Submit your work, meet writers and drop the ads. Become a member
Torna a decir, Morena, cuanto decías.
Como yo soy la noche, ábre los ojos.
Cierra los ojos, ciérralos, porque yo soy el día.

Torna a decir, Morena, tu canción.
Como te amo, dáme a aspirar el humo de tu pensamiento.
Si no te amase, ya me darías tu corazón.

Torna a decir, Morena, tu luz y tu mentira.
Como yo no te creo, será una bella historia.
Si te creyese, serías tú, serías sólo tú misma. 1

Torna a decir, Morena, tu dolor único.
Si eres ajena, dáme tus labios secos.
Si fueras mía yo te hurtaría los labios húmedos. 2

Torna a decir, Morena, tu dolor.
Si eres ajena, dame tus labios, dame;
Si fueras mía te daría mi compasión. 3

Torna a decir, Morena, torna, torna a decir.
Como yo soy Gautama, da lo mismo.
Lo mismo da: soy Harún-el-Rashid.

Lo mismo da, mi Negra Sheherazada,
mi Dinarzada Oscura: da lo mismo.
Pero dame, dame tu boca para besarla.

Torna a decir, morena, tu rapsodia.
Como yo soy la noche, abre tus ojos.
Mas soy el día: préstame tu boca.

Abre tus ojos para ver la noche,
si no me amas. Como sí me amas,
abre tus ojos... para ver la noche!

Danza, Morena. Danza, mi Tanagra,
mi Figulina: el sobrio cuerpo ondula:
tras de tus siete velos recatada,
si eres ajena, te veré desnuda...
Mas si eres mía, oh Mía, danza sin velos, danza:
Gautama soy, Gautama, el propio Budha!
Victor Marques Nov 2017
Nasce e torna sempre a nascer….

Os dia passam e as folhas se desprendem dos ramos,
Os passarinhos chilreiam sejam grandes ou pequenos,
Os ninhos são suas casas bem adornadas,
Nasce e vive de mãos dadas…

Nasce e torna te sempre criança,
Vive no eterno amor e com esperança,
A mãe natureza sempre tudo respeita,
O horizonte nasce onde ela se deita…

Sempre a nascer com alegria desmesurada,
Olha para a vida bem ou mal amada,
Nasce para a nova madrugada que tu crias,
Sente com sentido as tristezas e alegrias….

Os ventos que parecem não nascer, nem existir,
Eles batem em que os quer ouvir…
Nasce tu como eu para amar sem contrapartida,
Nasce para o mundo, para a vida….

Victor Marques
nasce,natureza,vida
Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l'aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! Allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l'aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre dè servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.
Né mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sé, ma perché tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol dè malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch'** appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l'allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell'arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M'era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! Sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m'avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell'imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d'affanno.
E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
Dè miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai cò silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia! ) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
O Nerina! E di te forse non odo
Questi luoghi parlar? Caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond'eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
Se la ruota si impiglia nel groviglio
delle stesse filanti ed il cavallo
s'impenna tra la calca, se ti nevica
fra i capelli e le mani un lungo brivido
d'iridi trascorrenti o alzano i bambini
le flebili ocarine che salutano
il tuo viaggio e i lievi echi si sfaldano
giù dal ponte sul fiume
se si sfolla la strada e ti conduce
in un mondo soffiato entro una tremula
bolla d'aria e di luce dove il sole
saluta la tua grazia-hai ritrovato
forse la strada che tentò un istante
il piombo fuso a mezzanotte quando
finì l'anno tranquillo senza spari.

Ed ora vuoi sostare dove un filtro
fa spogli i suoni
e ne deriva i sorridenti ed acri
fumi che ti compongono il domani;
ora chiedi il paese dove gli onagri
mordano quadri di zucchero dalle tue mani
e i tozzi alberi spuntino germogli
miracolosi al becco dei pavoni.

(Oh, il tuo carnevale sarà più triste
stanotte anche del mio, chiusa fra i doni
tu per gli assenti: carri dalle tinte
di rosolio, fantocci ed archibugi,
palle di gomma, arnesi da cucina
lillipuziani: l'urna li segnava
a ognuno dei lontani amici l'ora
che il gennaio si schiuse e nel silenzio
si compì il sortilegio. È carnevale
o il dicembre s'indugia ancora? Penso
che se muovi la lancetta al piccolo
orologio che rechi al polso, tutto
arretrerà dentro un disfatto prisma
babelico di forme e di colori... )

E il natale verrà e il giorno dell'anno
che sfolla le caserme e ti riporta
gli amici spersi e questo carnevale
pur esso tornerà che ora ci sfugge
tra i muri che si fendono già. Chiedi
tu di fermare il tempo sul paese
che attorno si dilata? Le grandi ali
screziate ti sfiorano, le logge
sospingono all'aperto esili bambole
bionde, vive, le pale dei mulini
rotano fisse sulle pozze garrule.
Chiedi di trattenere le campane
d'argento sopra il borgo e il suono rauco
delle colombe? Chiedi tu i mattini
trepidi delle tue prode lontane?

Come tutto si fa strano e difficile
come tutto è impossibile, tu dici.
La tua vita è quaggiù dove rimbombano
le ruote dei carriaggi senza posa
e nulla torna se non forse
in questi disguidi del possibile.
Ritorna là fra i morti balocchi
ove è negato pur morire; e col tempo che ti batte
al polso e all'esistenza ti ridona,
tra le mura pesanti che non s'aprono
al gorgo degli umani affaticato,
torna alla via dove con te intristisco
quella che mi additò un piombo raggelato
alle mie, alle tue sere:
torna alle primavere che non fioriscono.
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Marco Raimondi Jun 2017
Narrador:
O sol, fadando aos seus desmaios,
Em falta de luz aureolava
A face natura com seus distantes raios;
A areia qual aos clarões brilhava,
Neste sol d'agora dorme junto às figueiras
Às terras, aos vales, às distantes matas altaneiras

Gaia, que nas folhas de carvalho
Rompe a escuridão do céu vultuoso
E jorra em seu corpo as águas d'orvalho
Cobre-se, nas horas, d'um véu moroso;
Quando olham ao zênite, estrelas podem ver
Como áureo tesouro a na escuridão se irromper

Por este turvo azul sidéreo,
Entre as florestas tem-se o canto,
E dos troncos retorcidos, um mistério
Cuja noite predomina em seu encanto,
Cobrindo as nuvens do olhar,
Com seu etéreo resplendor lunar

Divagam as almas que dormem
E divagam as que repousam, sob o sentir de fantasia
As mais atormentadas, que de sonhos envolvem,
Veem nos vastos pesadelos dores de uma visão sombria;
Se em prantos, quando dormem, não podem culminar
Vezes quebram, em gritos e desatino, um longo calar

Destes prantos, cujas lágrimas caem nas profundezas
Ressoam em uma perdição do infinito
Entoando pérolas e cânticos desta proeza
Que é constituir, no espírito, o próprio mito;
Tudo não mais cintila, Gaia se cobre,
Os olhos da matéria se fecham após tanto obre

Enfim, fez-se da natureza uma realidade escrava
Na qual os dias, tão somente o tempo envenena
Mas Gaia, quando os serenos campos lava
A realidade, a mudança é ela quem condena,
À miséria dos povos, as glórias, a graça
Tudo é ao tempo, que a natureza trespassa

O lar dos sentires se silencia sob aurora
Todos desprezos, amores e outros enganos
Agrados, estupores, inclemências de outrora
Contiguamente extinguem-se, ao eclipsar dos raios meridianos
O som enleia as serranias noturnas
Sussurrando longínqua a madrugada soturna

É a glória do Destino! Ânsia abissal e dolorida,
Aprisionando a natureza em seu prazer de ilusão
Subitamente, em brumas, um estirpe que é vida
Das lembranças renovadas, canções d'uma visão
Logo o sol nascerá em amplitude
E clarear-se-á o dia em suas virtudes

Idália, a vaguear nos cúmulos imaginários
Vê as estrelas em umedecidos rochedos
A ecoarem devaneios visionários
As névoas quais, do delírio, são divinos segredos,
Empíreo enigma, perpetua-se em infinita imensidade,
Que há de trovejar os pensamentos na obscura eternidade
Torna amore
vela delicata e libera
che occupi
il pensiero della mia terra

sto morendo sulla grandiosità di un fiume
che è rosso di desiderio
e vorrebbe
travolgere il tuo amore.
Nis Jun 2018
Busco amor donde no lo hay.
Busco arte donde sólo hay mierda.
En busca de la belleza me encuentro.
En pos de mi  sino me hallo.
Mal acompañada voy en este viaje.
Mal acompañada voy en la vida.
Cuatro amigos mal contados que se alejan.
Y tú que podrías estar tan cerca
pero estás tan lejos, tan lejos.
Lejos de mi camino se halla tu montaña
y mi pack de escalada se torna inútil.
Quisiera conocerte como no lo hago.
Quisiera que me conocieses como no lo haces.
Y mi pack de escalada se torna de piedra
y pesa, pesa, pesa...
Pesada mi alma por armas inútiles.
Cercenado mi corazón por mi propia mano.
Mi alma pesada por mi corazón cercenado.
Mi mente dolorida por mi estupidez humana.
Me siento inútil.
Inútil porque no se vivir sin tí y no te conozco
y ojalá conocerte.
Inútil porque lo que conozco se torna de oro
y el oro pesa, pesa, pesa...

Ni siquiera sé a quien va dedicado este poema.
Tal vez este poema vaya dedicado a mí.
Porque no me conozco.
Porque no me entiendo.
Porque no valgo para nada.
Mi cuerpo es inútil y es otro peso muerto
que pesa, pesa, pesa...
Mi cuerpo que odio con todas mis fuerzas.
Me gustaría otra vida,
me gustaría empezar de cero,
ser mujer desde el principio,
saber quién soy y saber qué quiero
pero nunca sabré qué soy
pero nunca sabré a quién quiero.
Voy a rajarme las venas esta noche.
Voy a hacerlo porque me pesa el alma
y atraviesa la cama y llega al suelo.
Estoy tirada en el suelo.
No se si voy a morir
pero mi sangre manchará el baño
y tal vez mi cabeza volverá a ser ligera,
como ligero vuela el boli sobre la página.

Tengo fijación por algunas palabras,
por algunas letras,
efe, efe, efe.
No me quiero pero quiero a las efes,
pero no sé a quién quiero,
pero no sé a quién va dirigido este poema,
pero creo que no me quiero pero...
Cierro los ojos y se me nubla la vista.
Quiero morir.
Otra vez...quiero morir.
Quiero morir otra vez.
Me asumo Jesús insatisfecho por su resucitar.
Me asumo Cronos en el abismo infernal,
llorando por no estar muerto
pese a estar muriendo.
Lloro por no estar muerta
pese a estar muriendo.
Digo que lloro pero no lloro.
No lloro porque no me quiero.
No me importa mi propia muerte.
No me importa que no me quieras
porque estoy muerta.
Me gustaría escribir como sangro.
Me gustaría escribir como mi vida se resbala
porque no la quiero.
Porque no me quiero.
Apuf, poema que escribí estando bastante depre, como se puede ver, pero tranquilos que sigo dando la vara por aquí.
Not gonna translate this one for now because I'm already feeling more depressed just for typing it, I don't wanna feel ever worse for translating it
Colhi a alma de tudo quanto toquei
e em tudo quanto olhei larguei parte da minha
o que me torna, hoje, aquilo que sou,
o que me constrói e constitui
são os outros e não eu.

Os outros: as flores banhadas de orvalho,
as árvores vestidas ou nuas,
as paisagens das cidades que amei
mais do que as pessoas com que as corri,
as pessoas que amei e as que toquei apenas
e aquelas que nem a tocar cheguei.

Não sou já gente, se é que fui gente vez alguma!
Será esta alma que trago maior que a minha?
Serei eu, tão cheia de natureza, mais ou menos natural?

Mas serei eu a alma que carrego sem que seja a minha,
o conjunto de seres racionais por dentro de mim
que me controlam o pensamento e, por vezes, o sentir
ou o ser único e puro que sente de forma única e pura?

Serei eu a união de tudo isso,
do que me resta de mim, de quantas versões tenha de mim,
e o que trago dos outros? Serei eu
algo ou alguém sequer?
Importa definir o ser?
Recuerde el alma dormida,
avive el seso e despierte
  contemplando
cómo se passa la vida,
cómo se viene la muerte
  tan callando;
  cuán presto se va el plazer,
cómo, después de acordado,
  da dolor;
cómo, a nuestro parescer,
cualquiere tiempo passado
  fue mejor.

  Pues si vemos lo presente
cómo en un punto s'es ido
  e acabado,
si juzgamos sabiamente,
daremos lo non venido
  por passado.
  Non se engañe nadi, no,
pensando que ha de durar
  lo que espera
más que duró lo que vio,
pues que todo ha de passar
  por tal manera.

  Nuestras vidas son los ríos
que van a dar en la mar,
  qu'es el morir;
allí van los señoríos
derechos a se acabar
  e consumir;
  allí los ríos caudales,
allí los otros medianos
  e más chicos,
allegados, son iguales
los que viven por sus manos
  e los ricos.

  Dexo las invocaciones
de los famosos poetas
  y oradores;
non curo de sus ficciones,
que traen yerbas secretas
  sus sabores.
  Aquél sólo m'encomiendo,
Aquél sólo invoco yo
  de verdad,
que en este mundo viviendo,
el mundo non conoció
  su deidad.

