempre por haberlos desperdiciado envejeciendo la juventud con tantos malos sentimientos, pero si pudiera recordar los años pasados en este presente, añoraría lo que alguna vez fui.
Todo eso que fui se fue por fingir tanto.
Tantas tardes que fingí plenitud me llevaron al vacío.
Pesadas sombras que cargan mi pasado me comían minuto a minuto.
La casa, los calendarios viejos y los cuadros de acuarela se convirtieron en espacios sucios y cansados.
Las palabras, como sus recuerdos, huyeron de todo lugar en mi mente.
  Había gastado ya cada lugar en esta ciudad: todos ya estaban sucios por algún momento que amarraba un recuerdo para ahuyentar mi estancia ahí. Sentía que mi cerebro se lo tragaba el drama y que nublaba toda vista de cualquier realidad alterna a la mía.            ¿Cómo hacen todos para parecer tan lejanos a cualquier dolor ajeno? La respuesta hace varios meses la tenía en mi cabeza dando vueltas.
Me estaba pasando lo mismo.
De tanto dar,
perder,
esforzar
y desgastar por lo desconocido,
lo desconocido te hace ajeno a cualquier sentimiento.
La indiferencia es un premio que se gana por los años.



                Bien dirán que el tiempo cura,
       pero para mi que no es más que costumbre de pérdida
               y pérdida de cualquier dolor futuro.
brandon nagley Jul 2015
i

In the astrology set agora
Wherein mine agra doth rest
The backwoods to her cache
Is a peaceful gentle nest.

ii

She's a cad of angelic estancia
I espy her espirit fandango
Her lace strand's floweth wildly
Fantasia of mine melody, extra terrestrial fangled.

iii

Mine Gage I handeth her, to not leaveth her side
An agala we shalt maketh romance, whilst gaiety is in her eyes
A Jardiniere to hold her tears, when Jasper's do cometh around
Jarrah to fill ourn kava diligence, diluvial amare is it's sound.

iv

No blunder head's to separate us
Just Bluebell's blush
To admire mine belle of a lamb
Her bema shalt be raised, when its me who is her man.

v

Ourn belvedere casa, ourn terrace to overlook
This is ourn story, not a tale of fools and crook's
The cover of ourn book, shalt we be entwined
Right inside the pages, of every lonesome lover's mind.


®Brandon nagley
©Lonesome poets poetry
©Elsa angelica dedication
Estancia in Spanish means- a landed estate
Gaiety means- happiness
Japers- means mockers...
Bema means platform
Belle- is a young beauty or her admired beauty by all....
D Eric Pettigrew Mar 2016
Lying under a Patagonian sky
The silence is loud
A few gauchos happen by
A crowd
The wind sings
As the world passes by.

Distant fields of snow
Paint patterns on peaks
While clouds lay wispy blankets
On glaciers far below

Mother Nature speaks

A lingua franca
Time and space
The whispering of grass
In an empty place.

Estancia Nibepo Aike, January 2011
¿Sevilla?... ¿Granada?... La noche de luna.
Angosta la calle, revuelta y moruna,
de blancas paredes y obscuras ventanas.
Cerrados postigos, corridas persianas...
El cielo vestía su gasa de abril.Un vino risueño me dijo el camino.
Yo escucho los áureos consejos del vino,
que el vino es a veces escala de ensueño.
Abril y la noche y el vino risueño
cantaron en coro su salmo de amor.La calle copiaba, con sombra en el muro,
el paso fantasma y el sueño maduro
de apuesto embozado, galán caballero:
espada tendida, calado sombrero...
La luna vertía su blanco soñar.Como un laberinto mi sueño torcía
de calle en calleja. Mi sombra seguía
de aquel laberinto la sierpe encantada,
en pos de una oculta plazuela cerrada.
La luna lloraba su dulce blancor.La casa y la clara ventana florida,
de blancos jazmines y nardos prendida,
más blancos que el blanco soñar de la luna...
-Señora, la hora, tal vez importuna...
¿Que espere? (La dueña se lleva el candil).Ya sé que sería quimera, señora, mi sombra
galante buscando a la aurora
en noches de estrellas y luna, si fuera
mentira la blanca nocturna quimera
que usurpa a la luna su trono de luz.¡Oh dulce señora, más cándida y bella
que la solitaria matutina estrella
tan clara en el cielo! ¿Por qué silenciosa
oís mi nocturna querella amorosa?
¿Quién hizo, señora, cristal vuestra voz?...La blanca quimera parece que sueña.
Acecha en la obscura estancia la dueña.
-Señora, si acaso otra sombra, emboscada
teméis, en la sombra, fiad en mi espada...
Mi espada se ha visto a la luna brillar.¿Acaso os parece mi gesto anacrónico?
El vuestro es, señora, sobrado lacónico.
¿Acaso os asombra mi sombra embozada,
de espada tendida y toca plumada?...
¿Seréis la cautiva del moro Gazul?Dijéraislo, y pronto mi amor os diría
el son de mi guzla y la algarabía
más dulce que oyera ventana moruna.
Mi guzla os dijera la noche de luna,
la noche de cándida luna de abril.Dijera la clara cantiga de plata
del patio moruno, y la serenata
que lleva el aroma de floridas preces
a los miradores y a los ajimeces,
los salmos de un blanco fantasma lunar.Dijera las danzas de trenzas lascivas,
las muelles cadencias de ensueños, las vivas
centellas de lánguidos rostros velados,
los tibios perfumes, los huertos cerrados;
dijera el aroma letal del harén.Yo guardo, señora, en viejo salterio
también una copla de blanco misterio,
la copla más suave, más dulce y más sabia
que evoca las claras estrellas de Arabia
y aromas de un moro jardín andaluz.Silencio... En la noche la paz de la luna
alumbra la blanca ventana moruna.
Silencio... Es el musgo que brota, y la hiedra
que lenta desgarra la tapia de piedra...
El llanto que vierte la luna de abril.-Si sois una sombra de la primavera
blanca entre jazmines, o antigua quimera
soñada en las trovas de dulces cantores,
yo soy una sombra de viejos cantares,
y el signo de un álgebra vieja de amores.Los gayos, lascivos decires mejores,
los árabes albos nocturnos soñares,
las coplas mundanas, los salmos talares,
poned en mis labios;
yo soy una sombra también del amor.Ya muerta la luna, mi sueño volvía
por la retorcida, moruna calleja.
El sol en Oriente reía
su risa más vieja.
Amigo, llévate lo que tú quieras,
penetra tu mirada en los rincones,
y si así lo deseas yo te doy mi alma entera
con sus blancas avenidas y sus canciones.Amigo -con la tarde haz que se vaya
este inútil y viejo deseo de vencer,

Bebe en mi cántaro si tienes sed.

Amigo -con la tarde haz que se vaya
este deseo mío de que todo rosal
me pertenezca,
                          Amigo,
si tienes hambre come de mi pan.Todo, amigo, lo he hecho para ti. Todo esto
que sin mirar verás en mi estancia desnuda:
todo esto que se eleva por los muros derechos
-como mi corazón- siempre buscando altura.

Te sonríes -amigo... ¡Qué importa! Nadie sabe
entregar en las manos lo que se esconde adentro,
pero yo te doy mi alma, ánfora de mieles suaves,
y todo te lo doy... Menos aquel recuerdo...

