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Diego Scarca Dec 2010
Nevica a Parigi
sugli alberi di carta,
sugli addobbi di Natale sgonfi,
sui bambini di plastica
e sui castelli di latta.

Nevica a Parigi una neve fiacca
che s’incolla ai cappotti della gente
che si trascina per strada
con aria distratta.

Nevica nei caffè,
attraverso i vetri,
sui boulevards deserti
e sui nostri sguardi tetri.

Si colorano di bianco
la cupola dell’albergo di lusso,
il tettuccio dell’edicola senza giornali,
il carretto delle castagne arrosto,
il marciapiede su cui scivola una dama
e cerca un cantuccio il barbone.

Nevica a Parigi, senza ragione,
sulle donne e sugli uomini.



Nevica nei grandi magazzini,
nelle chiese vuote
e nelle nostre stanze.
Sulle autostrade inondate di fango
che corrono sopra la città,
sulle scarpate coperte d’immondizia
e sulle nostre frasi lasciate a metà.

Nevica a Parigi sulla terra
del parco in cui non attecchirà
più l’erba, sulla nostra visione
acerba delle cose.
Nevica a Parigi come per illusione.



Nevica perché non ha
nessun senso che nevichi,
perché siamo in inverno
ma non è detto che torni
il bel tempo.

Nevica sul cemento
di chi ha avuto il coraggio
di costruire i grattacieli per i grandi
e le cabine di comando
per gli uomini d’affari
dagli occhi stanchi.



Nevica sui ghetti e sulle città satelliti,
sulle lampade al neon
dei luna park abbandonati.
Nevica, in televisione e al cinema,
per i negri, i bianchi,
le persone sole e gli alcolizzati.

Nevica e le cose si perdono
in un pulviscolo.
Da un vicolo sbuca
un autobus senza autista,
da un altro una carrozza
trainata da elefanti.
In un carosello di fiocchi di neve
impazziscono le immagini.

Nevica a Parigi sui camposanti.



Nevica nei bordelli e nelle bettole,
nei salotti alla moda,
nei negozi degli antiquari
e nei quadri che i pittori
non hanno fatto a tempo
a terminare…

Nevica sugli operai stanchi
di non lavorare,
sulle matrone che si abbandonano
alle braccia dei drogati.
Nevica sugli ospedali e sugli ammalati.



Nevica sugli aeroplani e sulla notte,
sulle navi e sul vento,
sull’eco delle stragi,
sul pianto dei feriti
e sul rantolo dei moribondi.

Nevica a Parigi
sul tempo che finisce
in un’esplosione di secondi.



Nevica sulla neve
e nevicherà ancora.
E’ una neve che a tratti ci sferza
e a tratti ci ignora.
E’ una neve che spazza via tutto,
una neve spietata.
Perché a Parigi da oggi nevica
nella nostra mente annebbiata.
Diego Scarca, Architetture del vuoto, Torino, Edizioni Angolo Manzoni, 2007
I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l'ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.
È il segno d'un'altra orbita: tu seguilo.
Discendi all'orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d'essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t'inciampi
il viluppo dell'alghe: quell'istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d'una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d'immobilità...
Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch'è prossima: se il fulmine la incide
dirama come un albero prezioso
entro la luce che s'arrosa: e il timpano
degli tzigani è il rombo silenzioso
Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva, -
e fuori, dove un'ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l'acetilene -
finché goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che t'abbevera,
tutto d'accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un fruscio immenso rade
la terra, giù s'afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.
Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell'onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell'ora che si scioglie, il cenno d'una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.
MI alzo con le palpebre infuocate.
La fanciullezza smorta nella barba
cresciuta nel sonno, nella carne smagrita,
si fissa con la luce fusa nei miei occhi riarsi.
Finisco così nel buio incendio
di una giovinezza frastornata dall'eternità;
così mi brucio, è inutile
- pensando - essere altrimenti,
imporre limiti al disordine: mi trascina
sempre più frusto, con un viso secco
nella sua infanzia, verso un quieto e folle
ordine, il peso del mio giorno perso
in mute ore di gaiezza, in muti
istanti di terrore...
Dante Rocío Jul 2020
Ci riscaldato
Lo Sguardo,
Un buco trascina con pensieri
bellamente da eleganza pervertiti,
La pioggia mi propria caldaia
Che ne faccio far‘ di sé,
Che ne faccio star’ da me.

Scelgo di ballare senza corpo
Ma fare i passi scuri in negazione,
Osservazione, vero mascalzone
Altrimenti: note di silenzio fragorose.
Momento il piano,
Battimenti di cuore per i piedi.
Bolle ermetiche per fiato.

Menestrello d’Utopie starò,
In piedi come Ellissi rimerò
E vedrò come la fine verrà
Per lacrime brucianti dalla
Nullità di nuvole.

Scelgo di splendere negli
occhi di metà coperchio
E che si fa del loro febbrile?
Si suda dallo affascinante,
Si apre il petto per sentire
come caldo sta il muscolo cardiaco
E si fa amore colle sue battaglie,
Nello scuro del Giorno,
come vuoi,
O lucidità della Notte.