  Este mundo es el camino
para el otro, qu'es morada
  sin pesar;
mas cumple tener buen tino
para andar esta jornada
  sin errar.
  Partimos cuando nascemos,
andamos mientra vivimos,
  e llegamos
al tiempo que feneçemos;
assí que cuando morimos,
  descansamos.

  Este mundo bueno fue
si bien usásemos dél
  como debemos,
porque, segund nuestra fe,
es para ganar aquél
  que atendemos.
  Aun aquel fijo de Dios
para sobirnos al cielo
  descendió
a nescer acá entre nos,
y a vivir en este suelo
  do murió.

  Si fuesse en nuestro poder
hazer la cara hermosa
  corporal,
como podemos hazer
el alma tan glorïosa
  angelical,
  ¡qué diligencia tan viva
toviéramos toda hora
  e tan presta,
en componer la cativa,
dexándonos la señora
  descompuesta!

  Ved de cuán poco valor
son las cosas tras que andamos
  y corremos,
que, en este mundo traidor,
aun primero que muramos
  las perdemos.
  Dellas deshaze la edad,
dellas casos desastrados
  que acaeçen,
dellas, por su calidad,
en los más altos estados
  desfallescen.

  Dezidme: La hermosura,
la gentil frescura y tez
  de la cara,
la color e la blancura,
cuando viene la vejez,
  ¿cuál se para?
  Las mañas e ligereza
e la fuerça corporal
  de juventud,
todo se torna graveza
cuando llega el arrabal
  de senectud.

  Pues la sangre de los godos,
y el linaje e la nobleza
  tan crescida,
¡por cuántas vías e modos
se pierde su grand alteza
  en esta vida!
  Unos, por poco valer,
por cuán baxos e abatidos
  que los tienen;
otros que, por non tener,
con oficios non debidos
  se mantienen.

  Los estados e riqueza,
que nos dexen a deshora
  ¿quién lo duda?,
non les pidamos firmeza.
pues que son d'una señora;
  que se muda,
  que bienes son de Fortuna
que revuelven con su rueda
  presurosa,
la cual non puede ser una
ni estar estable ni queda
  en una cosa.

  Pero digo c'acompañen
e lleguen fasta la fuessa
  con su dueño:
por esso non nos engañen,
pues se va la vida apriessa
  como sueño,
e los deleites d'acá
son, en que nos deleitamos,
  temporales,
e los tormentos d'allá,
que por ellos esperamos,
  eternales.

  Los plazeres e dulçores
desta vida trabajada
  que tenemos,
non son sino corredores,
e la muerte, la çelada
  en que caemos.
  Non mirando a nuestro daño,
corremos a rienda suelta
  sin parar;
desque vemos el engaño
y queremos dar la vuelta
  no hay lugar.

  Esos reyes poderosos
que vemos por escripturas
  ya passadas
con casos tristes, llorosos,
fueron sus buenas venturas
  trastornadas;
  assí, que no hay cosa fuerte,
que a papas y emperadores
  e perlados,
assí los trata la muerte
como a los pobres pastores
  de ganados.

  Dexemos a los troyanos,
que sus males non los vimos,
  ni sus glorias;
dexemos a los romanos,
aunque oímos e leímos
  sus hestorias;
  non curemos de saber
lo d'aquel siglo passado
  qué fue d'ello;
vengamos a lo d'ayer,
que también es olvidado
  como aquello.

  ¿Qué se hizo el rey don Joan?
Los infantes d'Aragón
  ¿qué se hizieron?
¿Qué fue de tanto galán,
qué de tanta invinción
  como truxeron?
  ¿Fueron sino devaneos,
qué fueron sino verduras
  de las eras,
las justas e los torneos,
paramentos, bordaduras
  e çimeras?

  ¿Qué se hizieron las damas,
sus tocados e vestidos,
  sus olores?
¿Qué se hizieron las llamas
de los fuegos encendidos
  d'amadores?
  ¿Qué se hizo aquel trovar,
las músicas acordadas
  que tañían?
¿Qué se hizo aquel dançar,
aquellas ropas chapadas
  que traían?

  Pues el otro, su heredero
don Anrique, ¡qué poderes
  alcançaba!
¡Cuánd blando, cuánd halaguero
el mundo con sus plazeres
  se le daba!
  Mas verás cuánd enemigo,
cuánd contrario, cuánd cruel
  se le mostró;
habiéndole sido amigo,
¡cuánd poco duró con él
  lo que le dio!

  Las dávidas desmedidas,
los edeficios reales
  llenos d'oro,
las vaxillas tan fabridas
los enriques e reales
  del tesoro,
  los jaezes, los caballos
de sus gentes e atavíos
  tan sobrados
¿dónde iremos a buscallos?;
¿qué fueron sino rocíos
  de los prados?

  Pues su hermano el innocente
qu'en su vida sucesor
  se llamó
¡qué corte tan excellente
tuvo, e cuánto grand señor
  le siguió!
  Mas, como fuesse mortal,
metióle la Muerte luego
  en su fragua.
¡Oh jüicio divinal!,
cuando más ardía el fuego,
  echaste agua.

  Pues aquel grand Condestable,
maestre que conoscimos
  tan privado,
non cumple que dél se hable,
mas sólo como lo vimos
  degollado.
  Sus infinitos tesoros,
sus villas e sus lugares,
  su mandar,
¿qué le fueron sino lloros?,
¿qué fueron sino pesares
  al dexar?

  E los otros dos hermanos,
maestres tan prosperados
  como reyes,
c'a los grandes e medianos
truxieron tan sojuzgados
  a sus leyes;
  aquella prosperidad
qu'en tan alto fue subida
  y ensalzada,
¿qué fue sino claridad
que cuando más encendida
  fue amatada?

  Tantos duques excelentes,
tantos marqueses e condes
  e varones
como vimos tan potentes,
dí, Muerte, ¿dó los escondes,
  e traspones?
  E las sus claras hazañas
que hizieron en las guerras
  y en las pazes,
cuando tú, cruda, t'ensañas,
con tu fuerça, las atierras
  e desfazes.

  Las huestes inumerables,
los pendones, estandartes
  e banderas,
los castillos impugnables,
los muros e balüartes
  e barreras,
  la cava honda, chapada,
o cualquier otro reparo,
  ¿qué aprovecha?
Cuando tú vienes airada,
todo lo passas de claro
  con tu flecha.

  Aquel de buenos abrigo,
amado, por virtuoso,
  de la gente,
el maestre don Rodrigo
Manrique, tanto famoso
  e tan valiente;
sus hechos grandes e claros
non cumple que los alabe,
  pues los vieron;
ni los quiero hazer caros,
pues qu'el mundo todo sabe
  cuáles fueron.

  Amigo de sus amigos,
¡qué señor para criados
  e parientes!
¡Qué enemigo d'enemigos!
¡Qué maestro d'esforçados
  e valientes!
  ¡Qué seso para discretos!
¡Qué gracia para donosos!
  ¡Qué razón!
¡Qué benino a los sujetos!
¡A los bravos e dañosos,
  qué león!

  En ventura, Octavïano;
Julio César en vencer
  e batallar;
en la virtud, Africano;
Aníbal en el saber
  e trabajar;
  en la bondad, un Trajano;
Tito en liberalidad
  con alegría;
en su braço, Aureliano;
Marco Atilio en la verdad
  que prometía.

  Antoño Pío en clemencia;
Marco Aurelio en igualdad
  del semblante;
Adriano en la elocuencia;
Teodosio en humanidad
  e buen talante.
  Aurelio Alexandre fue
en desciplina e rigor
  de la guerra;
un Constantino en la fe,
Camilo en el grand amor
  de su tierra.

  Non dexó grandes tesoros,
ni alcançó muchas riquezas
  ni vaxillas;
mas fizo guerra a los moros
ganando sus fortalezas
  e sus villas;
  y en las lides que venció,
cuántos moros e cavallos
  se perdieron;
y en este oficio ganó
las rentas e los vasallos
  que le dieron.

  Pues por su honra y estado,
en otros tiempos passados
  ¿cómo s'hubo?
Quedando desamparado,
con hermanos e criados
  se sostuvo.
  Después que fechos famosos
fizo en esta misma guerra
  que hazía,
fizo tratos tan honrosos
que le dieron aun más tierra
  que tenía.

  Estas sus viejas hestorias
que con su braço pintó
  en joventud,
con otras nuevas victorias
agora las renovó
  en senectud.
  Por su gran habilidad,
por méritos e ancianía
  bien gastada,
alcançó la dignidad
de la grand Caballería
  dell Espada.

  E sus villas e sus tierras,
ocupadas de tiranos
  las halló;
mas por çercos e por guerras
e por fuerça de sus manos
  las cobró.
  Pues nuestro rey natural,
si de las obras que obró
  fue servido,
dígalo el de Portogal,
y, en Castilla, quien siguió
  su partido.

  Después de puesta la vida
tantas vezes por su ley
  al tablero;
después de tan bien servida
la corona de su rey
  verdadero;
  después de tanta hazaña
a que non puede bastar
  cuenta cierta,
en la su villa d'Ocaña
vino la Muerte a llamar
  a su puerta,

  diziendo: "Buen caballero,
dexad el mundo engañoso
  e su halago;
vuestro corazón d'azero
muestre su esfuerço famoso
  en este trago;
  e pues de vida e salud
fezistes tan poca cuenta
  por la fama;
esfuércese la virtud
para sofrir esta afruenta
  que vos llama."

  "Non se vos haga tan amarga
la batalla temerosa
  qu'esperáis,
pues otra vida más larga
de la fama glorïosa
  acá dexáis.
  Aunqu'esta vida d'honor
tampoco no es eternal
  ni verdadera;
mas, con todo, es muy mejor
que la otra temporal,
  peresçedera."

  "El vivir qu'es perdurable
non se gana con estados
  mundanales,
ni con vida delectable
donde moran los pecados
  infernales;
  mas los buenos religiosos
gánanlo con oraciones
  e con lloros;
los caballeros famosos,
con trabajos e aflicciones
  contra moros."

  "E pues vos, claro varón,
tanta sangre derramastes
  de paganos,
esperad el galardón
que en este mundo ganastes
  por las manos;
e con esta confiança
e con la fe tan entera
  que tenéis,
partid con buena esperança,
qu'estotra vida tercera
  ganaréis."

  "Non tengamos tiempo ya
en esta vida mesquina
  por tal modo,
que mi voluntad está
conforme con la divina
  para todo;
  e consiento en mi morir
con voluntad plazentera,
  clara e pura,
que querer hombre vivir
cuando Dios quiere que muera,
  es locura."

  "Tú que, por nuestra maldad,
tomaste forma servil
  e baxo nombre;
tú, que a tu divinidad
juntaste cosa tan vil
  como es el hombre;
tú, que tan grandes tormentos
sofriste sin resistencia
  en tu persona,
non por mis merescimientos,
mas por tu sola clemencia
  me perdona".