...Que en mi heredad vacía aquel amor perdido,
es una rosa blanca, que se abre en silencio...
Noche. Este viento vagabundo lleva
las alas entumidas
y heladas. El gran Andes
yergue al inmenso azul su blanca cima.
La nieve cae en copos,
sus rosas transparentes cristaliza;
en la ciudad, los delicados hombros
y gargantas se abrigan;
ruedan y van los coches,
suenan alegres pianos, el gas brilla;
y si no hay un fogón que le caliente,
el que es pobre tirita.
Yo estoy con mis radiantes ilusiones
y mis nostalgias íntimas,
junto a la chimenea
bien harta de tizones que crepitan.
Y me pongo a pensar: ¡Oh! ¡Si estuviese
ella, la de mis ansias infinitas,
la de mis sueños locos
y mis azules noches pensativas!
¿Cómo? Mirad:
                                  De la apacible estancia
en la extensión tranquila
vertería la lámpara reflejos
de luces opalinas.
Dentro, el amor que abrasa;
fuera, la noche fría;
el golpe de la lluvia en los cristales,
y el vendedor que grita
su monótona y triste melopea
a las glaciales brisas.
Dentro, la ronda de mis mil delirios,
las canciones de notas cristalinas,
unas manos que toquen mis cabellos,
un aliento que roce mis mejillas,
un perfume de amor, mil conmociones,
mil ardientes caricias;
ella y yo: los dos juntos, los dos solos;
la amada y el amado, ¡oh Poesía!
los besos de sus labios,
la música triunfante de mis rimas,
y en la negra y cercana chimenea
el tuero brillador que estalla en chispas.
¡Oh! ¡Bien haya el brasero
lleno de pedrería!
Topacios y carbunclos ,
rubíes y amatistas
en la ancha copa etrusca
repleta de ceniza.
Los lechos abrigados,
las almohadas mullidas,
las pieles de Astrakán, los besos cálidos
que dan las bocas húmedas y tibias.
¡Oh, viejo Invierno, salve!
puesto que traes con las nieves frígidas
el amor embriagante
y el vino del placer en tu mochila.
Sí, estaría a mi lado,
dándome sus sonrisas,
ella, la que hace falta a mis estrofas,
esa que mi cerebro se imagina;
la que, si estoy en sueños,
se acerca y me visita;
ella que, hermosa, tiene
una carne ideal, grandes pupilas,
algo del mármol, blanca luz de estrella;
nerviosa, sensitiva,
muestra el cuello gentil y delicado
de las Hebes antiguas;
bellos gestos de diosa,
tersos brazos de ninfa,
lustrosa cabellera
en la nuca encrespada y recogida
y ojeras que denuncian
ansias profundas y pasiones vivas.
¡Ah, por verla encarnada,
por gozar sus caricias,
por sentir en mis labios
los besos de su amor, diera la vida!
Entre tanto hace frío.
Yo contemplo las llamas que se agitan,
cantando alegres con sus lenguas de oro,
móviles, caprichosas e intranquilas,
en la negra y cercana chimenea
do el tuero brillador estalla en chispas.
Luego pienso en el coro
de las alegres liras.
En la copa labrada, el vino *****,
la copa hirviente en cuyos bordes brillan
con iris temblorosos y cambiantes
como un collar de prismas;
el vino ***** que la sangre enciende,
y pone el corazón con alegría,
y hace escribir a los poetas locos
sonetos áureos y flamantes silvas.
El Invierno es beodo.
Cuando soplan sus brisas,
brotan las viejas cubas
la sangre de las viñas.
Sí, yo pintara su cabeza cana
con corona de pámpanos guarnida.
El Invierno es galeoto,
porque en las noches frías
Paolo besa a Francesca
en la boca encendida,
mientras su sangre como fuego corre
y el corazón ardiendo le palpita.
-¡Oh crudo Invierno, salve!
puesto que traes con las nieves frígidas
el amor embriagante
y el vino del placer en tu mochila.
Ardor adolescente,
miradas y caricias;
cómo estaría trémula en mis brazos
la dulce amada mía,
dándome con sus ojos luz sagrada,
con su aroma de flor, savia divina.
En la alcoba la lámpara
derramando sus luces opalinas;
oyéndose tan sólo
suspiros, ecos, risas;
el ruido de los besos;
la música  triunfante de mis rimas,
y en la negra y cercana chimenea
el tuero brillador que estalla en chispas.
Dentro, el amor que abrasa;
fuera, la noche fría.
Paul d'Aubin Dec 2016


d' Enrique Díez-Canedo

"El desterrado"

Todo lo llevas contigo,
tú, que nada tienes.
Lo que no te han de quitar
los reveses
porque es tuyo y sólo tuyo,
porque es íntimo y perenne,
y es raíz, es tallo, es hoja,
flor y fruto, aroma y jugo,
todo a la vez, para siempre.
No es recuerdo que subsiste
ni anhelo que permanece;
no es imagen que perdura,
ni ficción, ni sombra. En este
sentir tuyo y sólo tuyo,
nada se pierde:
lo pasado y lo abolido,
se halla, vivo y presente,
se hace materia en tu cuerpo,
carne en tu carne se vuelve,
carne de la carne tuya,
ser del ser que eres,
uno y todos entre tantos
que fueron, y son, y vienen,
hecho de patria y de ausencia,
tiempo eterno y hora breve,
de nativa desnudez
y adquiridos bienes.
De aquellos imperturbables
amaneceres
en que la luz de tu estancia
se adueñaba tenue
pintando vidrios y cuadros,
libros y muebles;
de aquellos días de afanes
o placeres,
de vacilación o estudio,
de tenso querer, de inerte
voluntad; de cuantos hilos
tu vida tejen,
no hay una urdimbre quebrada
ni un matiz más débil. ..
Nadie podrá desterrarte
de estos continentes
que son carne y tierra tuya:
don sin trueque,
conquista sin despojo,
prenda de vida sin muerte.
Nadie podrá desterrarte;
tierra fuiste, tierra fértil,
y serás tierra, y más tierra
cuando te entierren.
No desterrado, enterrado
serás tierra, polvo y germen.

El desterrado. 1940

                                                           ­              *
Traduction de "L'exilé"

Tu portes tout avec toi,
Toi que n’as plus rien.
Qui n'existe que pour ce que tu laisses derrière toi.
Les revers, parce ils sont tiens et seulement tiens,
Parce que cette défaite est intime et définitive,
qu'elle est à la fois ta racine, ta tige, et aussi ta feuille,
mais aussi cette fleur et ce fruit, son parfum et son suc.
Tout à la fois et pour toujours.
Il n'y a pas de souvenir qui subsiste
ni de désir ardent qui reste.
Il n’y a pas d'image qui dure
ni même de fiction, ni d'ombre. Dans cette manière de ressentir,
Il n'y a que toi et seulement toi
rien ne se perds :
le passé est aboli.
Lui et elle se retrouvent vivants et présents,
la matière prend forme dans ton corps
une chair dans ta chair se retrouve
chair de ta propre chair,
être de l'être dont tu es.
Un et multiple entre tant
Qui furent, sont et furent
façonnés par leur patrie et aussi par son absence
de temps éternel et d’heure brève,
de nudité native
et de biens amassés
par ces aubes imperturbables,
dans lesquelles
la lumière de ton séjour
s'emparait de manière ténue
en peignant des verres, des tableaux,
des livres et des meubles ;
Lors de ces jours de labeurs
ou de plaisirs,
de vacillements ou d’études,
De tension propulsive, ou de volonté inerte.
Par combien de fils, de ta vie sont tissés.
Il n'y a pas de chaîne rompue
ni de nuances infimes ...
Personne ne pourra t'exiler de ces continents
Qui sont ta chair et ta Terre :
Toi l'Homme sans compromission
Sans conquête ni dépouille
Part de la vie sans mort.
D’une terre où tu es née, de cette Terre fertile.
Et tu trouveras prive de Terre
Quand ils t'enterreront,
Comme une poussière de grains et en germe.