Non si dice ragione.
Nella piuma c’è rumore.
A trial in scarlet darkness of
music sonorous in mind,
Trying to capture my vivid beat in melody,
While dancing glory in pencil gold hair
In the pit of thoughts in Me.
In lush green of cigarette Italian book-like.

Prima, Prova.
First, Trial/
Earlier, Try.
Si pasce di se il fiume, bruca
serpeggiando
le sue
quasi essiccate sgorature,
visita
le sue
quasi aride pozzanghere,
si trascina ai suoi già putridi ristagni
finche, poco più oltre
un poco lo confortano
misteriosi trasudamenti,
lo irrorano frescure,
umori, vene
dal più profondo
del suo cuore sotterraneo
ed eccolo
rinasce esso dalle secche,
ora, si lascia dietro la sassaia
della sua quasi estinzione
per il suo nuovo cammino -
si muove verso se stesso il fiume,
si sposta dentro il suo cangiante bruco
ed entra, fiume nuovo
uscito dalle sue ceneri
nei luoghi dove opera
la primavera e non c'è
fiore né gemma, non c'è ancora
ma c'è quella radiosa incandescenza
di luce e opacità nel bianco dell'aria,
c'è, ed ecco si diffonde, quella trepidante animula
e quel chiaro sopra la linea degli alberi,
quel già più festoso scintillamento delle acque.
C'è tutto "quello". E c'è
lui fiume,
ne vibra intimamente
il senso. C'è questo, c'è prodigiosamente.
Bello.
Non ** idea del perché.
Ma è bello questo paesaggio.

Grazie, cittadella in riposo.
Grazie, cielo puro e ammaliante.
Grazie, finestra cara,
che mi hai dato la possibilità
di vedere questo invisibile spettacolo.

Case semplici, piante non molto alte, alcune secche,
come in una terra all’industria
del necessario e il minimo per il buono.

Luce di lampioni
che illumina disordinata le strade,
come se il panico diurno fosse
congelato nel tempo dalla luce.
Eppure, anche nella pace,
l’uomo lo trascina con sé.

Tralicci che tagliano un cielo
senza nuvole e senza stelle,
non degno di essere amato dagli urbani,
che cercano solo il bello canonico,
antico, sterile.

Ma fortemente illuminato dalle città, il cielo,
che lo uccidono per convenienza.
E noi, sordi,
nemmeno ne udiamo il grido.

E poi, laggiù in fondo,
oltre l’autostrada,
altri grandi lampioni.
Pagane colonne d’Ercole,
Ignorate per voler del nostro
antropocentrismo,
lasciate a sbiadire
sul fondale.

Tutto nel silenzio di un istante
che non si apprezza più,
perché è memoria lontana
il tempo da perdere.


Non è nulla di che, a pensarci.
Eppure mi affascina.
La prima volta che, forse,
e dico solo forse,
trovo la magia nell’ordinario.

Forse ora capisco i grandi scrittori.
Forse la capirò meglio anch’io,
se davvero c’è magia.

Comunque,
so solo che questa visione è ferma,
vuota, angosciante per certi versi,
disperata,
morta.

Mi fa paura.

Ma, nonostante ciò,
mi fa stare bene.
E ne sono grato.

Grazie, cittaccia assassina.
Grazie, falso cielo ormai defunto.
Grazie, finestra svelatrice,
che mi hai permesso di vedere
questo melodrammatico spettacolo.

///

Beautiful.
I have no idea why.
But this landscape is beautiful.

Thank you, citadel in repose.
Thank you, pure and enchanting sky.
Thank you, dear window,
that you gave me the chance
to see this invisible spectacle.

Simple houses, plants not very tall, some dry,
as in a land of industry
of the necessary and the minimum for the good.

Light of street lamps
that illuminates the streets in a disorderly way,
as if the daytime panic was
frozen in time by the light.
And yet, even in peace,
man drags it with him.

Pylons that cut a sky
without clouds and without stars,
not worthy of being loved by urbanites,
who seek only the canonical beauty,
ancient, sterile.

But strongly illuminated by cities, the sky,
that **** it for convenience.
And we, deaf,
do not even hear its cry.

And then, down there,
beyond the highway,
other large streetlights.
Pagan Pillars of Hercules,
Ignored by the will of our
anthropocentrism,
left to fade
on the seabed.

All in the silence of a moment
that is no longer appreciated,
because it is a distant memory
the time to waste.

It is nothing special, if you think about it.
And yet it fascinates me.
The first time that, perhaps,
and I say only perhaps,
I find magic in the ordinary.

Perhaps now I understand the great writers.
Perhaps I will understand it better too,
if there really is magic.

In any case,
I only know that this vision is still,
empty, distressing in some ways,
desperate,
dead.

It scares me.

But, despite this,
it makes me feel good.
And I am grateful for it.