  Assí, con tal entender,
todos sentidos humanos
  conservados,
cercado de su mujer
y de sus hijos e hermanos
  e criados,
  dio el alma a quien gela dio
(el cual la ponga en el cielo
  en su gloria),
que aunque la vida perdió,
dexónos harto consuelo
  su memoria.
Heme aquí ya, profesor
de lenguas vivas (ayer
maestro de gay-saber,
aprendiz de ruiseñor),
en un pueblo húmedo y frío,
destartalado y sombrío,
entre andaluz y manchego.Invierno. Cerca del fuego.
Fuera llueve un agua fina,
que ora se trueca en neblina,
ora se torna aguanieve.Fantástico labrador,
pienso en los campos.¡Señor
qué bien haces!  Llueve, llueve
tu agua constante y menuda
sobre alcaceles y habares,
tu agua muda,
en viñedos y olivares.Te bendecirán conmigo
los sembradores del trigo;
los que viven de coger
la aceituna;
los que esperan la fortuna
de comer;
los que hogaño,
como antaño,
tienen toda su moneda
en la rueda,
traidora rueda del año.¡Llueve, llueve; tu neblina
que se torne en aguanieve,
y otra vez en agua fina!¡Llueve, Señor, llueve, llueve!   En mi estancia, iluminada
por esta luz invernal
-la tarde gris tamizada
por la lluvia y el cristal-,
sueño y medito.                 Clarea
el reloj arrinconado,
y su tic-tic, olvidado
por repetido, golpea.Tic-tic, tic-tic... Ya te he oído.
Tic-tic, tic-tic... Siempre igual,
monótono y aburrido.Tic-tic, tic-tic, el latido
de un corazón de metal.En estos pueblos, ¿se escucha
el latir del tiempo?  No.En estos pueblos se lucha
sin tregua con el reló,
con esa monotonía
que mide un tiempo vacío.Pero ¿tu hora es la mía?
¿Tu tiempo, reloj, el mío?(Tic-tic, tic-tic...) Era un día
(Tic-tic, tic-tic) que pasó,
y lo que yo más quería
la muerte se lo llevó.   Lejos suena un clamoreo
de campanas...Arrecia el repiqueteo
de la lluvia en las ventanas.Fantástico labrador,
vuelvo a mis campos. ¡Señor,
cuánto te bendecirán
los sembradores del pan!Señor, ¿no es tu lluvia ley,
en los campos que ara el buey,
y en los palacios del rey?¡Oh, agua buena, deja vida
en tu huida!¡Oh, tú, que vas gota a gota,
fuente a fuente y río a río,
como este tiempo de hastío
corriendo a la mar remota,
en cuanto quiere nacer,
cuanto espera
florecer
al sol de la primavera,
sé piadosa,
que mañana
serás espiga temprana,
prado verde, carne rosa,
y más: razón y locura
y amargura
de querer y no poder
creer, creer y creer!   Anochece;
el hilo de la bombilla
se enrojece,
luego brilla,
resplandece
poco más que una cerilla.Dios sabe dónde andarán
mis gafas... entre librotes
revistas y papelotes,
¿quién las encuentra?... Aquí están.Libros nuevos. Abro uno
de Unamuno.¡Oh, el dilecto,
predilecto
de esta España que se agita,
porque nace o resucita!Siempre te ha sido, ¡oh Rector
de Salamanca!, leal
este humilde profesor
de un instituto rural.Esa tu filosofía
que llamas diletantesca,
voltaria y funambulesca,
gran don Miguel, es la mía.Agua del buen manantial,
siempre viva,
fugitiva;
poesía, cosa cordial.¿Constructora?-No hay cimiento
ni en el alma ni en el viento-.Bogadora,
marinera,
hacia la mar sin ribera.Enrique Bergson: Los datos
inmediatos
de la conciencia. ¿Esto es
otro embeleco francés?Este Bergson es un tuno;
¿verdad, maestro Unamuno?Bergson no da como aquel
Immanuel
el volatín inmortal;
este endiablado judío
ha hallado el libre albedrío
dentro de su mechinal.No está mal;
cada sabio, su problema,
y cada loco, su tema.Algo importa 
que en la vida mala y corta
que llevamos
libres o siervos seamos:
mas, si vamos
a la mar,
lo mismo nos ha de dar.¡Oh, estos pueblos!  Reflexiones,
lecturas y acotaciones
pronto dan en lo que son:
bostezos de Salomón.¿Todo es
soledad de soledades.
vanidad de vanidades,
que dijo el Eciesiastés?Mi paraguas, mi sombrero,
mi gabán...El aguacero
amaina...Vámonos, pues.   Es de noche. Se platica
al fondo de una botica.-Yo no sé,
don José,
cómo son los liberales
tan perros, tan inmorales.-¡Oh, tranquilícese usté!
Pasados los carnavales,
vendrán los conservadores,
buenos administradores
de su casa.Todo llega y todo pasa.
Nada eterno:
ni gobierno
que perdure,
ni mal que cien años dure.-Tras estos tiempos vendrán
otros tiempos y otros y otros,
y lo mismo que nosotros
otros se jorobarán.Así es la vida, don Juan.-Es verdad, así es la vida.
-La cebada está crecida.
-Con estas lluvias...
                    Y van
las habas que es un primor.
-Cierto; para marzo, en flor.
Pero la escarcha, los hielos...
-Y, además, los olivares
están pidiendo a los cielos
aguas a torrentes.
                  -A mares.¡Las fatigas, los sudores
que pasan los labradores!En otro tiempo...
                  Llovía
también cuando Dios quería.-Hasta mañana, señores.
  Tic-tic, tic-tic... Ya pasó
un día como otro día,
dice la monotonía
del reloj.   Sobre mi mesa Los datos
de la conciencia, inmediatos.No está mal
este yo fundamental,
contingente y libre, a ratos,
creativo, original;
este yo que vive y siente
dentro la carne mortal
¡ay! por saltar impaciente
las bardas de su corral.
Siendo mozo Alvargonzález,
dueño de mediana hacienda,
que en otras tierras se dice
bienestar y aquí, opulencia,
en la feria de Berlanga
prendóse de una doncella,
y la tomó por mujer
al año de conocerla.Muy ricas las bodas fueron
y quien las vio las recuerda;
sonadas las tornabodas
que hizo Alvar en su aldea;
hubo gaitas, tamboriles,
flauta, bandurria y vihuela,
fuegos a la valenciana
y danza a la aragonesa.   Feliz vivió Alvargonzález
en el amor de su tierra.
Naciéronle tres varones,
que en el campo son riqueza,
y, ya crecidos, los puso,
uno a cultivar la huerta,
otro a cuidar los merinos,
y dio el menor a la Iglesia.   Mucha sangre de Caín
tiene la gente labriega,
y en el hogar campesino
armó la envidia pelea.   Casáronse los mayores;
tuvo Alvargonzález nueras,
que le trajeron cizaña,
antes que nietos le dieran.   La codicia de los campos
ve tras la muerte la herencia;
no goza de lo que tiene
por ansia de lo que espera.   El menor, que a los latines
prefería las doncellas
hermosas y no gustaba
de vestir por la cabeza,
colgó la sotana un día
y partió a lejanas tierras.La madre lloró, y el padre
diole bendición y herencia.   Alvargonzález ya tiene
la adusta frente arrugada,
por la barba le platea
la sombra azul de la cara.   Una mañana de otoño
salió solo de su casa;
no llevaba sus lebreles,
agudos canes de caza;

  iba triste y pensativo
por la alameda dorada;
anduvo largo camino
y llegó a una fuente clara.   Echóse en la tierra; puso
sobre una piedra la manta,
y a la vera de la fuente
durmió al arrullo del agua.   Y Alvargonzález veía,
como Jacob, una escala
que iba de la tierra al cielo,
y oyó una voz que le hablaba.Mas las hadas hilanderas,
entre las vedijas blancas
y vellones de oro, han puesto
un mechón de negra lana.Tres niños están jugando
a la puerta de su casa;
entre los mayores brinca
un cuervo de negras alas.La mujer vigila, cose
y, a ratos, sonríe y canta.-Hijos, ¿qué hacéis? -les pregunta.Ellos se miran y callan.-Subid al monte, hijos míos,
y antes que la noche caiga,
con un brazado de estepas
hacedme una buena llama.   Sobre el lar de Alvargonzález
está la leña apilada;
el mayor quiere encenderla,
pero no brota la llama.-Padre, la hoguera no prende,
está la estepa mojada.   Su hermano viene a ayudarle
y arroja astillas y ramas
sobre los troncos de roble;
pero el rescoldo se apaga.Acude el menor, y enciende,
bajo la negra campana
de la cocina, una hoguera
que alumbra toda la casa.   Alvargonzález levanta
en brazos al más pequeño
y en sus rodillas lo sienta;-Tus manos hacen el fuego;
aunque el último naciste
tú eres en mi amor primero.   Los dos mayores se alejan
por los rincones del sueño.
Entre los dos fugitivos
reluce un hacha de hierro.   Sobre los campos desnudos,
la luna llena manchada
de un arrebol purpurino,
enorme globo, asomaba.Los hijos de Alvargonzález
silenciosos caminaban,
y han visto al padre dormido
junto de la fuente clara.   Tiene el padre entre las cejas
un ceño que le aborrasca
el rostro, un tachón sombrío
como la huella de un hacha.Soñando está con sus hijos,
que sus hijos lo apuñalan;
y cuando despierta mira
que es cierto lo que soñaba.   A la vera de la fuente
quedó Alvargonzález muerto.Tiene cuatro puñaladas
entre el costado y el pecho,
por donde la sangre brota,
más un hachazo en el cuello.Cuenta la hazaña del campo
el agua clara corriendo,
mientras los dos asesinos
huyen hacia los hayedos.Hasta la Laguna Negra,
bajo las fuentes del Duero,
llevan el muerto, dejando
detrás un rastro sangriento,
y en la laguna sin fondo,
que guarda bien los secretos,
con una piedra amarrada
a los pies, tumba le dieron.   Se encontró junto a la fuente
la manta de Alvargonzález,
y, camino del hayedo,
se vio un reguero de sangre.Nadie de la aldea ha osado
a la laguna acercarse,
y el sondarla inútil fuera,
que es la laguna insondable.Un buhonero, que cruzaba
aquellas tierras errante,
fue en Dauria acusado, preso
y muerto en garrote infame.   Pasados algunos meses,
la madre murió de pena.Los que muerta la encontraron
dicen que las manos yertas
sobre su rostro tenía,
oculto el rostro con ellas.   Los hijos de Alvargonzález
ya tienen majada y huerta,
campos de trigo y centeno
y prados de fina hierba;
en el olmo viejo, hendido
por el rayo, la colmena,
dos yuntas para el arado,
un mastín y mil ovejas.
    Ya están las zarzas floridas
y los ciruelos blanquean;
ya las abejas doradas
liban para sus colmenas,
y en los nidos, que coronan
las torres de las iglesias,
asoman los garabatos
ganchudos de las cigüeñas.Ya los olmos del camino
y chopos de las riberas
de los arroyos, que buscan
al padre Duero, verdean.El cielo está azul, los montes
sin nieve son de violeta.La tierra de Alvargonzález
se colmará de riqueza;
muerto está quien la ha labrado,
mas no le cubre la tierra.   La hermosa tierra de España
adusta, fina y guerrera
Castilla, de largos ríos,
tiene un puñado de sierras
entre Soria y Burgos como
reductos de fortaleza,
como yelmos crestonados,
y Urbión es una cimera.   Los hijos de Alvargonzález,
por una empinada senda,
para tomar el camino
de Salduero a Covaleda,
cabalgan en pardas mulas,
bajo el pinar de Vinuesa.Van en busca de ganado
con que volver a su aldea,
y por tierra de pinares
larga jornada comienzan.Van Duero arriba, dejando
atrás los arcos de piedra
del puente y el caserío
de la ociosa y opulenta
villa de indianos. El río
al fondo del valle, suena,
y de las cabalgaduras
los cascos baten las piedras.A la otra orilla del Duero
canta una voz lastimera:«La tierra de Alvargonzález
se colmará de riqueza,
y el que la tierra ha labrado
no duerme bajo la tierra.»   Llegados son a un paraje
en donde el pinar se espesa,
y el mayor, que abre la marcha,
su parda mula espolea,
diciendo: -Démonos prisa;
porque son más de dos leguas
de pinar y hay que apurarlas
antes que la noche venga.Dos hijos del campo, hechos
a quebradas y asperezas,
porque recuerdan un día
la tarde en el monte tiemblan.Allá en lo espeso del bosque
otra vez la copla suena:«La tierra de Alvargonzález
se colmará de riqueza,
y el que la tierra ha labrado
no duerme bajo la tierra».   Desde Salduero el camino
va al hilo de la ribera;
a ambas márgenes del río
el pinar crece y se eleva,
y las rocas se aborrascan,
al par que el valle se estrecha.Los fuertes pinos del bosque
con sus copas gigantescas
y sus desnudas raíces
amarradas a las piedras;
los de troncos plateados
cuyas frondas azulean,
pinos jóvenes; los viejos,
cubiertos de blanca lepra,
musgos y líquenes canos
que el grueso tronco rodean,
colman el valle y se pierden
rebasando ambas laderasJuan, el mayor, dice: -Hermano,
si Blas Antonio apacienta
cerca de Urbión su vacada,
largo camino nos queda.-Cuando hacia Urbión alarguemos
se puede acortar de vuelta,
tomando por el atajo,
hacia la Laguna Negra
y bajando por el puerto
de Santa Inés a Vinuesa.-Mala tierra y peor camino.
Te juro que no quisiera
verlos otra vez. Cerremos
los tratos en Covaleda;
hagamos noche y, al alba,
volvámonos a la aldea
por este valle, que, a veces,
quien piensa atajar rodea.Cerca del río cabalgan
los hermanos, y contemplan
cómo el bosque centenario,
al par que avanzan, aumenta,
y la roqueda del monte
el horizonte les cierra.El agua, que va saltando,
parece que canta o cuenta:«La tierra de Alvargonzález
se colmará de riqueza,
y el que la tierra ha labrado
no duerme bajo la tierra».
    Aunque la codicia tiene
redil que encierre la oveja,
trojes que guarden el trigo,
bolsas para la moneda,
y garras, no tiene manos
que sepan labrar la tierra.Así, a un año de abundancia
siguió un año de pobreza.   En los sembrados crecieron
las amapolas sangrientas;
pudrió el tizón las espigas
de trigales y de avenas;
hielos tardíos mataron
en flor la fruta en la huerta,
y una mala hechicería
hizo enfermar las ovejas.A los dos Alvargonzález
maldijo Dios en sus tierras,
y al año pobre siguieron
largos años de miseria.   Es una noche de invierno.
Cae la nieve en remolinos.
Los Alvargonzález velan
un fuego casi extinguido.El pensamiento amarrado
tienen a un recuerdo mismo,
y en las ascuas mortecinas
del hogar los ojos fijos.No tienen leña ni sueño.Larga es la noche y el frío
arrecia. Un candil humea
en el muro ennegrecido.El aire agita la llama,
que pone un  fulgor rojizo
sobre las dos pensativas 
testas de los asesinos.El mayor de Alvargonzález,
lanzando un ronco suspiro,
rompe el silencio, exclamando:-Hermano, ¡qué mal hicimos!El viento la puerta bate
hace temblar el postigo,
y suena en la chimenea
con hueco y largo bramido.Después, el silencio vuelve,
y a intervalos el pabilo
del candil chisporrotea
en el aire aterecido.El segundo dijo: -Hermano,
¡demos lo viejo al olvido!