"L’exilé."
1940
Pardonnez- moi cher(e)s Lectrices et Lecteurs, pour mon audace insensée et ma traduction maladroite et précaire du non Hispanophone que je suis. Mais je n'ai pu résister ayant été très ému presque bouleversé par ce texte écrit en 1940, soit en plein Exil Espagnol et au cœur de l'exil de la raison et de la bonté dans le ** me siècle qui pourrait encore avoir tant à nous signifier sur tant d'actuels exilés dont notre Planète regorge; notre Terre d'avidité et d'égoïsme aux naissances si peu contrôlées et aux ressources si mal réparties d' êtres humains, trop souvent en désespérance, d'une simple libre expression, de conditions de vie décentes et meilleures, trop souvent aussi hélas d'illusions d'un  mieux fallacieux en Europe et toujours d'une main tendue qui leur est trop souvent refusée. )
-Gerineldo, Gerineldo,   paje del rey más querido,
quién te tuviera esta noche   en mi jardín florecido.
Válgame Dios, Gerineldo,   cuerpo que tienes tan lindo.
-Como soy vuestro criado,   señora, burláis conmigo.
-No me burlo, Gerineldo,   que de veras te lo digo.
-¿Y cuándo, señora mía,   cumpliréis lo prometido?
-Entre las doce y la una   que el rey estará dormido.
Media noche ya es pasada.   Gerineldo no ha venido.
«¡Oh, malhaya, Gerineldo,   quien amor puso contigo!»
-Abráisme, la mi señora,   abráisme, cuerpo garrido.
-¿Quién a mi estancia se atreve,   quién llama así a mi postigo?
-No os turbéis, señora mía,   que soy vuestro dulce amigo.
Tomáralo por la mano   y en el lecho lo ha metido;
entre juegos y deleites   la noche se les ha ido,
y allá hacia el amanecer   los dos se duermen vencidos.
Despertado había el rey   de un sueño despavorido.
«O me roban a la infanta   o traicionan el castillo.»
Aprisa llama a su paje   pidiéndole los vestidos:
«¡Gerineldo, Gerineldo,   el mi paje más querido!»
Tres veces le había llamado,   ninguna le ha respondido.
Puso la espada en la cinta,   adonde la infanta ha ido;
vio a su hija, vio a su paje   como mujer y marido.
«¿Mataré yo a Gerineldo,   a quien crié desde niño?
Pues si matare a la infanta,   mi reino queda perdido.
Pondré mi espada por medio,   que me sirva de testigo.»
Y salióse hacia el jardín   sin ser de nadie sentido.
Rebullíase la infanta   tres horas ya el sol salido;
con el frior de la espada   la dama se ha estremecido.
-Levántate, Gerineldo,   levántate, dueño mío,
la espada del rey mi padre   entre los dos ha dormido.
-¿Y adónde iré, mi señora,   que del rey no sea visto?
-Vete por ese jardín   cogiendo rosas y lirios;
pesares que te vinieren   yo los partiré contigo.
-¿Dónde vienes, Gerineldo,   tan mustio y descolorido?
-Vengo del jardín, buen rey,   por ver cómo ha florecido;
la fragancia de una rosa   la color me ha devaído.
-De esa rosa que has cortado   mi espada será testigo.
-Matadme, señor, matadme,   bien lo tengo merecido.
Ellos en estas razones,   la infanta a su padre vino:
-Rey y señor, no le mates,   mas dámelo por marido.
O si lo quieres matar   la muerte será conmigo.
Yo no sufro este dolor como César Vallejo. Yo no me duelo ahora como artista, como hombre ni como simple ser vivo siquiera. Yo no sufro este dolor como católico, como mahometano ni como ateo. Hoy sufro solamente. Si no me llamase César Vallejo, también sufriría este mismo dolor. Si no fuese artista, también lo sufriría. Si no fuese hombre ni ser vivo siquiera, también lo sufriría. Si no fuese católico, ateo ni mahometano, también lo sufriría. Hoy sufro desde más abajo. Hoy sufro solamente.
Me duelo ahora sin explicaciones. Mi dolor es tan hondo, que no tuvo ya causa ni carece de causa. ¿Qué sería su causa? ¿Dónde está aquello tan importante, que dejase de ser su causa? Nada es su causa; nada ha podido dejar de ser su causa. ¿A qué ha nacido este dolor, por sí mismo? Mi dolor es del viento del norte y del viento del sur, como esos huevos neutros que algunas aves raras ponen del viento. Si hubiera muerto mi novia, mi dolor sería igual. Si la vida fuese, en fin, de otro modo, mi dolor sería igual. Hoy sufro desde más arriba. Hoy sufro solamente.
Miro el dolor del hambriento y veo que su hambre anda tan lejos de mi sufrimiento, que de quedarme ayuno hasta morir, saldría siempre de mi tumba una brizna de yerba al menos. Lo mismo el enamorado. ¡Qué sangre la suya más engendrada, para la mía sin fuente ni consumo!
Yo creía hasta ahora que todas las cosas del universo eran, inevitablemente, padres o hijos. Pero he aquí que mi dolor de hoy no es padre ni es hijo. Le falta espalda para anochecer, tanto como le sobra pecho para amanecer y si lo pusiesen en la estancia oscura, no daría luz y si lo pusiesen en una estancia luminosa, no echaría sombra. Hoy sufro suceda lo que suceda. Hoy sufro solamente.
Almendra Isabel Jun 2014
Y con escribirte no me refiero a dedicarte palabras,
  sino a describirte en ellas.
Me voy a detener un momento para comenzar un intento que está predestinado a ser uno de mis tantos actos fallidos.
Fallido porque las palabras no se acercan si quiera a la semejanza de los sentimientos.
Se me acaban las excusas pero nunca las razones.

Quiero,
   inhumanamente,
tenerte cerca segundo.

No sé si sea la nube de amor
pero desde antes de saber que era amor, y qué era amor, mi cerebro se acostumbró a verte así.
        Así de perfecto, así de necesario.
Retador,
seductor,
acogedor.

Haces que todos sean los extras de la película, las sextas personas del libro, y que la segunda tenga la misma importancia que la primera.
       Yo, tú. Tú, yo.
Es lo mismo.
   Semejanza tras semejanza.
Abastanza con discordanza.
Confianza sin tardanza.

Puedo terminar parada en un después sola, pero el presente será una marca más de mi pasado, y la quiero ahí.        Bien pintada.  Con tus colores.
Que hasta tu arrogancia tiene elegancia.
¿Cómo lo haces? A veces me llegan las sugestiones y cuestiones, y me cuestiono: ¿Para qué mi estancia? Circunstancia con distancia.

Pero me calla la respuesta.
     Tú y yo podemos con todo,
y también con nada.
Trato de escribir en la oscuridad tu nombre. Trato de escribir que te amo.
Trato de decir a oscuras todo esto. No quiero que nadie se entere, que
nadie me mire a las tres de la mañana paseando de un lado a otro
de la estancia, loco, lleno de ti, enamorado. Iluminado, ciego, lleno de
ti, derramándote. Digo tu nombre con todo el silencio de la noche,
lo grita mi corazón amordazado. Repito tu nombre, vuelvo a decirlo,
lo digo incansablemente, y estoy seguro que habrá de amanecer.
En la tranquila casa donde la tía vive
Todo evoca el recuerdo del tiempo que pasó:
La sirvienta ya cana y el patio con su aljibe,
Y los cuadros y espejos que un siglo deslustró.

El salón aun conserva los tapices de antaño,
Do ninfas y pastores van danzando un minué:
Y en sus ojos parece brillar el fuego extraño
De amores de otro tiempo, tiempo feliz que fue.

Del clavicordio antiguo, que en un rincón reposa,
A veces un suspiro se alza y huye al azar,
Como un eco de tiempos lejanos, cuando hermosa
Tocaba ella romanzas de Glück y de Mozart.

Un armario de sándalo luce en la oscura estancia...
¡Cuántas reliquias guarda, tesoros de su amor!
Cartas, retratos, pomos que respiran fragancia...
¡Parece que de un siglo se aspirara el olor!

Entre aquellos recuerdos de ternura infinita
Que hay entre las gavetas, vese un libro, y en él
Hace ya sesenta años duerme una flor marchita...
Es el libro Zaíra, y es la flor un clavel.

Con el libro, en los días del estío radiante,
A la ventana se hace rodar en su sillón,
¿Es el sol lo que anima y enciende su semblante?...
¿Por qué con fuerza siente latir el corazón?

Sobre el clavel marchito la blanca frente inclina,
Pues teme que al tocarlo se pueda deshojar,
Y en su mente un recuerdo canta canción divina,
Mientras las ayes cantan en el vetusto alar.

Piensa cuando el fragante clavel recién cortado,
En las hojas del libro guardó un amigo fiel,
Y humedecen sus lágrimas el libro siempre amado
En donde sesenta años ha dormido el clavel.
Patas de perro con
mi primacho Miguel
en Pereira, buscando
un hotel pa pagar
la estancia de una cuartico
cerca al centro o
a poca distancia
del burdel.  

Nos tomamos un jugo de caña
y como ya tengo la maldita maña, llamamos al Toro porque
sin esa hierbita jamás
cerraría pestaña

Dándole vueltas al centro, esperándolo a él
Vi un lindo edificio
y le dije a Miguel:
"un segundo hermano que me
  gustó ese hotel, voy a entrar a
  ver si hay cupo"
y a cuánto estaba
una noche en aquél.

Me mira bien serio y
me deja pasar
quedándose afuera pa disimular.

"Buenas tardes caballero,
bien pueda...
¿En que le puedo servir?"

"Busco un cuartico que mi primo
  y yo pensamos quedarnos en
  Pereira esta noche, ¿a cuánto
  están?"

¿Cómo así? me contesta
y como creía que
no me había entendido...
repiti la encuesta.  
Otra vez ....¿Cómo así?

En eso momento,
que pendejo te cuento,
me di cuenta que
no era un hotel.
De un salón a la izquierda
salían los llantos
seguidos por un desfile
en ***** de luto.....
y yo hijueputa ¡"que bruto"!

Volteaba a ver si el primo ya sabía que pasaba cuando
soltó la gran carcajada.  

Huí sin mu decir
buscando la risa de Miguel
que decía uy... ¿que pasó no es hotel?

Pero se la hice también
cuando nos recogió el torito
y comenzamos a fumar y fumar. Tantos baretos estilo Bob Marley que ya no nos podíamos ver.

Cuando se escapó todo el humo Miguel se detuvo
antes de casi caer.  
Con ojos cruzados y labios babeados empecé
a burlarme también.
Story bout my cousin letting me make a fool of myself in Pereira Colombia by asking the front desk at a funeral home if they had rooms for the night.  And how I got him back
Allá en las horas más dulces
De mi fugitiva infancia,
Sirvióme de cuidadora
Una mujer muy anciana,
Con su rostro todo arrugas,
Su cabeza toda canas
Y su corazón tranquilo
Todo bondad y esperanzas.

