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tangshunzi Jul 2014
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Spanish

Fuera, la noche en veste de tragedia solloza
Como una enorme viuda pegada a mis cristales.

  Mi cuarto:…
Por un bello milagro de la luz y del fuego
Mi cuarto es una gruta de oro y gemas raras:
Tiene un musgo tan suave, tan hondo de tapices,
Y es tan vívida y cálida, tan dulce que me creo
Dentro de un corazón…

    Mi lecho que está en blanco es blanco y vaporoso
Como flor de inocencia,
Como espuma de vicio!
  Esta noche hace insomnio;
Hay noches negras, negras, que llevan en la frente
Una rosa de sol…
En estas noches negras y claras no se duerme.

  Y yo te amo, Invierno!
Yo te imagino viejo,
Yo te imagino sabio,
Con un divino cuerpo de marmól palpitante
Que arrastra como un manto regio el peso del Tiempo…
Invierno, yo te amo y soy la primavera…
Yo sonroso, tú nievas:
Tú porque todo sabes,
Yo porque todo sueño…

    …Amémonos por eso!…
    Sobre mi lecho en blanco,
Tan blanco y vaporoso como flor de inocencia,
Como espuma de vicio,
Invierno, Invierno, Invierno,
Caigamos en un ramo de rosas y de lirios!





              English


    Outside the night, dressed in tragedy, sighs
Like an enormous widow fastened to my windowpane.

    My room…
By a wondrous miracle of light and fire
My room is a grotto of gold and precious gems:
With a moss so smooth, so deep its tapestries,
And it is vivid and hot, so sweet I believe
I am inside a heart…

    My bed there in white, is white and vaporous
Like a flower of innocence.
Like the froth of vice!
    This night brings insomnia;
There are black nights, black, which bring forth
One rose of sun…
On these black and clear nights I do not sleep.

    And I love you, Winter!
I imagine you are old,
I imagine you are wise,
With a divine body of beating marble
Which drags the weight of Time like a regal cloak…

Winter, I love you and I am the spring…
I blush, you snow:
Because you know it all,
Because I dream it all…

    We love each other like this!…
    On my bed all in white,
So white and vaporous like the flower of innocence,
Like the froth of vice,
Winter, Winter, Winter,
We fall in a cluster of roses and lilies!
solenn fresnay May 2012
Alors pourquoi juste maintenant?
C’était une nuit sur Bagneux
Nous étions mercredi soir à la station Montparnasse-Bienvenüe
Je portais ces mêmes vêtements noirs et ma veste grise achetée en Italie
Il ne faisait pas trop froid
Je rentrais chez moi, vingt heures
Mon regard croisa celui d'une jeune femme d'à peu près mon âge
Jolie, mince et calme, le visage d'opale et les deux pieds bien posés au sol
Avec insistance je la regardais
Elle me faisait tellement penser à celle que je n’arrive pas à être
Fixant le quai d'en face
Le métro était censé arriver dans une minute
Quand soudain
La tête me tourna
Je ne contrôlais plus aucun de mes mouvements
Je me suis approchée du mur, m’y suis appuyée tant bien que mal juste pour ne pas tomber
Et là, je ne sais pas très bien pourquoi
Mais la jeune femme que je ne cessais de regarder sauta sous la rame.

L’insupportable bruit
L’électricité
Le corps en mille morceaux
Les gens qui hurlent
Le métro qui s'arrête juste devant cet embrasement
Pourtant moi
Moi
Je ne disais rien
Je m'accrochais tant que je pouvais au mur
J'avais si peur de glisser à mon tour

Pourquoi elle
Elle était si jolie, si fine et si calme
Aucune rature sur son visage d'opale
Rien
Tandis que moi...
Ce n’était qu’une autre nuit sur Bagneux.
Listen to this poem here:
http://soundcloud.com/solennfresnay/die-gosse-1
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
A minha Iansã não veste vermelho.

Nem uma gota de vermelho.

Nada.

Calcinha, sutiã, nada de vermelho.

É a senhora das Iansãs ,

Oyá Balé !

Ela destruiu uma cidade na África.

Ela é o vento.

Ela mora no cemitério.

É a Santa Bárbara dos cemitérios.

Ela entra muda e sai calada.

Essa menina é impacto de beleza, o ápice do exagero.