  Es una noche de invierno.
Azota el viento las ramas
de los álamos. La nieve
ha puesto la tierra blanca.Bajo la nevada, un hombre
por el camino cabalga;
va cubierto hasta los ojos,
embozado en negra capa.Entrado en la aldea, busca
de Alvargonzález la casa,
y ante su puerta llegado,
sin echar pie a tierra, llama.   Los dos hermanos oyeron
una aldabada a la puerta,
y de una cabalgadura
los cascos sobre las piedras.Ambos los ojos alzaron
llenos de espanto y sorpresa.-¿Quién es?  Responda -gritaron.-Miguel -respondieron fuera.Era la voz del viajero
que partió a lejanas tierras.   Abierto el portón, entróse
a caballo el caballero
y echó pie a tierra. Venía
todo de nieve cubierto.En brazos de sus hermanos
lloró algún rato en silencio.Después dio el caballo al uno,
al otro, capa y sombrero,
y en la estancia campesina
buscó el arrimo del fuego.   El menor de los hermanos,
que niño y aventurero
fue más allá de los mares
y hoy torna indiano opulento,
vestía con ***** traje
de peludo terciopelo,
ajustado a la cintura
por ancho cinto de cuero.Gruesa cadena formaba
un bucle de oro en su pecho.Era un hombre alto y robusto,
con ojos grandes y negros
llenos de melancolía;
la tez de color moreno,
y sobre la frente comba
enmarañados cabellos;
el hijo que saca porte
señor de padre labriego,
a quien fortuna le debe
amor, poder y dinero.
De los tres Alvargonzález
era Miguel el más bello;
porque al mayor afeaba
el muy poblado entrecejo
bajo la frente mezquina,
y al segundo, los inquietos
ojos que mirar no saben
de frente, torvos y fieros.   Los tres hermanos contemplan
el triste hogar en silencio;
y con la noche cerrada
arrecia el frío y el viento.-Hermanos, ¿no tenéis leña?-dice Miguel.             -No tenemos
-responde el mayor.               Un hombre,
milagrosamente, ha abierto
la gruesa puerta cerrada
con doble barra de hierro.

El hombre que ha entrado tiene
el rostro del padre muerto.Un halo de luz dorada
orla sus blancos cabellos.
Lleva un haz de leña al hombro
y empuña un hacha de hierro.   De aquellos campos malditos,
Miguel a sus dos hermanos
compró una parte, que mucho
caudal de América trajo,
y aun en tierra mala, el oro
luce mejor que enterrado,
y más en mano de pobres
que oculto en orza de barro.   Diose a trabajar la tierra
con fe y tesón el indiano,
y a laborar los mayores
sus pegujales tornaron.   Ya con macizas espigas,
preñadas de rubios granos,
a los campos de Miguel
tornó el fecundo verano;
y ya de aldea en aldea
se cuenta como un milagro,
que los asesinos tienen
la maldición en sus campos.   Ya el pueblo canta una copla
que narra el crimen pasado:«A la orilla de la fuente
lo asesinaron.¡qué mala muerte le dieron
los hijos malos!En la laguna sin fondo
al padre muerto arrojaron.No duerme bajo la tierra
el que la tierra ha labrado».   Miguel, con sus dos lebreles
y armado de su escopeta,
hacia el azul de los montes,
en una tarde serena,
caminaba entre los verdes
chopos de la carretera,
y oyó una voz que cantaba:«No tiene tumba en la tierra.
Entre los pinos del valle
del Revinuesa,
al padre muerto llevaron
hasta la Laguna Negra».
    La casa de Alvargonzález
era una casona vieja,
con cuatro estrechas ventanas,
separada de la aldea
cien pasos y entre dos olmos
que, gigantes centinelas,
sombra le dan en verano,
y en el otoño hojas secas.   Es casa de labradores,
gente aunque rica plebeya,
donde el hogar humeante
con sus escaños de piedra
se ve sin entrar, si tiene
abierta al campo la puerta.   Al arrimo del rescoldo
del hogar borbollonean
dos pucherillos de barro,
que a dos familias sustentan.   A diestra mano, la cuadra
y el corral; a la siniestra,
huerto y abejar, y, al fondo,
una gastada escalera,
que va a las habitaciones
partidas en dos viviendas.   Los Alvargonzález moran
con sus mujeres en ellas.
A ambas parejas que hubieron,
sin que lograrse pudieran,
dos hijos, sobrado espacio
les da la casa paterna.   En una estancia que tiene
luz al huerto, hay una mesa
con gruesa tabla de roble,
dos sillones de vaqueta,
colgado en el muro, un *****
ábaco de enormes cuentas,
y unas espuelas mohosas
sobre un arcón de madera.   Era una estancia olvidada
donde hoy Miguel se aposenta.
Y era allí donde los padres
veían en primavera
el huerto en flor, y en el cielo
de mayo, azul, la cigüeña
-cuando las rosas se abren
y los zarzales blanquean-
que enseñaba a sus hijuelos
a usar de las alas lentas.   Y en las noches del verano,
cuando la calor desvela,
desde la ventana al dulce
ruiseñor cantar oyeran.   Fue allí donde Alvargonzález,
del orgullo de su huerta
y del amor a los suyos,
sacó sueños de grandeza.   Cuando en brazos de la madre
vio la figura risueña
del primer hijo, bruñida
de rubio sol la cabeza,
del niño que levantaba
las codiciosas, pequeñas
manos a las rojas guindas
y a las moradas ciruelas,
o aquella tarde de otoño,
dorada, plácida y buena,
él pensó que ser podría
feliz el hombre en la tierra.   Hoy canta el pueblo una copla
que va de aldea en aldea:«¡Oh casa de Alvargonzález,
qué malos días te esperan;
casa de los asesinos,
que nadie llame a tu puerta!»   Es una tarde de otoño.
En la alameda dorada
no quedan ya ruiseñores;
enmudeció la cigarra.   Las últimas golondrinas,
que no emprendieron la marcha,
morirán, y las cigüeñas
de sus nidos de retamas,
en torres y campanarios,
huyeron.           Sobre la casa
de Alvargonzález, los olmos
sus hojas que el viento arranca
van dejando. Todavía
las tres redondas acacias,
en el atrio de la iglesia,
conservan verdes sus ramas,
y las castañas de Indias
a intervalos se desgajan
cubiertas de sus erizos;
tiene el rosal rosas grana
otra vez, y en las praderas
brilla la alegre otoñada.   En laderas y en alcores,
en ribazos y en cañadas,
el verde nuevo y la hierba,
aún del estío quemada,
alternan; los serrijones
pelados, las lomas calvas,
se coronan de plomizas
nubes apelotonadas;
y bajo el pinar gigante,
entre las marchitas zarzas
y amarillentos helechos,
corren las crecidas aguas
a engrosar el padre río
por canchales y barrancas.   Abunda en la tierra un gris
de plomo y azul de plata,
con manchas de roja herrumbre,
todo envuelto en luz violada.   ¡Oh tierras de Alvargonzález,
en el corazón de España,
tierras pobres, tierras tristes,
tan tristes que tienen alma!   Páramo que cruza el lobo
aullando a la luna clara
de bosque a bosque, baldíos
llenos de peñas rodadas,
donde roída de buitres
brilla una osamenta blanca;
pobres campos solitarios
sin caminos ni posadas,¡oh pobres campos malditos,
pobres campos de mi patria!
    Una mañana de otoño,
cuando la tierra se labra,
Juan y el indiano aparejan
las dos yuntas de la casa.
Martín se quedó en el huerto
arrancando hierbas malas.   Una mañana de otoño,
cuando los campos se aran,
sobre un otero, que tiene
el cielo de la mañana
por fondo, la parda yunta
de Juan lentamente avanza.   Cardos, lampazos y abrojos,
avena loca y cizaña,
llenan la tierra maldita,
tenaz a pico y a escarda.   Del corvo arado de roble
la hundida reja trabaja
con vano esfuerzo; parece,
que al par que hiende la entraña
del campo y hace camino
se cierra otra vez la zanja.   «Cuando el asesino labre
será su labor pesada;
antes que un surco en la tierra,
tendrá una arruga en su cara».   Martín, que estaba en la huerta
cavando, sobre su azada
quedó apoyado un momento;
frío sudor le bañaba
el rostro.           Por el Oriente,
la luna llena, manchada
de un arrebol purpurino,
lucía tras de la tapia
del huerto.           Martín tenía
la sangre de horror helada.
La azada que hundió en la tierra
teñida de sangre estaba.   En la tierra en que ha nacido
supo afincar el indiano;
por mujer a una doncella
rica y hermosa ha tomado.   La hacienda de Alvargonzález
ya es suya, que sus hermanos
todo le vendieron: casa,
huerto, colmenar y campo.   Juan y Martín, los mayores
de Alvargonzález, un
Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l'aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! Allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l'aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre dè servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.
Né mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sé, ma perché tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol dè malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch'** appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l'allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell'arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M'era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! Sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m'avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell'imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d'affanno.
E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
Dè miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai cò silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia! ) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
O Nerina! E di te forse non odo
Questi luoghi parlar? Caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond'eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
Victor Marques Jul 2010
O silêncio da natureza não me deixa dormir!
Não importa a cor, nacionalidade.
O sonho de amizade global poderia
ser sempre verdadeira!
Alguém encontrou sentimentos positivos,
Perto da água no domingo!

Grande amigo do coração e sinceramente bom!
Ele se apaixona por sua banda...
Amor e carinho para dar!
Siga em frente, siga em frente e acredite nos outros!


Como uma onda no céu azul,
Um bom amigo torna o mundo melhor!
Você pergunta: me diga por quê?
É fácil ser meu amigo.
Basta me chamar e tentar.
Água transparente está na minha mente!
Você é um amigo que eu quero encontrar!

Um abraço!

Victor Marques
Marco Raimondi May 2017
Idália:
Glórias! Que do abismo dão-se as profundezas
E o paradoxo de uma noite escura à luz do dia
Mas que, perto de meus olhos, brilha acesa
A minha admiração magna que por ti sentia!
Tu és tudo, mais que humano
Mas apenas minhas pálpebras podem únicas sentir teu oceano.

Gaia:
Se em teus olhos vês beleza que denominas
Doce Idália, tem-te cuidado ao mundo que te inflama
Pois se hoje cintilas vida, amanhã serão ruínas
Que sucumbirão ao destino em chamas
Mede teus louvores nos horizontes desta terra,
Pois a natureza de tudo é mãe, até da mais funérea guerra!

Idália:
Fria terra sincera e de índole intensa,
Dei minha miséria e caí em pranto
Sem Deus piedoso, a meu sofrer não há recompensa!
Que farei se deste jardim, as flores desejo tanto?
Esta ventura de nada é pedido inocente
Formosa Gaia, como tortura-me em teu semblante ardente!

Gaia:
Se mais luzes sentes deste Sol coroado,
Muito te erras, raia filha, solenemente!
Se destes vastos campos sentes o céu azulado,
Há de regraciar na sombra teu espírito verdadeiramente!
Que fique tua plena vida manchada por amor,
Te lembrarás, quando desatar teus prantos em inocente dor

Idália:
De meus verdejantes olhares pressinto
A agonia formosa que tu angustias em tudo ser
Pois tu és a umbra, acolhedor recinto
E desse despontam tuas misérias, quais tristemente hão de se manter
Decifro há pouco as águas que beijam as areias
E clareia-me o ímpeto dos dilúvios com fúria tua tão cheia

Gaia:
De fúrias acusa-me teu espanto,
Mas a ti digo, quanto vigor menos,
Para o caos não jogar-te aos mantos
E a lembrar-te o sublime, em tempos tão pequenos!
Decrete-me tuas aflições, tua desventura
Que dói em meu reflexo, que em teus olhos pouco dura?

Idália:
Não digo! Há dentro d'alma tanta vida
Que desconfio, de minha, estar trancada em gelosia
Como recamo no céu de uma ave perdida
Suspiro descorada ânsia qual me havia
Ah! Atravessa-me este calor de eras a centos
Mas inda vejo airoso sopro no troar eterno dos ventos

Gaia:
Diga a cantar-te poder que nos iriantes astros amontoaste
E do mundo, os fundamentos volvia
Destas águas de criação, tu já breve, encerraste?
Lembra-te do sol de primavera, qual no vácuo as solidões enchia
Que importa se és rasga enganadora?
Se de minhas mãos saíram as raízes desta terra traidora!?