De noche junto a mi lecho
Mil historias me contaba
De geniecillos y ninfas,
De trasgos y de fantasmas.

¡Pobrecilla! ¡cuántas veces
En estas noches amargas
En que repaso tristezas
En mi alcoba solitaria,
Al oír que de la torre
Vuelan en lentas parvadas
Las mismas horas que entonces
Pasé a su lado tan gratas,
He pensado en ella y visto
Llegar su sombra a mi estancia
Pretendiendo como en antes
Secar con cuentos mis lágrimas!

En cierta vez, caí enfermo,
La fiebre me devoraba,
Y en mi delirio quería
Para volar tener alas.
«Dámelas tú»: -grité altivo-
«Tú, nunca me niegas nada»:
-«Es verdad, nada te niego,

»Pero no sufras, ten calma,
Las alas que Dios te ha dado
Las tiene tu ángel de guarda;
Esta noche se las pido
Y te las daré mañana».

Nunca le faltó manera
De responder a mis ansias,
Y siempre al verme llorando,
Con la paciencia más santa,
Me dijo tales ternuras
Que aun me conmueven el alma.
Ella, que al velar mi sueño
De puntillas caminaba,
Y porque rumor ninguno
A mis oídos llegara
Iba a sosegar el péndulo
De un viejo reloj de sala;
Ella, que jamás hubiera
Permitido a gente extraña
Lanzar un débil suspiro
A dos pasos de mi cama;
Que en balcones y rendijas
Cortaba al aire la entrada
Y por no causarme susto
Rezaba siempre en voz baja;
Una noche fue a mi lecho
Alegre y entusiasmada
Diciéndome: -¡Ven, despierta,
Ya es hora... no tardes... anda!

Sobrecogido de miedo
Yo le pregunté: ¿Qué pasa?
-Ya lo sabrás cuando escuches
El vuelo de las campanas,
El tronar de los petardos
Y el disparo de las salvas-.

Abrigado hasta los ojos
Salí con la pobre anciana,
Y un sueño del paraíso
Me fingió lo que miraba.
Desde las enhiestas torres
A las humildes ventanas,
Lo mismo en extensas calles
Que en las más estrechas plazas,
Faroles y gallardetes,
Banderolas y oriflamas
Con los hermosos colores
De la bandera de Iguala.
Y al escuchar tantos gritos,
Tantos himnos, tantas dianas,
El rumor de los repiques
Y el estallar de las salvas,
En brazos de mi niñera
Lloré sin saber la causa.
-Lloras de placer-, me dijo
Esta es una fiesta santa,
La sola fiesta que alegra
Mi corazón y mis canas.
Hoy es quince de setiembre,
Y en esta noche sagrada,
Hace cuarenta y cuatro años,
Si mi memoria no es mala,
Un cura humilde en Dolores
Hizo nacer a la Patria.
Cuando era yo jovencita
Mi padre, que en paz descansa
Me traia de la mano
En esta noche a la plaza
Para repetir con todos
Los que aquí gozan y cantan,
El grito de independencia
Que repercute en el alma;
Mi padre, mi pobre padre,
Fue soldado de Galeana;
Pero mira... allí está el héroe
Alcé mis ojos con ansia
Y vi un inmenso retrato
Entre lucientes guirnaldas
Bañado por los reflejos
De las luces de Bengala.

Un rostro apacible y dulce,
Una frente limpia y ancha,
Una mirada de apóstol,
Una cabeza muy cana...
¡Era Hidalgo, el Padre Hidalgo,
El salvador de la Patria!

¿Lo ves? me dijo temblando
De regocijo la anciana...
-Sí, le respondí, sintiendo
No sé qué dentro del alma,
Y entonces a un mismo impulso
Con las manos enlazadas,
Nos pusimos de rodillas
Llenos los ojos de lágrimas.
Para coger un pan sobre el morrillo
Dando pecho y axila a los pitones,
Juan, anónimo Juan, Juan Torerillo
No recibiste clásicas lecciones.
Para llevar a casa veinte duros
Entre la chifla de inhumano coro
Bebiste golpes, aspiraste apuros
Y al aire al suelo al aire y siempre al toro.
Del miedo, que es ingénito en el hombre,
Nació el valor, congénito en el hambre;
Así en la tauromaquia, Juan Sin Nombre
Fue antítesis del gran José Raigambre.
José, nieto de Venus y Vulcano
Fue un semidiós con la esbeltez de Apolo
(Frecuencia tuvo aquel Teseo hispano
En liquidar seis Minotauros, solo).
Mas Juan, el pobre Juan de carne y hueso,
El más mortal de todos los mortales
Opuso a sal valor, arrojo al seso
Y "molinetes" contra "naturales".
Tres siglos en la historia del toreo
Se derrumbaron ante dos colosos:
Del morisco e hispánico alanceo
Hasta el futuro en los taurino cosos.
Y Joselito muestra al horizonte
Toda una enciclopedia en su percal.
Y remata sus lances Juan Belmonte
Con su "media verónica" renal...
La Muerte se disfraza de capricho,
Y en la más increíble paradoja
Subsiste quien vivió a merced del bicho
Y muere quien "¡no hay toro que lo coja!"...
Quedan atrás los años de la infancia:
Sevilla y su noctámbula capea...
Como un Jasón, Juan, en su rica estancia
Mira en la tauromaquia una Medea.
Porque si en su niñez fue Juan Sin Suerte
Y fue en su adolescencia Juan Sin Pan,
Hoy, ya casi un anciano, es Juan Sin Muerte
Porque la Muerte tuvo miedo a Juan.
Y quien burló a la muerte en tantos ruedos,
Mil veces sentenciado por suicida,
Sólo cuando lo quiso, y con sus dedos
Mató su muerte y se quitó la vida...
A Juan, que no toreó por soleares,
Muerto, no he de llorarlo en seguiriyas.
Sean por martinetes mis cantares,
Cante de yunque y fragua y herrerías:
Cristo de la Expiración
Cachorro de los trianeros,
Bríndale tu absolución
Al mejor de los toreros
Cachorro, si en Viernes Santo
Te faltara un penitente,
Asóciate a nuestro llanto
Que es Juan Belmonte el ausente...
Pasan las horas de hastío
por la estancia familiar
el amplio cuarto sombrío
donde yo empecé a soñar.
    Del reloj arrinconado,
que en la penumbra clarea,
el tictac acompasado
odiosamente golpea.
    Dice la monotonía
del agua clara al caer:
un día es como otro día;
hoy es lo mismo que ayer.
    Cae la tarde. El viento agita
el parque mustio y dorado...
¡Qué largamente ha llorado
toda la fronda marchita!
Cual gótico castillo legendario,
Sobre praderas de esmeralda amenas,
Levantas en el campo solitario,
Junto al humilde, alegre campanario,
Tu frontón coronado por almenas.

¡A cuánto bienestar tu calma invita!
En ti reina la paz que ardiente anhelo
Para aliviar la pena que me agita.
¡Cuánta envidia me da tu cruz bendita,
Que alza sus brazos al azul del cielo!

¡Cómo envidio a la parda golondrina
Que cuelga aquí su nido cariñosa,
Y libre va del llano a la colina!
¡Cómo envidio a la fuente cristalina,
Que tu jardín alegra rumorosa!

El combate del mundo me ha dejado
Enfermo el corazón, el alma fría,
Triste el presente, el porvenir nublado,
Y para siempre yerto y apagado
El que fue sol de la esperanza mía.

Huyeron ya veloces y traidoras,
De falso brillo y de ponzoña llenas,
Las que juzgué mis dichas seductoras;
Y en cambio quedan mis amargas horas,
Mis duelos tristes y mis hondas penas!

¡Oh apetecible soledad tranquila,
Donde la fe del alma no se pierde
Ni la razón desmaya ni vacila,
Y en que alegran la mente y la pupila.
El cielo azul y la llanura verde!

¡Qué venturosa vive en la cabaña
La familia del rudo campesino,
A la que Dios bendice y acompaña!
¡Cuánto misterio celestial entraña
La cruz clavada al borde del camino!

¿Quién, ya sin paz, sin ilusión alguna,
Como yo, en las tormentas de la vida,
No tiene envidia a la ignorada cuna
De los seres que labran su fortuna
Por la senda más dulce y escondida?

¿Quién pudiera borrar de la memoria
Tantos recuerdos tristes que ennegrecen
Las breves hojas de mi humilde historia?
¡Los lauros del amor y de la gloria,
Ni yo los busco, ni en mi huerto crecen!