Quando ando zanzando pelos becos e as vielas

Sua voz se faz ouvir no sereno

Cantando Caetano pela voz de Betânia

E faz assépsia total da minha cabeça.

"Abelha rainha
Faz de mim o instrumento do seu prazer."
Áureos buriles en pulido mármol
Graben su nombre; que su busto esplenda
Alto y severo; que su sien decore
Lauro apolíneo.

Musa del bardo que cantó las hondas
Selvas y ríos de la patria... Musa
Libre del Ande, que a su tumba vienes,
¡Pliega las alas!

Ara intocada de su ardiente culto
Fue siempre el Arte; y con unción votiva
Dio, como ofrenda a los eternos Númenes,
Ánforas bellas.

Arcade nuevo, de la selva andina
Hizo, en sus cantos, a los dioses templo;
Y ellos oyeron, de su lira acorde,
Clásicos ritmos

Himnos los suyos armoniosos fueron,
Cantos de hosanna, que cual triunfo vibran
Hoy, cuando extraños ¡Poesía sacra!
Ajan tu veste;

Veste que siempre fulguró distante,
Peplo de diosa en consagrado plinto,
Y hora, arambeles que en el hombro lleva
Vulgo profano.

Frentes se inclinan a su paso. El cielo
Radia en fulgores, y el silencio crece;
Y óyese, lejos, en azul de altura
Vuelo de águilas.

Raudo desfile sobre erial galopa...
¡Potros salvajes que cantó! Las crines
Sueltas al aire... y al tropel de cascos
Tiembla la pampa.

Potros pamperos... ¿Los oís? De polvo
Nubes levantan, y al tocar la cumbre
Rápido el viento, retrasado vuela,
Vuela tras ellos.

Rojas corolas cual la sangre suya,
Ecos de bosques y armonías altas,
Fueron de su alma, segador de ensueños,
Lírica siega.

Frente a sus ojos se extendió anchurosa
Selva de siglos, con inmensas aguas;
Tierra fecunda, y el azul cortando
Fúlgido el Huila.

Toda la tierra tropical; e inmenso
Campo a su vista, con hervir de savia;
Y ávido entonces de laureles, hizo
Suya la selva.

Sueña una garza en su visión de bosque,
Tiende a las ondas el nevado cuello,
Y alza en el pico, destellando en iris,
Vivida escama.

Fue claro río que en radiantes días
Ceibas y palmas contempló en sus ondas,
Y albo de espumas, reflejó de noche
Rubias estrellas.

Diáfano el cielo palpitó en su canto,
Alas de cimas por sus versos se oyen,
Y álzase de ellos, cual de vasos níveos,
Hálito eterno.

Áureos buriles en pulido mármol
Graben su nombre; que su busto esplenda
Alto y severo, y que su sien decore
Lauro apolíneo.
Parce que, jargonnant vêpres, jeûne et vigile,
Exploitant Dieu qui rêve au fond du firmament,
Vous avez, au milieu du divin évangile,
Ouvert boutique effrontément ;

Parce que vous feriez prendre à Jésus la verge,
Cyniques brocanteurs sortis on ne sait d'où ;
Parce que vous allez vendant la sainte vierge
Dix sous avec miracle, et sans miracle un sou ;

Parce que vous contez d'effroyables sornettes
Qui font des temples saints trembler les vieux piliers ;
Parce que votre style éblouit les lunettes
Des duègnes et des marguilliers ;

Parce que la soutane est sous vos redingotes,
Parce que vous sentez la crasse et non l'œillet,
Parce que vous bâclez un journal de bigotes
Pensé par Escobar, écrit par Patouillet ;

Parce qu'en balayant leurs portes, les concierges
Poussent dans le ruisseau ce pamphlet méprisé ;
Parce que vous mêlez à la cire des cierges
Votre affreux suif vert-de-grisé ;

Parce qu'à vous tout seuls vous faites une espèce
Parce qu'enfin, blanchis dehors et noirs dedans,
Criant mea culpa, battant la grosse caisse,
La boue au cœur, la larme à l'œil, le fifre aux dents,

Pour attirer les sots qui donnent tête-bêche
Dans tous les vils panneaux du mensonge immortel,
Vous avez adossé le tréteau de Bobèche
Aux saintes pierres de l'autel,

Vous vous croyez le droit, trempant dans l'eau bénite
Cette griffe qui sort de votre abject pourpoint,
De dire : Je suis saint, ange, vierge et jésuite,
J'insulte les passants et je ne me bats point !