Thank you, murderous city.
Thank you, false sky now defunct.
Thank you, revealing window,
that allowed me to see
this melodramatic spectacle.
When the view talks
I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l'ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.
È il segno d'un'altra orbita: tu seguilo.
Discendi all'orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d'essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t'inciampi
il viluppo dell'alghe: quell'istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d'una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d'immobilità...
Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch'è prossima: se il fulmine la incide
dirama come un albero prezioso
entro la luce che s'arrosa: e il timpano
degli tzigani è il rombo silenzioso
Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva, -
e fuori, dove un'ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l'acetilene -
finché goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che t'abbevera,
tutto d'accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un fruscio immenso rade
la terra, giù s'afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.
Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell'onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell'ora che si scioglie, il cenno d'una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.
Si pasce di se il fiume, bruca
serpeggiando
le sue
quasi essiccate sgorature,
visita
le sue
quasi aride pozzanghere,
si trascina ai suoi già putridi ristagni
finche, poco più oltre
un poco lo confortano
misteriosi trasudamenti,
lo irrorano frescure,
umori, vene
dal più profondo
del suo cuore sotterraneo
ed eccolo
rinasce esso dalle secche,
ora, si lascia dietro la sassaia
della sua quasi estinzione
per il suo nuovo cammino -
si muove verso se stesso il fiume,
si sposta dentro il suo cangiante bruco
ed entra, fiume nuovo
uscito dalle sue ceneri
nei luoghi dove opera
la primavera e non c'è
fiore né gemma, non c'è ancora
ma c'è quella radiosa incandescenza
di luce e opacità nel bianco dell'aria,
c'è, ed ecco si diffonde, quella trepidante animula
e quel chiaro sopra la linea degli alberi,
quel già più festoso scintillamento delle acque.
C'è tutto "quello". E c'è
lui fiume,
ne vibra intimamente
il senso. C'è questo, c'è prodigiosamente.
Si pasce di se il fiume, bruca
serpeggiando
le sue
quasi essiccate sgorature,
visita
le sue
quasi aride pozzanghere,
si trascina ai suoi già putridi ristagni
finche, poco più oltre
un poco lo confortano
misteriosi trasudamenti,
lo irrorano frescure,
umori, vene
dal più profondo
del suo cuore sotterraneo
ed eccolo
rinasce esso dalle secche,
ora, si lascia dietro la sassaia
della sua quasi estinzione
per il suo nuovo cammino -
si muove verso se stesso il fiume,
si sposta dentro il suo cangiante bruco
ed entra, fiume nuovo
uscito dalle sue ceneri
nei luoghi dove opera
la primavera e non c'è
fiore né gemma, non c'è ancora
ma c'è quella radiosa incandescenza
di luce e opacità nel bianco dell'aria,
c'è, ed ecco si diffonde, quella trepidante animula
e quel chiaro sopra la linea degli alberi,
quel già più festoso scintillamento delle acque.
C'è tutto "quello". E c'è
lui fiume,
ne vibra intimamente
il senso. C'è questo, c'è prodigiosamente.
I turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra, fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l'ore
uguali, strette in trama, un ritornello
di castagnette.
È il segno d'un'altra orbita: tu seguilo.
Discendi all'orizzonte che sovrasta
una tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d'essi vagabonda: salso nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t'inciampi
il viluppo dell'alghe: quell'istante
è forse, molto atteso, che ti scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d'una
catena, immoto andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d'immobilità...
Ascolta tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo azzurro e lunge par la sera
ch'è prossima: se il fulmine la incide
dirama come un albero prezioso
entro la luce che s'arrosa: e il timpano
degli tzigani è il rombo silenzioso
Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva, -
e fuori, dove un'ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi palpita
l'acetilene -
finché goccia trepido
il cielo, fuma il suolo che t'abbevera,
tutto d'accanto ti sciaborda, sbattono
le tende molli, un fruscio immenso rade
la terra, giù s'afflosciano stridendo
le lanterne di carta sulle strade.
Così sperso tra i vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti ringhiotte
dell'onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora, una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell'ora che si scioglie, il cenno d'una
vita strozzata per te sorta, e il vento
la porta con la cenere degli astri.
MI alzo con le palpebre infuocate.
La fanciullezza smorta nella barba
cresciuta nel sonno, nella carne smagrita,
si fissa con la luce fusa nei miei occhi riarsi.
Finisco così nel buio incendio
di una giovinezza frastornata dall'eternità;
così mi brucio, è inutile
- pensando - essere altrimenti,
imporre limiti al disordine: mi trascina
sempre più frusto, con un viso secco
nella sua infanzia, verso un quieto e folle
ordine, il peso del mio giorno perso
in mute ore di gaiezza, in muti
istanti di terrore...
MI alzo con le palpebre infuocate.
La fanciullezza smorta nella barba
cresciuta nel sonno, nella carne smagrita,
si fissa con la luce fusa nei miei occhi riarsi.
Finisco così nel buio incendio
di una giovinezza frastornata dall'eternità;
così mi brucio, è inutile
- pensando - essere altrimenti,
imporre limiti al disordine: mi trascina
sempre più frusto, con un viso secco
nella sua infanzia, verso un quieto e folle
ordine, il peso del mio giorno perso
in mute ore di gaiezza, in muti
istanti di terrore...

— The End —