Qué son esos aplausos, ese acento
Que nos embriaga y nos alienta a veces,
Humo fugaz que desbarata el viento,
Al vernos apurar, sin un lamento,
El cáliz del dolor hasta las heces.

¡Oh sagrada amistad, sol de consuelo,
Eterno culto que mi pecho abriga,
Único alivio a mi constante duelo,
Única estrella de mi triste cielo,
Deja que con el alma te bendiga.

No es verdad que en el mundo todo muere;
No es verdad que en el mundo todo es vano:
Si alguien nos odia, alguno nos prefiere;
Y detrás de la mano que nos hiere,
Siempre acude a salvarnos otra mano.

Vos lo sabéis, señora: en la violenta
Tempestad de mi vida, hallé una palma
Que me prestó su amparo en la tormenta;
Dios la bendice, la virtud la alienta.
Y yo le doy la gratitud del alma.

Y vos, de alta virtud hermoso ejemplo,
Tesoro de talento y poesía,
A quien siempre magnánima contemplo:
Benévola acoged en vuestro templo
Las tristes notas de la lira mía.

Que os hablen de la vida sosegada
Que ofrece, sin zozobra ni temores,
La hermosa estancia para vos formada;
Y estos versos de un alma desgarrada,
Cayendo a vuestros pies, cámbiense en flores.
En mitad de la noche sombría y tempestuosa,
cuando la raza humana sus fatigas reposa,
alguien toca a mi puerta con tímido reclamo.

-«¿Quién me busca a estas horas? - sobresaltado exclamo-,
Quién perturba el silencio de mis dichas supremas?»
Y una voz me responde: -«Soy un niño; no temas:
Me he extraviado en la noche, y ando errante y hambriento,
bajo el gélido azote de la lluvia y del viento…»

Y yo, compadecido por la súplica incierta,
prendo fuego a mi lámpara y entreabro la puerta.
Y al instante entra un niño de dorados cabellos,
grandes ojos azules de adorables destellos,
frescos labios purpúreos y mejillas de rosa.
Y entra alegre, ágil, frívolo, como una mariposa…

Bajo el brazo derecho trae un arco potente,
y un gajo de amaranto le enguirnalda la frente;
un haz de agudas flechas en su carcaj asoma,
y en su espalda palpitan dos alas de paloma.

Y al ver su desamparo sentí tal pesadumbre,
que sequé sus cabellos al amor de la lumbre,
entibié sus manitas entre mis manos rudas,
y alisé el terciopelo de sus plantas desnudas.

Poco después, el niño de rosadas mejillas
se sintió confortado, y huyó de mis rodillas.
Curioseó por la estancia con pueril regocijo,
escogió una saeta, tendió el arco, y me dijo:
-«Quiero ver si la lluvia me ha dejado inservible mi juguete…»
Y al punto lancé un grito terrible,
pues la rígida flecha se me clavó en el pecho!

El falaz diosecillo palmoteó satisfecho,
se echó al hombro la aljaba, me miró sonriente,
clavó en tierra un extremo de su arco inclemente,
y crispando sus manos en la cuerda tirante,
le arrancó cuatro veces un zumbido vibrante.

-Extranjero: Sonríe… -dijo el niño-. En efecto,
la tensión de mi arco no sufrió desperfecto.
Y en pago a tus bondades, como el más alto don,
perpetuamente herido te dejo el corazón!
En la tranquila y recatada estancia,
De áureos brocados y de roja alfombra,
Un manojo de rosas su fragancia
Al aire daba, en la naciente sombra.

Suelto el rubio cabello, blanca y leve,
Apareció la virgen soñadora,
Y semejaba como airón de nieve
Besado por un rayo de la aurora,

En la penumbra medio oculto el piano,
Confidente de sueños, se veía,
Como aguardando conocida mano,
Mensajera del ritmo y la armonía.

...Y las notas vibraron. De la luna,
Que desceñía sus flotantes velos,
Un rayo entró a la estancia, como una
Indiscreta mirada de los cielos.
Sentado ante su mesa de trabajo
Estaba, en tanto que visiones blancas
y vaporosas, en azul ensueño,
En torno de su lámpara flotaban,
y níveos copos de menuda nieve
Daban en el cristal de su ventana.

Y de repente vino a su memoria,
En el hondo silencio de la estancia,
El recuerdo de un hombre conocido
Hacía muchos años. La garganta
Sintió oprimida, y algo de tristeza
y de vergüenza conmovió su alma.

Recordó la humildad de ese hombre triste.
Humildad en acciones y palabras,
Que don ninguno recibió del cielo
y llevó siempre vida solitaria
Como un árbol en áspera llanura.
Recordó sus promesas reiteradas
De ir a verlo en su plácido retiro,
y que aquel hombre en su mansión callada
Esas ofertas siempre agradecía,
Pero creyendo sus promesas vanas.
Y se acordó también de que ese hombre
En su silencio y su humildad lo amaba.

Todos esos recuerdos se agolparon
De pronto en su memoria, en la callada
Sombra que lo envolvía. En su hondo ensueño
Quiso apartarlos, pero voz del alma,
Voz imperiosa estremecer lo hizo.
Se puso en pie. Lucía en su mirada
luz de sonrisa, y respiró, ya libre
del nudo que oprimía su garganta.

Y apresurado se vistió. La noche
Cubría la llanura solitaria,
Y dirigió los pasos en la nieve
Del hombre humilde a la tranquila casa.

Y entró. Después de familiar saludo
y ya sentado cerca de la llama
Entre ese hombre y su humilde compañera,
Que con muda sorpresa se miraban,
Observó pensativo esos silencios
Que interrogan, y son como en las páginas
Esos espacios que la pluma deja
A veces entre frases y palabras.

Y en ambos rostros observó de pronto
como inquietud furtiva, entre las pausas
del lento hablar, mas comprendió en seguida
La causa: No creían, no esperaban
Que viniera, tan tarde, y de tan lejos,
En medio de la nieve y entre charcas,
Sólo por darles un placer, y sólo
Por cumplir su promesa. Y se miraban
Aguardando angustiados que dijera
De ese visita la razón. ¿Qué causa
lo hizo venir en semejante noche?
¿Qué servicio quería? ¿Era una infausta
o grata nueva, la que así, tan tarde,
Lo traía al silencio de esa casa?

Comprendiendo esa íntima zozobra
Quería hablar para infundirles calma,
Pero seguían los silencios lentos,
y seguían pesando las palabras;
y como él temerosos los veía
de una revelación inesperada,
Ante ellos se sintió como acusado,
Confuso, torpe, y en angustia el alma.

Y se vio como lejos...  lejos de ellos,
Como si frente a frente no se hallaran,
Hasta que en pie, para salir, se puso.
La angustia que sus almas embargaba
Al fin cesó. Lo comprendieron todo...
Vino por ellos, para hacerles grata
Esa noche de invierno; solamente
Por ellos... y en sus ojos irradiaba
Luz de alegría. Quiso verlos alguien
En su vida tranquila y solitaria;
Visitarlos, oírlos... Y más fuerte
Que la nieve, y el frío y la distancia
Fue ese deseo. Vino a verlos alguien
En el hondo silencio de sus almas...
Alguien al fin llegó. ¡Cuánto alborozo!
Fluían de sus labios las palabras,
y para retenerlo, sonreían,
y entusiasmados a la vez hablaban.

Les prometió que volvería. Y antes
De llegar a la puerta, la mirada
Tendió en redor,  porque en la mente quiso
La memoria fijar de aquella casa.
Clavó la vista en cada mueble; luego,
Como queriendo concentrar el alma
En un recuerdo, los miró callado
Porque en el fondo de su ser dudaba
Si volvería... Y se perdió su sombra
En la llanura, por la nieve, blanca.
No recordar nada...
Que me hunda la noche callada
como una bandada
blanda y acabada.

(Que no quede nada...
Que pase la mujer amada
por una dejada
estancia soñada).

No desear nada...
Perderme en la idea sagrada
como una dorada
sombra en la alborada.
En los campos de Antelo, hacia el noventa
mi padre lo trató. Quizá cambiaron
unas parcas palabras olvidadas.
No recordaba de él sino una cosa:
el dorso de la oscura mano izquierda
cruzado de zarpazos. En la estancia
cada uno cumplía su destino:
éste era domador, tropero el otro,
aquél tiraba como nadie el lazo
y Simón Carvajal era el tigrero.
Si un tigre depredaba las majadas
o lo oían bramar en la tiniebla,
Carvajal lo rastreaba por el monte.
Iba con el cuchillo y con los perros.
Al fin daba con él en la espesura.
Azuzaba a los perros. La amarilla
fiera se abalanzaba sobre el hombre
que agitaba en el brazo izquierdo el poncho,
que era escudo y señuelo. El blanco vientre
quedaba expuesto. El animal sentía
que el acero le entraba hasta la muerte.
El duelo era fatal y era infinito.
Siempre estaba matando al mismo tigre
inmortal. No te asombre demasiado
su destino. Es el tuyo y es el mío,
salvo que nuestro tigre tiene formas
que cambian sin parar. Se llama el odio,
el amor, el azar, cada momento.
No quiero no, no quiero serranías,
ni la ola marina y su jactancia,
ni el fondo verde y oro de una estancia...
Quiero pasar, verano, aquí mis días.