Idália:
É o destino, luz que empalidece e minh'alma estua,
Quando campo mi'a pele palpita tua alvura,
Deste infinito toco sublimado nascer de nívea Lua
Posto que, no brilho desta, cuja noite torna pura
O presente esmaece e crio-me, do fato, fugidia errante,
Como o lírio qual coroa abre pobre, por grato instante
Os versos da primeira cena não estão por vez finalizados, inclusive estes que aqui estão podem sofrer mudanças consequentes de suas adaptações, porque foram pouco revisados. Tratam-se, portanto, apenas de alguns fragmentos.
Re
A caída do tempo esmera-se no cuidado
Sonho que em câmara lenta a minha alma não se magoa
e a mágoa não se torna superior à vontade de viver
Por fim, desisto
Não acredito mais nas palavras que digo
Não tenho já certeza se vivo a sonhar
Ou se simplesmente gosto de me arrastar por entre a multidão
A sorrir, a mentir
Disseram-me um dia que partiria, sim
Mas que sozinha não iria a nenhures
Verdade
Tenho uma constante obsessão amarrada à perna
E cada passo que dou sinto a tonelada desse vazio
E os dois metro que ando entre o chão e o chão
São quilómetros na vida real
Que irreal 'e
Sinto a pedras na descida, mas não me magoam
São menos duras que a armadura que me venderam
E pregada esta já ao corpo está
Nada sinto
Nada quero sentir
Apenas jazo no poder do iniquo
Que diz-se Mundo
Que digo Inferno
O amor que tenho por vos faz-me ir devagar
Mas a raiva que sinto do estrume que sois
Apressa-me na descida
Sinto que equivocada estou com o Mundo que não me quer
E sei que ao rápido descer, rápido vou saber
Onde o futuro me leva
Me carrega
O medo que tenho de me trazer ao inicio do Tempo 'e muito
Mas o pavor de so nascer uma vez corroí-me os tímpanos.
Partem todos os que amo e vejo-os ao longe
Imagino se perto estivessem
Não conseguiria respirar o pouco ar que tenho
E se choro e agonizo
'e por este amor que me queria grande e forte
Mas que fraca me pôs no chão
Não julgarei ninguém ao querer cair
A paisagem 'e bonita e ao longe desfocada fica
Sentimos a analgesia de não se ser ninguém
Vem devagar, não me apresses o timbre
Afinal acredito em mim, acho que sempre acreditei
Apenas estava apagada na tua sombra
Que em cativeiro me deixava a alma
Amei-te como o Amor sente
Amo-te como a dor ama
E embora me empurres para baixo da ribanceira
Sorrio e minto
Para te ver feliz em cima da minha cabeça
Como sempre estiveste
Como sempre te deixei estar.
La donzelletta vien dalla campagna,
In sul calar del sole,
Col suo fascio dell'erba; e reca in mano
Un mazzolin di rose e di viole,
Onde, siccome suole,
Ornare ella si appresta
Dimani, al dì di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
Su la scala a filar la vecchierella,
Incontro là dove si perde il giorno;
E novellando vien del suo buon tempo,
Quando ai dì della festa ella si ornava,
Ed ancor sana e snella
Solea danzar la sera intra di quei
Ch'ebbe compagni dell'età più bella.
Già tutta l'aria imbruna,
Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
Giù dà colli e dà tetti,
Al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
Della festa che viene;
Ed a quel suon diresti
Che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
Su la piazzuola in frotta,
E qua e là saltando,
Fanno un lieto romore:
E intanto riede alla sua parca mensa,
Fischiando, il zappatore,
E seco pensa al dì del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
E tutto l'altro tace,
Odi il martel picchiare, odi la sega
Del legnaiuol, che veglia
Nella chiusa bottega alla lucerna,
E s'affretta, e s'adopra
Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
Pien di speme e di gioia:
Diman tristezza e noia
Recheran l'ore, ed al travaglio usato
Ciascuno in suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
Cotesta età fiorita
È come un giorno d'allegrezza pieno,
Giorno chiaro, sereno,
Che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
Stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vò; ma la tua festa
Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
Con l'opra in man, cantando,
Fassi in su l'uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
Della novella piova;
E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passeggier che il suo cammin ripiglia.
Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
L'uomo à suoi studi intende?
O torna all'opre? O cosa nova imprende?
Quando dè mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno;
Gioia vana, ch'è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.
O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
È diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! Assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor: beata
Se te d'ogni dolor morte risana.
Nicole Apr 2015
Dicen que la vida es corta, pero depende de tu perspectiva de vista.
Unos viven la vida ajetreados, agonizando por querer que todo sea completado en un lapso de tiempo. Otros, simplemente dejan que los minutos pasen, viven cada momento de acuerdo a su reloj anatómico, sin prisa alguna. Yo creo que todos debemos tener una lista, sí, una lista de aquellas cosas que te gustarían hacer, clasificadas por las "posibles" y por las que "parecen ser imposibles". Aclaro, nada es imposible... Solo hay que trabajar más duro para alcanzarlas. Muchos, andan creando una vida según sus ideales, pretendiendo que será perfecta, pero nada lo es. Viven encerrados en una burbuja necesitada de una pequeña grieta, sí, una grieta que comenzará a marcar el futuro que los espera en el mundo real una vez su encerrona culmine.Nada es perfecto, eso hay que tenerlo en mente. Habrán días gozosos, llenos de sucesos inesperadamente increíbles, días en los que todo te habrá salido tal y como lo esperabas, le sonreirás hasta al anciano que ves en el estacionamiento, o al niño que está sosteniendo la mano de su madre, cantarás tu canción favorita y bailarás sin cesar.. y lo mencionarás como "El mejor día de tu vida." ¿Quién no ha hecho eso? Sin embargo, habrán otros días en los que sientes que tu cielo se torna gris, pasas por alguna desepción, te sientes mal humarado, tu familia o colegas no te entienden, todo te sale mal, sientes el deseo de gritar, pero te niegas, a veces utilizas el término "desearía desaparecer en estos momentos"... A ese, a ese día lo llamarás de la manera más espeluznante que se te ocurra en el instante, solo para refutar y acentuar lo mucho que lo odiaste. Ahora, pienso yo, ¿por qué a ese día no lo llamas "el mejor de tu vida", al igual que aquellos que parecen haber estado moldeados por ángeles divinos? Piénsalo, ese pudo haber sido "el mejor día de tu vida", pero no te diste la tarea a creerlo. Te encerraste en el hecho de que sentías que todo recaía sobre ti y no te sentaste un momento a pensar que "todo pasa por una razón", como recita el conocido dicho. De eso que te quejas, de esos días tan repugnantes, es cuando más uno aprende. ¿Qué tendría la vida de divertida si todo nos sale "perfecto"? Sea larga o sea corta, hay que aprender a desearla, tanto como esos que no saben si en cualquier segundo pasan a morar. Selecciona cuál es la mejor opción para ti, no para los demás. Ante nubes grises y estruendosas lluvias, resalta un arcoiris que te da esperanza y te enseña que cada día es una nueva oportunidad para alcanzar aquello que hayas anotado en tu lista, sea larga o sea corta, te haya ido bien en el día o "no". Para de quejarte;  comienza a disfrutar y a aprender de todos los ángulos y verás que, al final, cuando las generaciones hayan crecido, tendrás la dicha de contarlo y mencionarlo como uno de *"Los mejores días de mi vida"
Qué pura eres de sol o de noche caída,
qué triunfal desmedida tu órbita de blanco,
y tu pecho de pan, alto de clima,
tu corona de árboles negros, bienamada,
y tu nariz de animal solitario, de oveja salvaje
que huele a sombra y a precipitada fuga tiránica.

Ahora, qué armas espléndidas mis manos,
digna su pala de hueso y su lirio de uñas,
y el puesto de mi rostro, y el arriendo de mi alma
están situados en lo justo de la fuerza terrestre.

Qué pura mi mirada de nocturna influencia,
caída de ojos obscuros y feroz acicate,
mi simétrica estatua de piernas gemelas
sube hacia estrellas húmedas cada mañana,
y mi boca de exilio muerde la carne y la uva,
mis brazos de varón, mi pecho tatuado
en que penetra el vello como ala de estaño,
mi cara blanca hecha para la profundidad del sol,
mi pelo hecho de ritos, de minerales negros,
mi frente penetrante como golpe o camino,
mi piel de hijo maduro, destinado al arado,
mis ojos de sal ávida, de matrimonio rápido,
mi lengua amiga blanda del dique y del buque,
mis dientes de horario blanco, de equidad sistemática,
la piel que hace a mi frente un vacío de hielos
y en mi espalda se torna, y vuela en mis párpados,
y se repliega sobre mi más profundo estímulo,
y crece hacia las rosas en mis dedos,
en mi mentón de hueso y en mis pies de riqueza.

Y tú como un mes de estrella, como un beso fijo,
como estructura de ala, o comienzos de otoño,
niña, mi partidaria, mi amorosa,
la luz hace su lecho bajo tus grandes párpados
dorados como bueyes, y la paloma redonda
hace sus nidos blancos frecuentemente en ti.

Hecha de ola en lingotes y tenazas blancas,
tu salud de manzana furiosa se estira sin límite,
el tonel temblador en que escucha tu estómago,
tus manos hijas de la harina y del cielo.

Qué parecida eres al más largo beso,
su sacudida fija parece nutrirte,
y su empuje de brasa, de bandera revuelta,
va latiendo en tus dominios y subiendo temblando
y entonces tu cabeza se adelgaza en cabellos,
y su forma guerrera, su círculo seco,
se desploma de súbito en hilos lineales
como filos de espadas o herencias del humo.
D A Do Fleming Nov 2010
O choque congestiona o fluxo sanguíneo.
A cabeça erguida entra em declínio.
As pernas tremem de não aguentar o peso.
O mundo desaba todo e o deixa preso.

Nos olhos já se observa o desatino.
A face rubra paralisa sem destino.
A boca seca torna-o surpreso
e o ombro, de pronto, deixa de ser teso.

Escorre pela cara lágrima salgada
com o gosto do destrato da mulher amada
que desce ríspida à travada glote.

Como um antídoto à honra humilhada,
retorna do estômago feito cusparada
e o faz erguer em busca do que o esgote
Entre los surcos tu cuerpo moreno
es un racimo que a la tierra llega.
Torna los ojos, mírate lo senos,
son dos semillas ácidas y ciegas.

Tu carne es tierra que será madura
cuando el otoño te tienda las manos,
y el surco que será tu sepultura
temblará, temblará, como un humano

al recibir tus carnes y tus huesos
-rosas de pulpa con rosas de cal:
rosas que en el primero de los besos
vibraron como un vaso de cristal-.

¿La palabra de qué concepto pleno
será tu cuerpo? ¡No lo he de saber!
Torna los ojos, mírate los senos,
tal vez no alcanzarás a florecer.
M'accoglie la tua vecchia, grigia casa
steso supino sopra un letto angusto,
forse il tuo letto per tanti anni. Ascolto,
conto le ore lentissime a passare,
più lente per le nuvole che solcano
queste notti d'agosto in terre avare.

Uno che torna a notte alta dai campi
scambia un cenno a fatica con i simili,
infila l'erta, il vicolo, scompare
dietro la porta del tugurio. L'afa
dello scirocco agita i riposi,
fa smaniare gli infermi ed i reclusi.

Non dormo, seguo il passo del nottambulo
sia demente sia giovane tarato
mentre risuona sopra pietre e ciottoli;
lascio e prendo il mio carico servile
e scendo, scendo più che già non sia
profondo in questo tempo, in questo popolo.
Quem tem coragem de amar não faz chorar,
Porque amar é lindo, se se souber amar!
Amar é procurar sonhos e descobrir virtudes,
Quem ama procura consertar defeitos!
Quem ama não desiste nem põem defeitos!
Porque quem ama é cego, e corrige por amor!
Quem ama não nos recebe com desdém,
Nem chora por dentro quando nos vê!
Quem ama, procura o que une esse amor.
Quem ama, não fica há espera e vai atrás!
Quem nunca amou deve ter muito amor,
Porque o amor faz bem ao coração!
A frieza só trás tristeza, torna-te vazio,
Sem força, sem sonho, sem objetivos!

Autor: António Benigno
Código de autor: 2012.02.12.01.03
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
O coração não mais bate ansioso
Não se queixa se se parte
Mudo, calado,
Pede que me esqueça que existe
E que sucumba,
Muda, calada,
Ao vazio que me toma o peito
Para que nele faça casa novamente.

A cabeça divaga, inquieta,
Queixando-se só de não se queixar
Calada, indiferente,
À impulsividade que me toma
E que me torna,
Feroz, calada,
Num outro animal qualquer
Que me rasga a pele e alma sujas.

Sou presa e predadora nesta Primavera que chega
Não mais borboleta mas fera sedenta
Do sangue que em si mesma corre
Feroz, abafada,
Por drogas rotineiras
E uma cabeça que se não cala
Abafada, empurrada,
Por whiskey rasca e brancos quentes
Caio no ímpasse do quase esquecimento.
O corpo que me prende não é o meu
O Ser, levou-o a nortada
Sou só sentires inexistentes e pensares duvidosos
Matei-me e, impura, continuo a viver
Presa na vida e presa de mim.
Nicole Jan 2015
Entonces, es ahí cuando todo comienza a cambiar.
Crees tener esperanzas, pero todo sigue igual.
Cada noche me desvelo pensando en un día nuevo,
cuando las cosas sean distintas y no exista la monotonía.

La falta de amor se siente.
Las noches de locura
se convirtieron en algo poco frecuente.
Los detalles, las sonrisas y todos aquellos momentos especiales
se encuentran navegando en los mares.

¿Qué pasó con aquellos días?
En los que solíamos amanecernos
hablando sobre nuestras vidas.

Ahora el silencio las opaca.
Las conversaciones se vuelven cortas
y cada vez más amargas.

Hay algo en nosotros que ha cambiado
¿aún nos seguiremos amando?

Durante el día pienso,
pero cuando el cielo se torna oscuro
se vuelve más intenso.

No sé si te pasa igual,
mas cierto es,
las cosas están por cambiar.

Muchas veces nos hemos fallado
y el dolor seguirá presente
mientras lo tengamos en nuestras mentes.

Nostálgica y afligida me he podido sentir,
pero en mi interior está esa fe por ti.