Cerca de aquí y de tus niñerías
y de tu lealtad y tu constancia,
adherido a tu piel a su fragancia...
Que te enojes, que hables, que te rías.

Abandonada, así, sobre la grama
mientras yo te contemplo, distraído,
con la profunda distracción del que ama.

Revuelta de cabello y de vestido,
retorcer el marfil como una rama:
tu cuerpo descubierto y escondido.
Leydis Jan 2018
Cerré los ojos por un instante,
los cerré para desconectarme,
para centralizarme.
Por si un suspiro quisiera invadirme,
nutrir mi estancia espiritual,
por si pudiese empaparme
de conocimiento y como
funciona el mundo de las almas.

Cerré los ojos para sentir mis olas,
esos pleamares de mi vida
a veces tan altas, a veces descienden,
pero tan parte del esquema de mi piélago.  

Cerré mis ojos para sentir la tierra,
por si todavía podía percibir
si ella era húmeda, o si era seca.

Cerré los ojos para soñar,
para ver un futuro después de esta realidad.
por si el horizonte todavía hablaba con el cielo,
o, si necesitaban esa línea intermediaria
para llegar a un acuerdo.

Los cerré, porque quería palpitar la libertad,
por si venteaba a la fragancia que tiene la cinco de la mañana,
ese olor de opacidad que voluntariamente cede su potestad
a la posibilidad de unos rayos que iluminan,
o la bruma de un día entre lluvias de amargura.
Quería saber si la libertad huele igual a la dependencia,
Si huele el silencio al estimulante bullicio,
ese olor a sueños, a colofones,
o la impúdica  resignación que nada cambia.

Cerré los ojos porque sentí un diluvio
queriéndose desguazar sobre mi cara,
porque quería entender todo,
mas no entendía nada.

LeydisProse
1/26/2018
https://m.facebook.com/LeydisProse/
anthony Brady Mar 2018
A lado de la Misión San Cristòbal
Est una casa lujosa y grande
dónde vive reservado y distinto
La Doña Carmen Garcia-Cabrall.

Trabajo en su estancia - ensilar su caballo,
monto detras encargado quando ella visite
sus amigos aqui  y alli. Dicho y hecho.
La Doña Carmen Garcia-Cabrall.

Ella dice: “Arnese mi caballo - Miguel!
Trae mis botas - Miguel!
Muchas Gracias - Miguel!”
La Doña Carmen Garcia-Cabrall.

Ella amanto Don Josè Francisco Delgado
est  a menudo frecuente.  El dice: “Adios!
Miguel esta seguro La Doña
Maria Carmen Garcia-Cabrall!”

A  lado de la Misión San Cristòbal
espero en el patio de la casa grande
dónde vive resevardo y distinto
La Doña Carmen Garcia-Cabrall.

Ella dice: “Estable la caballo - Miguel!
Entonces ven arriba - Miguel!
Ahora rapido - Miguel!
Cerra mis botas - Miguel!
Muy bien! -  Miguel!”
Digo “Es todos Senora?”
“Haz lo quieras Miguel!
Miguel!  Cierra la puerta
El cerrojo en el interior"
La Doña Carmen Garcia-Cabrall.

TOBIAS
Victor D López Dec 2019
Aunque estoy parado en los hombros de gigantes, no veo mucho más lejos que el puente de mi nariz.
La culpa es mía. La vergüenza es mía.  Pues no soy digno de ustedes, mis queridos muertos.

Parte I - Emilio (abuelo materno)
Su crimen fue su inteligencia y su posesión de una conciencia social,
Que le hizo anhelar ver a su amada España permanecer libre y le impidió tolerar a fascistas.
No porto armas, aborrecía todo tipo de violencia. No incito la rebelión,
Aunque se rebeló contra los enemigos de la libertad nacionales y extranjeros.

Fue apasionadamente un idealista que, en un tiempo de oscuridad, se aferraba a la
Creencia en la perfectibilidad del espíritu humano.  No pudo soportar las mentiras que los periódicos Regionales llevaban diariamente y tradujo noticias de los periódicos estadounidenses y británicos sobre La creciente tormenta, compartiendo la verdad libremente con todos los que le escuchaban.

Dio discursos y escribió discursos dados por otros en apoyo a un condenada República,
Derrumbándose bajo el peso de su propia incompetencia y corrupción.
Le avisaron amigos de su inminente arresto y le ofrecieron pasaje a Estados Unidos o a
Buenos Aires donde muchos de sus amigos ya habían encontrado refugio.

Pero no conseguirían pasaje para su esposa y nueve hijos, y se negó a abandonarlos a su suerte.
Ellos vinieron por usted, como siempre, en medio de la noche, esos cobardes con rostros severos Escondidos detrás de ametralladoras.  Le llevaron preso, no por la primera vez, al Castillo de San Antón, una fortaleza en una bahía hermosa y tranquila, y lo transfirieron a otros calabozos.

Le arrancaron las uñas, una por una, y esos sus más tiernas caricias, mientras le pidieron nombres.
Lo que soportó, solo Dios lo sabe, mediante meses, y fue condenado a muerte como un traidor.
Le abrían fusilado en La Plaza de María Pita. Pero la República tenía amigos, hasta entre algunos oficiales Fascistas, y uno de ellos le abrió la puerta de su celda en la víspera de su ejecución.

Había sido transferido al Castillo de San Antón a esperar su sentencia. No obstante de haber contraído Tuberculosis entonces, sin embargo, según mi abuela, logro nadar de A Coruña a Sada a través de la Bahía en una noche sin luna, a la seguridad en el hogar de otro patriota que arriesgo su vida y la de su Familia para esconderle en su sótano y realizo un viaje de muchos kilómetros a pie para encontrar a su esposa.

Encontró su casa y le informo a su esposa del inesperado aplazamiento, y le pidió que enviara alguna
Ropa y zapatos para reemplazar sus trapos sucios.  Su hija mayor, María, insistió en
Acompañar a ese honrado desconocido, llevando cuanta ropa, comida y afectos personales
Pudo rápidamente recoger para llevárselos, sin saber cuándo le podría volver a ver.
De vez en cuando acepto la hospitalidad de una noche de estancia en el desván o ático de un Simpatizante republicano, los cuales no eran difíciles de encontrar en una Galicia
Ferozmente independiente bajo el yugo de uno de los suyos.
Pero sobre todo vivido en el bosque, con guerrilleros activos durante años.

Vivió con todas las comodidades de un animal cazado con otros que no cederían,
Cuyo mayor delito consistió en estar en el lado equivocado de una causa perdida.
Espero que le diese algo de consuelo el saber que estabas en el lado derecho de la historia.
No se lo dio a su esposa ni a sus nueve hijos.

Usted pagó muchos inimaginables sacrificios como penitencia por su conciencia.
Una vez al mes o más, después de pasado algún tiempo, visitó su esposa e hijos. Le introdujeron a los Más pequeños como un tío que vivía lejos. No sabían ellos que el barbudo salvaje que pagaba estas Visitas en media noche y se despedía antes de amanecer llevando puesta la ropa vieja y limpia de papa.

Los más mayores, María, Josefa, Juan y Toñita, todos aun en su adolescencia, les decían a los más Pequeños que su "tío" portaba noticias de su padre. Los niños más jóvenes, aun vistiendo los mantos Deshilachados de su inocencia, aceptaban esto, no cuestionando por qué se quedaba en el cuarto de Mamá toda la noche y se había ido siempre antes que despertaron la mañana siguiente.

No puedo concebir la profundidad de su angustia en tener que interpretar el papel de un extraño en su Propia casa, de no poder abrazar a sus hijos más pequeños quienes adoraba, para prevenir que los Vecinos fascistas quienes trataban a menudo de adquirir informes de ellos con pasteles y dulces en Tiempos de hambre, tratando de usar su Inocencia como un arma contra usted.

Sus padres eran relativamente ricos empresarios que cultivan el mar pero lo desheredaron—
Tal vez por su forma de actuar, tal vez por elegir a emigrar, negándose a unirse a la empresa familiar o Tal vez por casarse por amor en la ciudad de Nueva York con una joven sumamente trabajadora pero De clase humilde y estación social inferior en los ojos de sus padres.

Vivió lo suficiente para ver el fin de la guerra civil, pero no a su amada España liberada de sus cadenas.
Falleció antes de sufrir las consecuencias de la guerra cuyo fin fue el preludio de décadas de
Angustiantes cosechas de angustia y Amargura a quienes la sobrevivieron.
No se salvaron de esa cosecha su esposa y sus hijos.

No hay libros que graben su nombre. La mayoría de quienes le conocieron están muertos.
No obstante, siete décadas después de su fallecimiento aun aparecen en su nicho flores en el Cementerio de Fontan que guarda sus cenizas y las de su hijo mayor, Juan y su hija,
Toñita, quienes murieron aún mucho más jóvenes que usted, a los 19 y 15 años.

También yacen allí las cenizas de su esposa, Remedios, donde el
Honor, la bondad, la decencia, y un Corazón puro y deshecho en su
Muy corta vida por un mundo muy poco merecedor de su
Presencia finalmente descansan en paz.

____
Translated from my English original poem "Unsung Heroes -- Part I: Emilio (Maternal Grandfather)" available in its original English version here: https://hellopoetry.com/poem/2904353/unsung-heroes-1-emilio-maternal-grandfather/
My reading of this poem in its English original version is available at https://www.youtube.com/watch?v=5FXkhtOltEc
Duele la piel del ser lejano ausente
bajo la piel que riega la honda pena,
faltan las blancas manos de azucena
y el corazón de heridas se resiente.

Abismos de pasíon Amor presiente
en la insondable noche -azul serena-
porque la amada fue una estrella ajena
que sin saber llegó cuando el poniente.

El largo recorrido fue distancia
para medir la inmensidad desierta
que diluyó el sabor de la fragancia.

Inútilmente la pupila abierta
escruta los rincones de la estancia
porque se fue el Amor estando alerta.
Yo meditaba absorto, devanando
los hilos del hastío y la tristeza,
cuando llegó a mi oído,
por la ventana de mi estancia, abiertaa una caliente noche de verano,
el plañir de una copia soñolienta,
quebrada por los trémolos sombríos
de las músicas magas de mi tierra.... Y era el Amor, como una roja llama...
-Nerviosa mano en la vibrante cuerda
ponía un largo suspirar de oro
que se trocaba en surtidor de estrellas-.... Y era la Muerte, al hombro la cuchilla,
el paso largo, torva y esquelética.
-Tal cuando yo era niño la soñaba-.Y en la guitarra, resonante y trémula,
la brusca mano, al golpear, fingía
el reposar de un ataúd en tierra.Y era un plañido solitario el soplo
que el polvo barre y la ceniza avienta.
En Cluny, Siglo XV.
                                        Bajo álamos de plata
sus aguas el Saona, rumoroso dilata
por el lento deshielo. La mole ennegrecida
de piedra, corta el llanto que despierta a la vida.
En el parque, vagando, y humilde la mirada,
las manos sobre el pecho y en la oración callada,
pasan monjes, tendida hacia atrás la cogulla
y como una armonía celeste al campo arrulla.

Cielo tranquilo y diáfano.
                                                  La quietud del convento
a la plegaria incita y a hondo recogimiento.
Las ventajas abiertas dan al jardin. Las rosas
sonríen bajo errante vuelo de mariposas;
y en las frondas, de nidos y de aves la algazara
es saludo a la aurora, que surge azul y clara.

En la amplia biblioteca, monje benedictino
tiene abierto en la mesa borroso pergamino,
donde paciente artista de tiempo muy lejano,
al principiar capítulos, pintó con hábil mano,
en grandes iniciales y con vivos colores,
dragones, ninfas, grifos y ultraterrenas flores.

Con sus rubios cabellos sobre la frente vasta,
su palidez y el brillo de su pupila casta,
y con su hábito blanco, parece el monje, efebo,
del jardín ante el tibio primaveral renuevo

Copia un códice antiguo; «Dafnis y Cloe».
                                                                                    Aromas
de los rosales suben y arrullos de palomas.

Absorto escribe.
                                        Y Cloe se yergue ante sus ojos,
Púber, blanca, sin velos y con sus labios rojos,
Así cual Longo un día radiante de verano
La soñó junto a Dafnis, bajo el azul lesbiano.

Aromas, más aromas, va trayendo la brisa.
Cloe sonríe; a Dafnis abraza, y su sonrisa
Es rosa entre sus labios en flor. Y más fragancia,
Arrullos y rumores llenan la quieta estancia.

Cloe pasa, se borra, mas de nuevo aparece.
En su naciente seno ya la vida florece;
Se pierde entre los árboles, vuelve nerviosa y bella,
Y muestra en el boscaje su desnudez de estrella.

Sobre la mesa el monje pensativo se curva;
Inquietud hasta entonces no sentida lo turba;
Se alza rápido y torna a sentarse impaciente;·
Se pone en pie; se inclina, las manos en la frente,
Y aromas... y un deseo el corazón le roe...
Y más vivaz irradia la pubertad de Cloe.

De pronto aparta el códice, y ante la azul mañana
Tiende inquieto las manos, y cierra la ventana;
Y sentado en la silla, pálido y sonreído,
Se queda lentamente y en éxtasis dormido.

En el silencio entonces, bajo el azul y el oro
Del cielo, las campanas se oían; y en el coro
Los monjes, en anhelo que del mal los liberte,
Cantaban de rodillas el Salmo de la Muerte.
Qué no daría yo por la memoria
de una calle de tierra con tapias bajas
y de un alto jinete llenando el alba
(largo y raído el poncho)
en uno de los días de la llanura,
en un día sin fecha.
Qué no daría yo por la memoria
de mi madre mirando la mañana
en la estancia de Santa Irene,
sin saber que su nombre iba a ser Borges.
Qué no daría yo por la memoria
de haber combatido en Cepeda
y de haber visto a Estanislao del Campo
saludando la primer bala
con la alegría del coraje.
Qué no daría yo por la memoria
de un portón de quinta secreta
que mi padre empujaba cada noche
antes de perderse en el sueño
y que empujó por última vez
el 14 de febrero del 38.
Qué no daría yo por la memoria
de las barcas de Hengist,
zarpando de la arena de Dinamarca
para debelar una isla
que aún no era Inglaterra.
Qué no daría yo por la memoria
(la tuve y la he perdido)
de una tela de oro de Turner,
vasta como la música.
Qué no daría yo por la memoria
de haber oído a Sócrates
que, en la tarde la cicuta,
examinó serenamente el problema
de la inmortalidad,
alternando los mitos y las razones
mientras la muerte azul iba subiendo
desde los pies ya fríos.
Qué no daría yo por la memoria
de que me hubieras dicho que me querías
y de no haber dormido hasta la aurora,
desgarrado y feliz.
Leydis Aug 2017
Somos dos,
conectados a la bitácora de un ritmo.
Un corazón que va latiendo al movimiento del tiempo,
que fluye entre las arterias del amor,
en una fusión de doble vía,
va creciendo nuestra devoción,
la misericordia y la ilusión, día tras día.

Si, somos dos,
dos individuos,
dos cuerpos que han recorrido distintos caminos,
que en el maravilla y bendito orden divino…
nos enlazamos sin interrogatorios,
solo teniendo certeza en el trayecto,
siguiendo  los latidos del universo,
que se creaban con cada beso
que se afirmaban en cada estrechar de nuestras manos,
pidiendo más y un poquito más de tiempo,
en una larga mirada,
en una cena sin velas,
donde nuestra alegría era suficiente para alucinar esa estancia.

Somos dos,..
somos uno en dos,
compartiendo un organismo de ilusiones,
viajando en la continuidad de memorias creadas en el alba,
y en el crepúsculo de la noche plasmar nuestras almas,
inyectándonos en una continua transfusión de esperanza,
adulación a este amor,
que defiere
que fortalece,
que florece,
que se empeña,
que se esperanza
que se define,
que se mantiene firme
y
completamente entregado
y se transforma a un pensar….
que dos somos uno,
que uno somos dos,….
diferentes
pero
¡iguales!

LeydisProse
8/3/2017 https://www.facebook.com/LeydisProse/
¡Mira! Es noche de lluvia. Deja el piano.
Hace frío: cerremos los balcones.
Abramos al amor los corazones
Y ven conmigo a tu cojín persiano.

Tu azul pupila, cielo de verano,
Renueve las pasadas efusiones;
Haz revivir las muertas ilusiones,
Y abandona tu mano entre mi mano.

El Sena se divisa a la distancia;
París brilla en la sombra.  Flota el sueño
Y hay languidez y aromas en la estancia.