Mirándome al espejo, en falta de cariño
me he encontrado
y en lo único que pienso es
en estar a tu lado.

Una vida tranquila
quisiera presenciar.
Sin problemas ni escándalos
y gente entrometida en la vida de los demás.

¿Podremos nosotros seguir adelante?
¿O será otra historia con un final espeluznante?
Este fue un escrito que encontré el cual fue redactado hace meses. Ahora mismo no significa nada en mi vida, pero quería compartirlo.
El él solo hay puros sentimientos con pensamientos mezclados que nunca me atreví sacarlos a la luz.
Trevor Dowe Nov 2017
Li'leithuin vas Eranor
Tianei thrael vas
Ere thule lei rost

Li'leithuin, Li'leithuin
Betre nost alune
Torna ero nuni

Li'leithuin dorne atore
Somna verit csal
Kilikun iva lei lux

Li'leithuin, Li'leithuin
Betre nost alune
Torna dei sera

Li'leithuin burz warg
Vulif gar vas Teberin
Ypsul dront kars

Li'leithuin, Li'leithuin
Betre nost alune
Storei teru roag

Li'leithuin vrut toural
Nore tuin dasgul
Caleg toum var
The beauty of sounds
Se la ruota si impiglia nel groviglio
delle stesse filanti ed il cavallo
s'impenna tra la calca, se ti nevica
fra i capelli e le mani un lungo brivido
d'iridi trascorrenti o alzano i bambini
le flebili ocarine che salutano
il tuo viaggio e i lievi echi si sfaldano
giù dal ponte sul fiume
se si sfolla la strada e ti conduce
in un mondo soffiato entro una tremula
bolla d'aria e di luce dove il sole
saluta la tua grazia-hai ritrovato
forse la strada che tentò un istante
il piombo fuso a mezzanotte quando
finì l'anno tranquillo senza spari.

Ed ora vuoi sostare dove un filtro
fa spogli i suoni
e ne deriva i sorridenti ed acri
fumi che ti compongono il domani;
ora chiedi il paese dove gli onagri
mordano quadri di zucchero dalle tue mani
e i tozzi alberi spuntino germogli
miracolosi al becco dei pavoni.

(Oh, il tuo carnevale sarà più triste
stanotte anche del mio, chiusa fra i doni
tu per gli assenti: carri dalle tinte
di rosolio, fantocci ed archibugi,
palle di gomma, arnesi da cucina
lillipuziani: l'urna li segnava
a ognuno dei lontani amici l'ora
che il gennaio si schiuse e nel silenzio
si compì il sortilegio. È carnevale
o il dicembre s'indugia ancora? Penso
che se muovi la lancetta al piccolo
orologio che rechi al polso, tutto
arretrerà dentro un disfatto prisma
babelico di forme e di colori... )

E il natale verrà e il giorno dell'anno
che sfolla le caserme e ti riporta
gli amici spersi e questo carnevale
pur esso tornerà che ora ci sfugge
tra i muri che si fendono già. Chiedi
tu di fermare il tempo sul paese
che attorno si dilata? Le grandi ali
screziate ti sfiorano, le logge
sospingono all'aperto esili bambole
bionde, vive, le pale dei mulini
rotano fisse sulle pozze garrule.
Chiedi di trattenere le campane
d'argento sopra il borgo e il suono rauco
delle colombe? Chiedi tu i mattini
trepidi delle tue prode lontane?

Come tutto si fa strano e difficile
come tutto è impossibile, tu dici.
La tua vita è quaggiù dove rimbombano
le ruote dei carriaggi senza posa
e nulla torna se non forse
in questi disguidi del possibile.
Ritorna là fra i morti balocchi
ove è negato pur morire; e col tempo che ti batte
al polso e all'esistenza ti ridona,
tra le mura pesanti che non s'aprono
al gorgo degli umani affaticato,
torna alla via dove con te intristisco
quella che mi additò un piombo raggelato
alle mie, alle tue sere:
torna alle primavere che non fioriscono.
tokonoma Oct 2014
This very dawn is just a white breath,
an obscene pain: a semblance
of you hardening my veins.
And my father wakes me up: asking
for car keys, but i'll need them
to see if i am seeing you
and then we fight. This october
annoys me and is cheating,
but what i meant is good for you too
you who, with your ecstatic moods,
never listen nor care, ever: as if
on certain days water comes even from the sun
and in mirror shop windows i’m all blue.
And there’s nothing like a ****
that can liberate from the future,
from the multitude of folds
and parts above, over which i identify,
as, on the other hand, all do. So i’m
seeking those private holy parts
and i immediately see yours, that you
reckon so distinguishable. That semblance
of yours, and its vessels, are as red as
bootyless burglars or amphorae,
turned to chamber pots
or spittoons. And
my mum shows up doing the math
about the month that’s not coming ; and yet she knows
that our rhythms are not alike .
Not that i’m feeling supportive gender empathy; rather,
i would not wish daughters like her. I’ll withdraw
if i hear them trot me out, in the room
that i want inadequate and warm; i’ll be
alone or with someone: i’ll disclose you
tomorrow on the phone, without telling you.
-----------------------------------------------------------
­Italian version, written in 1995

turbe vascolari

l’alba proprio bianca è un alito,
un dolore osceno: una parvenza
di te che indurisce le vene.
e mio padre mi sveglia: chiede
le chiavi della macchina, ma la macchina
mi serve per vedere se ti vedo
e litighiamo. quest’ottobre
disturba e mi tradisce,
ma quello che ** deciso è un bene anche per te
che non stai, con una certa tua aria estatica,
ad ascoltare né a sentire, mai: come
in certi giorni l’acqua viene anche dal sole
e nelle vetrine a specchio sono tutta azzurra.
e non c’è niente come un cazzo
che possa liberare dal futuro,
da questa moltitudine di pieghe
e parti sotto, sopra cui mi riconosco,
come, d’altra parte tutti. la cerco dunque
questa parte, privata e benedetta,
e penso subito alla tua, che credi che
si conosca cosí bene. quella sua
parvenza, e i vasi, sono rossi co-
me le vergogne di ladri senza refur-
tiva o anfore, a far pitali
o sputacchiere. e
mia madre arriva e fa di conto
sul mese che non torna; eppure sa
che i nostri ritmi sono differenti.
non che senta, io, solidale complicità di genere; anzi,
non vorrei figlie come lei. mi ritirerò se
li sentirò tirarmi in  ballo, nella stanza
che mi piace scarna e riscaldata; starò
da sola o con qualcuno: te lo telefono
domani, senza dirti niente.
Wörziech May 2014
Vindouras lágrimas de outras dimensões, de aleatórias caixas, de onde emanam as palavras que sustentam o tempo passado pensando e perdido em certa densa desordem por mim criada e alimentada; confusão estendida e desfocada que me faz, ainda hoje, perder o senso, obscurece a visão e me torna apropriadamente observador do incompreensível momentâneo. A tentar não expor o que não compreendo, não vejo calmaria ostentável, plano exponencial de trajetória constante, não vejo a solução vendida em caras garrafas italianas previamente datadas.
Faço uso da máquina para aliviar sua tensão perante tolas invenções por mim proferidas; também consulto meus cálculos lógicos de verdadeira atração; me vejo então este pacifico vivente, com todas as respostas para não fazer perguntas. O silêncio está duradouro e enlouquecedor.
Sabe aquela gota gelada durante o banho quente?
Então, nós acreditamos que pela intensidade que a água quente vem uma simples gota fria não causará incomodo algum
É nesse momento que nós entramos embaixo do chuveiro e vemos que o que pensavamos daquela gota é totalmente equivocado pois ela se torna a pior coisa do nosso banho
A distância pode ser vista da mesma forma que aquela gota fria
Pois nós acreditamos que pela intensidade do sentimento que temos por aquela pessoa a distancia não mudará isso, e é aí que nós percebemos que sim, ela consegue mudar esse sentimento.
O nosso afastamento me fez ver que as coisas não são mais como antes
O nosso amor deu alguns passos para trás
Os nossos planos se transformaram em nossas ilusões
Nossas lembranças se transformaram em sofrimento
E sim, eu só lamento, sei que as coisas do destino não tem saída
E sei que devemos olhar pra frente e seguir nossas vidas!
Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l'aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! Allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l'aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre dè servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.
Né mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sé, ma perché tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol dè malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch'** appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l'allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell'arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M'era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! Sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m'avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell'imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d'affanno.
E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
Dè miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai cò silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia! ) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
O Nerina! E di te forse non odo
Questi luoghi parlar? Caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond'eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
Inés es joven: en su faz hermosa,
Luchando están como Hércules y Anteo,
El carmín pudibundo de la rosa,
Con la avarienta lumbre del deseo.

Torna los corazones en despojos,
Pues tiene en su diabólico albedrío,
Miel en sus frases, dardos en sus ojos
El alma en ascuas y el semblante frío.

Es blanca en su exterior como azucena
Negra en su fondo cual la noche oscura;
Roja adelfa es su boca, que envenena
Al que una gota de su miel apura.

A fuerza de sufrir, lleva consigo
Tal odio al mundo que su planta pisa,
Que, engañando al amante y al amigo,
Usa como una máscara la risa.

Visita los altares, y allí brota
De sus labios y en público la queja:
Que por ganar la fama de devota,
Ha dado, siendo joven, en ser vieja.

Cansada al fin de dar funesto ejemplo,
Suelta un ***** mantón sobre su talle,
Y aunque igual en la calle y en el templo,
Hoy ha cambiado el templo por la calle.

En la humildad con que su rostro juega,
Se juntan lo piadoso y lo pagano:
Un correcto perfil de estatua griega,
Y el colorido del pincel romano.

Tan modesta se viste, y tan seguido
Se la mira en el templo lacrimosa,
Que son juntos su faz y su vestido,
Hábito y faz de austera religiosa.

Cuando se haiia en el templo arrodillada,
Rezando en alta voz con gran tristeza,
La gente que la ve dice asombrada:
«Inés es muy devota porque reza».

Los ojos bajos y la faz contrita,
Trémulos y turbados sus acentos,
Toma y lleva a su frente agua bendita,
Para ahuyentar los malos pensamientos.

Se ven correr las cuentas del rosario
Entre sus dedos de alabastro y grana,
Como en el blanco lirio solitario
Las perlas de la púdica mañana

Cuantos miran a Inés rezar sumisa,
Y oyen la voz con que piedad implora,
Y ven que, puesta en cruz, toda la misa,
Solloza, ruega, se estremece y llora;

Al ver su rostro en lágrimas deshecho,
Con santa unción resplandecer ufano;
Las reliquias que cuelgan de su pecho,
Las novenas que tiemblan en su mano;

Juzgan verdad su devoción sagrada,
Cierta juzgan su mística tristeza,
E ignoran que la dama arrodillada
No viene a orar... y, sin embargo, reza.

Entre orar y rezar hay un abismo,
Que ni medir ni escudriñar me toca:
El rezo y la oración no son lo mismo,
Que no es lo mismo el alma que la boca.

Inés, del templo en la imponente calma,
Por rendir culto a Dios, le infiere agravios:
Su rezo está en la boca, no en el alma...
¡La oración en el alma, no en los labios!

La dulce fe de sus primeros días
Mataron en Inés los desengaños,
Y hoy reza en alta voz Avemarías
Iguales: ¡ay! a las de aquellos años.

¿Qué son las tiernas frases de su boca?
Gritos que aturdirán su propio duelo...
Flores con que su afán cubre una roca
Coronada de témpanos de hielo.

Víctima de su gracia y su belleza,
Tiene Inés una historia de dolores.
Y recuerda su historia cuando reza,
Queriendo despertar tiempos mejores.

Rezando sin orar, en voz muy alta,
Ofende al templo del Señor, sagrado,
Pues pone allí, para encubrir su falta,
El rezo como escudo del pecado.

Es incrédula, y júzganla creyente;
Llena con falso culto el alma hueca,
Y así a la faz de Dios rezando miente,
Y el mundo ignora que rezando peca.

¡El mundo! Vedlo... toma como ejemplo
De santa unción a Inés que está llorando...
¿Ejemplo? Sí: de las que van al templo,
Hijas del mal, para pecar rezando.

¿Cómo ensalzar sus aparentes galas
De misticismo y devoción? -¡Del cielo
Es la oración, que, al agitar sus alas
Ni polvo ni rumor alza en el suelo!
Mariana Seabra Sep 2022
Não são os outros! Nunca foram os outros.

Não é o lugar! Nunca foi o lugar.

Sou eu!



Já quis partir em retiros para o Tibete. Ou em viagens espirituais para a Tailândia. Já quis correr o mundo à procura de algo que só podia encontrar em mim. Parece-me interessante, aliás, ainda o quero fazer pela pura necessidade que tenho de experienciar. No entanto, é inútil. É mirar ao fracasso, e é condenação interior a uma busca incessante que não traz paz, só traz correria desenfreada, sem meta final onde possa descansar, uma armadilha que me obriga a jogar por algo que nem vale a pena ganhar.
Prefiro a tranquilidade que me consigo proporcionar. Em vez de correr, prefiro caminhar. Prefiro aceitar a incompletude, para não ter de me andar a perseguir por lugares onde nem sequer passei. Prefiro pensar no que tenho. Prefiro aceitar o que tenho. Prefiro limar o que tenho. Prefiro amar o que tenho. Não me falta peça nenhuma! Só me falta descobrir uma maneira de lhes dar sentido... de me ordenar.