Siga afuera tenaz la helada lluvia...
Si dormir quieres, duerme, dulce dueño,
Y apoya en mi hombro tu cabeza rubia.
18
Allá en el fondo
de mi biblioteca,
el sol de última hora, que confunde
mis colores en luz clara y divina,
acaricia mis libros, dulcemente.
¡Qué clara compañía
la suya; cómo agranda
la estancia, y la convierte, llena,
en valle, en cielo -¡Andalucía!-,
en infancia, en amor!
Igual que un niño, como un perro,
anda de libro en libro,
haciendo lo que quiere...
Cuando, de pronto, yo lo miro,
se para, y me contempla largamente,
con música divina, con ladrido amistoso, con fresco balbuceo...
Luego, se va apagando...
La luz divina y pura
es color otra vez, y solo, y mío.
Y lo que siento oscuro
es mi alma, igual que
si se hubiera quedado nuevamente
sin su valle y su cielo -¡Andalucía!-,
sin su infancia y su amor...
Bernie Olivares Jun 2018
Arisen the figure took her breath
but no longer the figure she could behold

Evil brainwork is at hand
her eyes on a stand

She knows why
but dares not penetrate

It is not hard to understand
as it is to uphold

Perplexion of her thought comes
from her incertitude

away from

Sunrise and morning dew
make it crisp to rubber boot

La estancia no esta lejos
and the figure isn't either

She tries to anchor
but it's too late
the ship has sailed and her horse knows

Something sinister in the horizon tempted
for a walk. Looking downhill she thought.
Walking upright she went.

A gazed voice asked
for her direction that to which she replied
a dirt path

Somehow she was taken in foreign dirt.

Word she was lorn.
Word she was torn.
Word she had left God.
Argentina 1935
Dijo sus secretos el faisán de oro:
-En el gabinete mi blanco tesoro,
de sus claras risas el divino coro,las bellas figuras de los gobelinos,
los cristales llenos de aromados vinos,
las rosas francesas en los vasos chinos.(Las rosas francesas, porque fue allá en Francia
donde en el retiro de la dulce estancia
esas frescas rosas dieron su fragancia.)La cena esperaba. Quitadas las vendas,
iban mil amores de flechas tremendas
en aquella noche de Carnestolendas.La careta negra se quitó la niña,
y tras el preludio de una alegre riña
apuró mi boca vino de su viña.Vino de la viña de la boca loca,
que hace arder el beso, que el mordisco invoca.
¡Oh los blancos dientes de la loca boca!En su boca ardiente yo bebí los vinos,
y, pinzas rosadas, sus dedos divinos
me dieron las fresas y los langostinos.Yo la vestimenta de Pierrot tenía,
y aunque me alegraba y aunque me reía,
moraba en mi alma la melancolía.La carnavalesca noche luminosa
dio a mi triste espíritu la mujer hermosa,
sus ojos de fuego, sus labios de rosa.Y en el gabinete del café galante
ella se encontraba con su nuevo amante,
peregrino pálido de un país distante.Llegaban los ecos de vagos cantares
y se despedían de sus azahares
miles de purezas en los bulevares.Y cuando el champaña me cantó su canto,
por una ventana vi que un ***** manto
de nube, de Febo cubría el encanto.Y dije a la amada un día: -¿No viste
de pronto ponerse la noche tan triste?
¿Acaso la Reina de luz ya no existe?Ella me miraba. Y el faisán cubierto
de plumas de oro: -«¡Pierrot, ten por cierto
que tu fiel amada, que la Luna ha muerto!»
Dos carreteros en sus lentos carros,
En alta noche, solitarios velan;
y al son de cascabeles y guijarros,
En canto alterno su dolor consuelan.

Baja la luna y tiñe de amarillo
Los campos y el azul del hondo espacio;
y en una casa de cristal, el brillo
lejos se ve de un fúlgido topacio.

Baja la luna, y duerme el amor mío,
y velo y rondo el sueño de mi amada;
y de cansancio trémulo y de frío
Beso en vano el umbral de su morada.

Un pie de rosa floreció en su huerto
En risueña mañana del estío.
Tal vez conmigo soñará, cubierto
De gotas temblorosas de rocío.

En vano rondo, y mi esperanza es vana,
Que mía no será su padre jura.
y alta la frente miro a su ventana,
Con el cuchillo pronto en la cintura.

Yo quiero trasplantar el pie de rosa
y que florezca en medio de mi estancia,
y que corra mi vida silenciosa
A solas aspirando su fragancia.

Filo tiene el cuchillo y grita: «¡Mata!»
y sonríe al amago de la muerte.
En vano velo el sueño de la ingrata
Que con otro tal vez burla mi suerte.

Mas, ¿qué miro? ¿No ves? Baja del cielo
una nube de lirios luminosa
que envuelven a una rosa en blanco velo;
y el corazón me dice: «¡Esa es tu esposa!»

Más que la vida en la prisión, sonroja
La vida entre la lluvia y el sereno.
Un blanco seno luce cinta roja...
Sangre habrá de correr de un blanco seno.

Esposa, voy a ti; cansado llego...
¡Que mi ensueño en tus ojos se extasíe!
Yate miro rendida ante mi ruego:
Abre tus brazos y a mi amor sonríe.

Di: ¿cuántas veces a traición me heriste?
¿Cuántas veces burlaste mi esperanza?
Ya en la existencia tu misión cumpliste...
La sangre corre... ¡Mira! ¡Es mi venganza!

«¡Durmamos!... Olvidemos las canciones,
Cuchillo, sangre, rosas, y falsía...
Durmamos olvidados de traiciones
Hasta que venga y nos despierte el día».

Callaron, y los carros prosiguieron,
y hasta que el cielo se tiñó en fulgores
Sueño profundo, sin soñar, durmieron...
Cantaron por cantar, cual ruiseñores.
Vaquillona con cuero y un vinillo,
de Mendoza, notable.

-¡A la criolla, amigo! el dueño de la estancia.
-¡A la criolla, Señor! la esposa, en sus percales.
-¡A la criolla, Don! un peón malicioso.
Un amigo: -¡A la criolla, che Fernández!

Blando en la diestra una costilla pingüe,
larga y curvada como un viejo sable.
La noche es fría. El cielo más y más se ennegrece.
Llovizna. El viento airado la floresta estremece.

Del cazador furtivo la casa está cerrada.
El padre, sus dos hijos y un perro, a la hondonada
Han ido a cacería, y están allá en acecho.
Duerme el niño en la cuna junto al humilde lecho
Donde tranquilamente duerme también la abuela,
Y, nívea lana hilando, la hermosa niña vela.

Lamparilla de aceite, de fulgor vacilante,
Hace en el claro-oscuro resaltar su semblante
Sonrosado, que el brillo de los ojos alegra,
Y el oro del cabello que ata una cinta negra.

De hilar deja de pronto... ¿Qué sensación la agita?
¿Será  temor acaso? ¿Será acaso una cita?...

La puerta que da al campo se abre pausadamente,
Y, apuesto y rubio, un joven penetra de repente
Le tiende ella los brazos y le dice al oído:
«Podría la abuelita despertar... No hagas ruido».

En silencio se sientan, y parece el murmullo
Vago de sus palabras, como si fuera arrullo.

«¡Amor!», ella le dice, mientras le enjuga amante
Las gotas de la lluvia que cúbrenle el semblante.
-«¡Te amaré siempre!» Y ella responde conmovida:
-«Para amarte es mi alma, para amarte es mi vida».
 Luego exclama:
                                  «Qué triste que seas tú, bien mío,
 Hijo del guarda-bosque. ¿Por qué muro sombrío
Separa nuestras almas y nuestra dicha trunca?
¡Te amaré mientras viva, mas ser tu esposa, nunca!
Si esta pasión mi padre sospechara algún día,
Si mi amor descubriera, de dolor moriría».
El la interrumpe:
                        «¡Calla, calla, no digas eso!»
Y los azules ojos le cierra con un beso.

Las horas raudas vuelan en la tranquila estancia...

De pronto se oye el canto de un gallo a la distancia;
Otro gallo contesta, y el cielo se colora
Con los albores trémulos de la naciente aurora.

Parte el enamorado y al bosque se encamina.
El campo está cubierto por húmeda neblina;
Y al hogar, fatigados y ateridos de frío,
Los cazadores vuelven con el morral vacío.
Ven moverse las hojas del matorral. Se paran,
Y al matorral apuntan, y todos tres disparan...
«No perdimos la noche», dicen con alegría,
Y todos tres exclaman: «¡Qué buena cacería!»

Salta el perro; entre arbustos al matorral se lanza,
Y cuando llega, aúlla. Rápido el padre avanza
Seguido de sus hijos... y sobre el suelo mira
Al pobre hijo del guarda que entre su sangre expira.

— The End —