É inútil acharmos que temos de sair do sítio para viver e, consequentemente, evoluir ou mudar, ou correr de lugar para lugar, à procura da essência mais profunda que nos constrói. Quando as raízes são profundas, não há razão para temer o vento! O nosso cérebro não sabe distinguir entre a experiência vivida e a experiência imaginada, para ele é tudo igual. Somos biliões de informações! a que este magnífico pedaço de ***** cinzenta atribui significado. Experiências reais ou imaginárias, que se convertem em memórias, memórias que ganham uma nova vida de cada vez que as recordamos, histórias que repetimos a nós e aos outros, até sermos só pedaços daquilo que lhes contamos.

Prefiro esquecer!
Escrevo as histórias que nunca contei, para depois as tentar esquecer...

Só me oriento pelas minhas próprias pegadas e, quando escrevo é apenas através de experiência pessoal. Não recorro à generalização de vivências tão únicas, mas, como admito ser-humana, sei que por muitos outros são partilhadas, e sem o meu consentimento, generalizadas. Nasci para escrever poesia, mas não sei se nasci para ser poeta. A escrita é um dissecar do próprio íntimo. Escrever é sangrar para o papel. E se o que eu escrevo fizer sentido para um outro alguém, então ótimo, é como se partilhássemos o mesmo abraço enquanto o meu poema durar. E se o que eu escrevo não fizer sentido para ninguém, não importa. Escrevo para mim. Qualquer outra pessoa que me tente ler, irá observar-me através de um vidro duplamente espelhado. O que pensa observar de mim é, nada mais nada menos, do que o seu reflexo a acenar de volta para si. Porque a poesia é assim! dizem-me que não pertence a quem a escreve
mas sim
a quem a lê.
Sou do contra, não vivo à vossa mercê! A poesia é minha! O amor é meu! A dor é minha! E se a estou a partilhar, não é por motivos altruístas, não quero ser vista nem entendida. E se a estou a partilhar, é só porque estava sufocada, porque o poema já me estava a arder nas veias, muito antes do próprio poema começar. E se o estou a partilhar, é porque não tive escolha, era escrever ou morrer! e depois de estar cá fora, depois do fogo apagar, depois das cinzas pousarem e da ferida parar de jorrar... só depois, muito depois, é que uso o meu discernimento, volto atrás no tempo e decido se o vou partilhar, ou se é só meu, e de quem me veio inspirar.

Sou líder de mim mesma!

Sento-me na mesa-redonda do Eu e converso com todos os meus familiares, amigos, parceiros, desconhecidos, inimigos, anjos e demónios, todos com a minha cara, todos com a minha maneira de pensar, todos a olhar de volta para mim à espera que comece a falar...Quem diria, que de uma mesa tão cheia e diversificada, poderia comprimi-la, agrupa-la numa só pessoa, com uma única fachada virada para o exterior! Adoro a complexidade que de mim emana! Adoro ser várias, e ao mesmo tempo ser coesa. Ser o sol que mantém todas de mim em órbita, a força universal que me mantém presa,
Fiel a quem sou,
Com alma pura e coração digno de entrar na corte real da nobreza.
Entro em longos debates com todas as versões de mim, sobre qual de nós seguir. Creio que, desde tenra idade, tornei-me boa ouvinte para dentro. O dito mundo real não me bastava, muito menos me alegrava ou inspirava, então, recuei. Retraí-me para o vasto mundo interior da minha mente e, inventei mundos novos. Foi assim que descobri a melhor companhia que podia ter. Nunca me sentia sozinha, desde que me tivesse presente. Depois de aprender a escutar o que vem de dentro, aprendi a escutar o que vem de fora. No final do debate, decido seguir a mim mesma. Nenhuma de mim ficará para trás! Nem as que já morreram e tive de enterrar! mesmo que não saiba para onde seguir. Talvez em frente. Diria que, por esta altura, seguir em frente é uma especialização minha.  

Como qualquer líder, às vezes também me falho.

Como qualquer líder, debruço-me obsessivamente sobre as falhas até descobrir como as preencher. Puno-me por elas e, finalmente, permito-me aprender.  

Como qualquer líder, sou consumidora assídua de pequenas e grandes lições.

Como qualquer líder, cometo erros. E, como qualquer líder, tento não repetir os mesmos.  

Só não sou como qualquer líder. Não nasci para guiar outros, porque também eu estou perdida. Não quero que me sigam! Aliás, se for possível, sigam o caminho oposto ao meu. E não me peçam para vos seguir! Só me sei seguir a mim, e mal.  

Nasci para desbravar o mato à machadada, na exata medida em que for avançando nele. Não me ofereçam florestas já desbravadas! Fiquem lá com elas. Não me ofereçam sonhos que não me pertencem! Prefiro deitar-me mais cedo para ter os meus. Não me vendam a vossa verdade! É um negócio sujo, onde eu ficaria sempre a perder. A verdade do outro, que fique o outro com ela. Prefiro explorar a minha.  

Deixem-me ir!

Quero ver por mim. Ouvir por mim. Tocar por mim. Cheirar por mim. Saborear por mim. Cair por mim. Levantar pela minha própria mão. Vivam as vossas experiências e deixem-me viver as minhas!  

Deixem-me tirar as minhas próprias conclusões! Tomá-las como certas, só para mais tarde descobrir que estão erradas. E está tudo bem, crescer é mesmo isso.  

Deixem-me ser mutável! Não me queiram vendada, de ideias fixas ou radicalizadas. Sou adepta do equilíbrio, apesar de nem sempre o conseguir manter. No meu mundo tudo tem permissão para existir, simultaneamente. Todos têm permissão para ser. Há um espaço invisível sem paredes para o delimitar, um lugar inspirado no Lavoisier, onde nada se perde, nada se cria, tudo se pode transformar.

Deixem-me ser! Só peço que me deixem ser! E serei feliz, mesmo na minha profunda infelicidade.  

Nasci para ser uma selvagem autodomada. Uma líder seletivamente dedicada. Uma humana fortemente frágil, com uma beleza feia, como me dizia uma bela cigana, e obcecada com a sua própria caminhada.  

Posso viajar para o sítio mais lindo do universo! Posso deslocar os olhos pelas mais belas paisagens! Posso conhecer os seres mais fascinantes! Posso ler as palavras mais requintadas! Poderia até beber da fonte da juventude eterna!  

Mas se eu não estiver em mim, se não estiver comigo, não há nada. Não há nada! Não há coisa alguma que chegue até mim se eu não estiver dentro de casa para a receber, para lhe abrir a porta, cumprimenta-la com um sorriso, um olhar cativo de quem está lá para a acolher. Não há beleza que me toque, porque não há ninguém cá dentro para ser tocado. Às vezes, viro uma casa assombrada. Abandonada, com vida morta. Há o receptáculo! Esse fica, até que a Terra decida vir recuperá-lo e, com todo o direito, levá-lo de volta para si.  Há o corpo em piloto automático, só não há a alma que o irradia, ou que o faça completo.  

Sei quando estou comigo. Tal como sei quando me abandono. "Só não sei para onde vou de cada vez que me decido abandonar", isto foi outra coisa que aquela bela cigana que me disse, ou estarei a sonhar? A realidade e o imaginário tornam-se mais difíceis de separar.
Onde me escondo de mim mesma?
Sou mestre a desaparecer, sem aviso prévio de quando irei voltar...se irei voltar. Que péssimo hábito! Que mecanismo de defesa ridículo! Foi uma maldição que me deitaram e, agora, tenho de a conseguir quebrar.
Tenho de me quebrar!...
Abrir-me até ao meu interior, olhar para dentro do poço, mesmo que me dê vontade de vomitar, principalmente, quando me dá vontade de vomitar...por mais que me custe olhar. Não posso desviar o olhar! Tenho de remexer nas minhas entranhas, sentir nas minhas mãos o que está avariado, e descobrir como o remendar.
E quebro-me! vezes sem conta. E pego nas peças que estilhacei contra o chão, e corto-me com elas, e brinco com elas, e algures, a meio desta sádica brincadeira, há uma ou outra que decide encaixar, e dão-me sentido, uma nova forma, um eu mais polido, mais perto de nunca ser perfeito e completo.

Percebo quando me vou. Fica tudo mais *****. O vazio absorve-me. O mundo desaponta-me. A poesia desaparece. O barulho do silêncio torna-se ensurdecedor. O corpo mexe-se, mas não age. O olhar fica turvo e as lentes que uso não me permitem ver com clareza. A empatia vira apatia. A falta de emoções torna-me robotizada. Não há amor! É ensurdecedor! Não há amor...

A magia que me move decide esconder-se de mim. Não sei se para brincar comigo, não sei se para me provocar, não sei se para despertar a besta que dorme sossegada. Só sei que, de tempo a tempo, a minha alma decide jogar à apanhada e é a primeira a escapar. Alma rebelde e insurreta! Nunca te ensinei a ficar! Perdoa-me, por favor, também não me ensinaram a mim. Mas, ao menos, ensinei-te a voltar. Depois, como que por infantilidade, ou talvez por vontade de regressar a casa, começa a sussurrar-me...Ouço-a chamar baixinho por mim e, lá vou eu toda contente atrás dela, deixo o seu jogo continuar, só por curiosidade de desvendar até onde é que ela vai, onde é que ela pretende levar-me.

Quanto mais me aproximo de mim, mais cores se erguem à minha volta. A paz invade-me e reconquista o seu devido território no meu peito. A poesia ressurge e faz-me ressurgir.  O silêncio volta a ser música para esta alma sensível. O corpo age com intenção. O olhar fica cristalino e escolho ver o mundo através de lentes que o retratam mais bondoso, pelo menos para mim. As emoções retomam o seu percurso natural no meu sistema, com a intensidade de vulcões ativos. A empatia é reflexo do amor que sinto e que transborda. A magia mastiga-me e cospe-me para o mundo em forma de luz.  



De tempo a tempo, perco-me de mim.

De tempo a tempo, reencontro-me.  

E, deste tempo que se aproxima, só quero uma coisa: quero voltar a mim!

Quero abraçar-me! como se estivesse a despedir-me do amor da minha vida, às portas do aeroporto. Quero acarinhar-me e amar-me. Quero voltar a mim!

Quero ver o que vou encontrar quando a mim regressar.  

Perco-me de mim. Demasiadas vezes, perco-me de mim.  

Quando me reencontro, já não estou no ponto onde me perdi. Já sou uma mistura entre aquela que se perdeu e a que está prestes a renascer. Diria que passo muito tempo no limbo da existência e da não existência. 

Quando me reencontro, sou algo diferente. Quem sabe melhor, quem sabe pior...essas reflexões deixo para os que me oferecem opiniões não solicitadas. Sei que sou algo diferente, o resto é ruído.  

Nasci para criar. Nasci para me reinventar.  

Dito isto, acolho a destruição e o caos que vem de dentro como parte do meu processo de criação pessoal.  

Disto isto, quando me reencontrar, é só uma questão de tempo a tempo para me voltar a perder.
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t'attende dalla sera
in cui v'entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.

Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all'avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.

Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s'addipana.

Ne tengo ancora un capo; ma s'allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
nè qui respiri nell'oscurità.

Oh l'orizzonte in fuga, dove s'accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende... ).
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
Se la ruota si impiglia nel groviglio
delle stesse filanti ed il cavallo
s'impenna tra la calca, se ti nevica
fra i capelli e le mani un lungo brivido
d'iridi trascorrenti o alzano i bambini
le flebili ocarine che salutano
il tuo viaggio e i lievi echi si sfaldano
giù dal ponte sul fiume
se si sfolla la strada e ti conduce
in un mondo soffiato entro una tremula
bolla d'aria e di luce dove il sole
saluta la tua grazia-hai ritrovato
forse la strada che tentò un istante
il piombo fuso a mezzanotte quando
finì l'anno tranquillo senza spari.

Ed ora vuoi sostare dove un filtro
fa spogli i suoni
e ne deriva i sorridenti ed acri
fumi che ti compongono il domani;
ora chiedi il paese dove gli onagri
mordano quadri di zucchero dalle tue mani
e i tozzi alberi spuntino germogli
miracolosi al becco dei pavoni.

(Oh, il tuo carnevale sarà più triste
stanotte anche del mio, chiusa fra i doni
tu per gli assenti: carri dalle tinte
di rosolio, fantocci ed archibugi,
palle di gomma, arnesi da cucina
lillipuziani: l'urna li segnava
a ognuno dei lontani amici l'ora
che il gennaio si schiuse e nel silenzio
si compì il sortilegio. È carnevale
o il dicembre s'indugia ancora? Penso
che se muovi la lancetta al piccolo
orologio che rechi al polso, tutto
arretrerà dentro un disfatto prisma
babelico di forme e di colori... )

E il natale verrà e il giorno dell'anno
che sfolla le caserme e ti riporta
gli amici spersi e questo carnevale
pur esso tornerà che ora ci sfugge
tra i muri che si fendono già. Chiedi
tu di fermare il tempo sul paese
che attorno si dilata? Le grandi ali
screziate ti sfiorano, le logge
sospingono all'aperto esili bambole
bionde, vive, le pale dei mulini
rotano fisse sulle pozze garrule.
Chiedi di trattenere le campane
d'argento sopra il borgo e il suono rauco
delle colombe? Chiedi tu i mattini
trepidi delle tue prode lontane?

Come tutto si fa strano e difficile
come tutto è impossibile, tu dici.
La tua vita è quaggiù dove rimbombano
le ruote dei carriaggi senza posa
e nulla torna se non forse
in questi disguidi del possibile.
Ritorna là fra i morti balocchi
ove è negato pur morire; e col tempo che ti batte
al polso e all'esistenza ti ridona,
tra le mura pesanti che non s'aprono
al gorgo degli umani affaticato,
torna alla via dove con te intristisco
quella che mi additò un piombo raggelato
alle mie, alle tue sere:
torna alle primavere che non fioriscono.
Mientras Juárez indomable
Va a los desiertos del Paso
A defender su bandera,
Firme como un espartano;
En Méjico, sostenido
Por el invasor extraño
Se erige un trono y le ocupa,
Más que ambicioso, engañado,
Un ilustre descendiente
Del más grande de los Carlos.

Joven, soñador y apuesto
Asciende a lugar tan alto,
Sin ver que a lo lejos flota
El pendón republicano,
Y sin recordar que el pueblo
Por quien, se sueña llamado,
En otro tiempo a un monarca
Lanzó del trono al cadalso

Recibiéronle animosos
Los que el cetro le entregaron,
Y al entrar por nuestras calles
Fue tan grande el entusiasmo
Que del nuevo rey los ojos
No pudieron, deslumbrados,
Mirar que las bayonetas
Que lo estaban custodiando
Eran de extranjeras tropas
Capaces de abandonarlo
Joven príncipe, ¿a qué vienes
¿Por qué dejas tu palacio
En medio de las azules
Ondas del Mediterráneo
Como un nido de gaviotas
Sobre un peñón solitario?

Este cielo azul no es tuyo,
No son tuyos estos lagos,
Ni estos sabinos del bosque
Que de viejos están canos.

Nada es tuyo, nada entiende
Tu acento, nada ha guardado
Cenizas de tus mayores
Que en otras tierras brillaron.

Tu sangre azul no es la sangre
De Cuauhtemoc ni de Hidalgo;
Cuanto te cerca es ajeno,
Cuanto te vela es extraño.

Príncipe noble ¿a qué vienes?
¿Por qué dejas tu palacio
Y aquellas ondas azules
De tu hermoso mar Adriático?

En medio de las tormentas
Que se alzarán a tu paso,
Cuando pronto te abandonen
Los que te están custodiando,
Hallarás como consuelo.
Como abrigo, como amparo,
La firmeza y el arrojo
Del soldado mejicano
Que cumple con su bandera
Satisfecho y resignado.

¡Torna príncipe al castillo
Donde viviste soñando,
Que por las gradas de un trono
Subir se puede a un cadalso!
Con inusitada pompa
En el ya imperial palacio
Se celebran los natales
Del reciente soberano.

Ya las guardias palatinas
De uniformes encarnados
Apuestos forman la valla
Luciendo adargas y cascos.

Ministros y chambelanes,
Consejeros y vasallos,
Ostentan con arrogancia
Sus pechos condecorados.

El salón de embajadores
Por su lujo aristocrático,
Recuerda a los que lo miran
De antiguos tiempos el fausto.

De pronto, por todas partes
Se extiende un rumor extraño
Y es que las gradas del trono
El Archiduque ha pisado.

Diversas clases sociales
Deben de felicitarlo
Y ya están los oradores
Por cada clase nombrados.

Un jurisconsulto experto,
Elocuente, pulcro y sabio
Es de la magistratura
El representante nato.

Le toca el lugar primero,
Habla con acento claro,
Con respeto se le escucha,
Se le mira con agrado,
Y estudio y saber revela
Cada frase de sus labios.

Su discurso no fue breve,
Su estilo elegante y franco
Y al acabar dijo alguno:
¡Bien por Lares! anhelando
Aplaudirlo, sin hacerlo
Por respeto al soberano.

Con elegancia vestido
Al clero representando
Se acercó un obispo al trono
Y dijo un discurso largo,
Lleno de notas y citas
Latinas, propias del caso.

Era el orador de fama
Por su elocuencia y su rango,
Célebre en aquellos tiempos
Entre oradores sagrados.

«No estuvo corto Ormachea»
Dijo después de escucharlo
Alguno a quien ya cansaba
La severidad del acto.

Nuevo rumor se produjo
Después en aquellos ámbitos
Al ver que al trono llegaba
A paso lento un soldado
De cabellos y ojos negros,
Tez cobriza, aspecto huraño,
Descendiente de las razas
Que en Anáhuac habitaron
Antes de que la conquista
Empobreciera a sus vástagos.

¡Formaba contraste brusco
La oscura tez del soldado
Con la tez brillante y blanca
Del Archiduque germano!

Quedó el indígena absorto,
Meditabundo y cortado,
Sin articular palabra,
La frente y los ojos bajos.

¿Quién es? preguntó un curioso
Y le respondió un anciano:
Se llama Tomás Mejía,
Y es general reaccionario:
Viene a hablar por el ejército.
-¿Y él hizo el discurso?
                                  -Varios
Le escribieron y ninguno,
Según dicen, le ha gustado;
El que dirá lo habrá escrito
O Muñoz Ledo o Arango

-Escuchemos:
                      -Trascurrían
Unos minutos muy largos;
Mejía estaba en silencio
Todo tembloroso y pálido,
En silencio los presentes
Y en silencio el soberano.

De pronto ven con asombro
Que el indígena soldado,
Abriendo los negros ojos
Que brillaban animados,
Perora sin dar lectura
Al papel que está en sus manos

-«Majestad -calló un momento;
Majestad -siguió turbado
Majestad -yo no he aprendido
Lo que otros por mí pensaron,
Pero si usted lo que busca
Es un corazón honrado,
Que lo quiera, lo respete,
Lo defienda sin descanso
Y la sirva sin dobleces,
Sin interés, sin engaño,
Aquí está mi corazón,
Aquí están, señor, mis brazos
Y en las horas de peligro,
Si al peligro juntos vamos,
Lo juro por mi bandera,
Sabré morir a su lado».

Con lágrimas en los ojos,
Trémulo Maximiliano,
Las fórmulas de la corte
Por un instante olvidando,
Bajó del trono y al punto
Dio al General un abrazo,
Que aplaudieron los presentes
Con lágrimas de entusiasmo.
Cayó el Príncipe más tarde
Y con él cayó el soldado
Que le dijo esas palabras
Llenos los ojos de llanto.

A don Tomás le ofrecieron
Del patíbulo salvarlo
Y él respondió: «Solamente
Que salven al soberano».

Un general victorioso,
De gran poder y alto rango,
Que le estaba agradecido
Por algún hecho magnánimo,
Fue y le dijo: «Yo podría
Lograr veros indultado;
Os estimo y necesito
A toda costa salvaros.
¿Queréis que os salve? decidlo,
Que no me daré descanso
Hasta que al fin me concedan
Lo que para vos reclamo».

-«Sólo admitiré el indulto,
Respondió el indio soldado,
Si me viene juntamente,
Con el de Maximiliano».

-Me pedís un imposible.
-Pues me moriré a su lado.
-Pensad que tenéis familia.
-Tan sólo a Dios se la encargo.

-Soy capaz de protegeros
Si os resolvéis a fugaros.
-¿Yal Emperador? -No; nunca.
-Pues su misma suerte aguardo.

Y como lo sabe el mundo,
Juntos fueron al cadalso
Y así selló con su sangre
Lo que dijeron sus labios.
¿te molesta que roa tu techo,
tu silencio?

Pero dime
-si puedes-
¿qué haces,
allí,
sentado,
entre seres ficticios
que en vez de carne y hueso
tienen letras,
acentos,
consonantes,
vocales?

¿Te halaga,
te divierte
que te miren,
se acerquen,
Y den vueltas y vueltas
antes de permitirles
echarse,
como un perro,
en tus páginas yertas?

Podrá tu pasatiempo ser harto inofensivo;
pero alguien que posee los dientes más prolijos,
más agrios que los míos,
al elegir la víscera que ha de roerte un día
-si es que ya no se aloja en una de tus venas-,
torna estéril y absurdo
ese fútil designio de escamotear la vida.

Allí están las ventanas
que te dan un pretexto
para abrir bien los brazos.

Asómate al marítimo
bullicio de las calles.

¿No oyes una sirena que llama desde el puerto?...
Krusty Aranda Aug 2016
Las palabras eran balas que disparaba con los dedos.
Acariciaba las teclas de la máquina de escribir con delicadeza y pasión.
Vertía sus emociones, sus desgracias, sus alegrías, sus dolores, todas en una blanca hoja de papel.
La tinta nunca dejaba de correr.
Mayúsculas y minúsculas.
Puntos, comas y acentos.
Letras, números y símbolos.
Un teclado completo para experimentar.
Combinaciones de letras, de palabras, de sentimientos, de ideas.
Un libro o un poema.
Una canción o una novela.
Un ensayo o un sólo verso.
El escribía y tecleaba, y tecleaba y escribía.
Escribía para sí.
Escribía para todos.
Escribía para ella, sobre todo.
Y tecleaba y escribía.
Y sus dedos no cansaban.
Su lírica no dormía.
La prosa que antes sostenía.
El epíteto que añoraba.
Y sus lágrimas palabras.
Y su sangre tinta en verso.
El latir de su corazón marca el ritmo del tecleo.
Y escribía y tecleaba.
Mente llena de problemas, de ideas, de emociones, de fantasía.
La realidad se torna inefable.
Las palabras aún fluyen.
Los sentimientos se escabullen y se esconden en una rima.
Ella se disfraza en papel de apología.
Y tecleaba y escribía, y escribía y tecleaba.
Meus caros, eu vi!
Quem sabe num sonho, ou talvez não fosse exatamente um sonho
Quem sabe as luzes estivessem baixas demais
E a escuridão que promove vultos, houvesse enegrecido minha mente
-Entorpecido por meus próprios pensamentos-
Ali estava, a visão atemporal da existência

Trafegando por aterradores espaços infinitos
A escuridão assombrava o devastado pântano das almas amaldiçoadas
ouvia-se os gritos daqueles que encontravam ali o fatal destino
Os mortos que estavam aprisionados ansiavam por companhia
Uma fumaça fétida pairava sobre as águas apodrecidas
Animais se decompunham retidos pela lama pegajosa
Vermes se proliferavam naquele ambiente hostil enquanto o atormentador zumbido de moscas preenchia o silêncio daquele lugar horrível
As criaturas mais horrendas e bestiais ali faziam sua morada
à espreita das desavisadas presas que por aquele caminho se perderam

Há um homem perdido em seus próprios passos
Ele caminha ao longo da estrada
Entre-a-vida-e-a-morte
Ele está vivo, mas nunca viveu
Como também está morto, sem de fato ter morrido
Anseia por luz, mas se perde na escuridão do pântano

O bater de asas dos abutres lhe contam que tudo é um sonho, mas também uma profecia
Abaixo da árvore da vida sete urubus mortos estão se decompondo
Não há quem possa devorar seus cadáveres apodrecidos
Uma formosa águia sobrevoa o pântano
Sete ratos tentam se esconder
Sete cobras tentam fugir
Mas a águia devora os sete ratos
E também devora as sete cobras

O homem se torna dois, e um terceiro que não é homem
Ambos deverão transitar pelo inferno
Arrastar-se pela terra infértil da morte
Um morrerá para si mesmo
E renascerá como a fênix mitológica
O outro morrerá eternamente
Consumido pela legião de sombras
Sua tristeza será incomensurável
E como se uma ira brotasse em seu âmago
E uma dor gigantesca consumisse todo o seu ser
Sem derramar uma lágrima
Mergulhará sua existência nas águas esquecidas do Lethe
Embora o primeiro igualmente experimentasse dor tamanha
Ele encontrará seu guia dentro de si mesmo
Pois o guia na escuridão é a luz
Na luz nenhuma escuridão prevalece

O terceiro é como se jamais existisse
Permanecendo no limbo do crepúsculo
Sem dormir ou acordar
Apodrecendo como os urubus mortos aos pés da árvore da vida
Sem jamais experimentar seus frutos

Os três se tornam um só novamente
Mas algo havia mudado
Já não poderia mais ser o mesmo

E como num súbito – abri meus olhos
Não poderia ter sido um sonho
Por mais que estivesse sonhando…
Meus caros, eu vi!
Hoje acordei e encontrei na rua frutos da vida,
Penduradas numa mente distante, doces vivencias,
Sim alguém falava comigo com mente sofrida,
Como eu, como tu, todos temos diferencias.

Simplesmente é complicado simplificar o fácil,
Essa é a minha dor, era a sua dor, é a dor do mundo
Não é fácil entender Deus no sentimento profundo,
Quer que amamos a família sendo comunidade volátil.

Aí a mente divaga, fumega e se acomoda na facilidade,
Facilidade, que na real não é fácil e complica o nosso dia,
Enfim que adianta dizer a alguém que por ele se morria,
Se tendo ele sede, lha saciar se torna grande dificuldade!

Então eu penso que porquê prometer se não quero fazer,
Porquê não fazer, se ajudar me daria tanto orgulho e prazer,
Serão acomodação a algo que não sabemos explicar ou dizer,
Será o corpo que segura e rompe com a mente para te ver morrer!

Autor: António Benigno
Código de Autor: 201608051243.08.01

— The End —