Ô pieds plats ! votre plume au fond de vos masures
Griffonne, va, vient, court, boit l'encre, rend du fiel,
Bave, égratigne et crache, et ses éclaboussures
Font des taches jusques au ciel !

Votre immonde journal est une charretée
De masques déguisés en prédicants camus,
Qui passent en prêchant la cohue ameutée
Et qui parlent argot entre deux oremus.

Vous insultez l'esprit, l'écrivain dans ses veilles,
Et le penseur rêvant sur les libres sommets ;
Et quand on va chez vous pour chercher vos oreilles,
Vos oreilles n'y sont jamais.

Après avoir lancé l'affront et le mensonge,
Vous fuyez, vous courez, vous échappez aux yeux.
Chacun a ses instincts, et s'enfonce et se plonge,
Le hibou dans les trous et l'aigle dans les cieux !

Vous, où vous cachez-vous ? dans quel hideux repaire ?
Ô Dieu ! l'ombre où l'on sent tous les crimes passer
S'y fait autour de vous plus noire, et la vipère
S'y glisse et vient vous y baiser.

Là vous pouvez, dragons qui rampez sous les presses,
Vous vautrer dans la fange où vous jettent vos goûts.
Le sort qui dans vos cœurs mit toutes les bassesses
Doit faire en vos taudis passer tous les égouts.

Bateleurs de l'autel, voilà quels sont vos rôles.
Et quand un galant homme à de tels compagnons
Fait cet immense honneur de leur dire : Mes drôles,
Je suis votre homme ; dégaînons !

- Un duel ! nous ! des chrétiens ! jamais ! - Et ces crapules
Font des signes de croix et jurent par les saints.
Lâches gueux, leur terreur se déguise en scrupules,
Et ces empoisonneurs ont peur d'être assassins.

Bien, écoutez : la trique est là, fraîche coupée.
On vous fera cogner le pavé du menton ;
Car sachez-le, coquins, on n'esquive l'épée
Que pour rencontrer le bâton.

Vous conquîtes la Seine et le Rhin et le Tage.
L'esprit humain rogné subit votre compas.
Sur les publicains juifs vous avez l'avantage,
Maudits ! Judas est mort, Tartuffe ne meurt pas.

Iago n'est qu'un fat près de votre Basile.
La bible en vos greniers pourrit mangée aux vers.
Le jour où le mensonge aurait besoin d'asile,
Vos cœurs sont là, tout grands ouverts.

Vous insultez le juste abreuvé d'amertumes.
Tous les vices, quittant veste, cape et manteau,
Vont se masquer chez vous et trouvent des costumes.
On entre Lacenaire, on sort Contrafatto.

Les âmes sont pour vous des bourses et des banques.
Quiconque vous accueille a d'affreux repentirs.
Vous vous faites chasser, et par vos saltimbanques
Vous parodiez les martyrs.

L'église du bon Dieu n'est que votre buvette.
Vous offrez l'alliance à tous les inhumains.
On trouvera du sang au fond de la cuvette
Si jamais, par hasard, vous vous lavez les mains.

Vous seriez des bourreaux si vous n'étiez des cuistres.
Pour vous le glaive est saint et le supplice est beau.
Ô monstres ! vous chantez dans vos hymnes sinistres
Le bûcher, votre seul flambeau !

Depuis dix-huit cents ans Jésus, le doux pontife,
Veut sortir du tombeau qui lentement se rompt,
Mais vous faites effort, ô valets de Caïphe,
Pour faire retomber la pierre sur son front !

Ô cafards ! votre échine appelle l'étrivière.
Le sort juste et railleur fait chasser Loyola
De France par le fouet d'un pape, et de Bavière
Par la cravache de Lola.

Allez, continuez, tournez la manivelle
De votre impur journal, vils grimauds dépravés ;
Avec vos ongles noirs grattez votre cervelle
Calomniez, hurlez, mordez, mentez, vivez !

Dieu prédestine aux dents des chevreaux les brins d'herbes
La mer aux coups de vent, les donjons aux boulets,
Aux rayons du soleil les parthénons superbes,
Vos faces aux larges soufflets.

Sus donc ! cherchez les trous, les recoins, les cavernes !
Cachez-vous, plats vendeurs d'un fade orviétan,
Pitres dévots, marchands d'infâmes balivernes,
Vierges comme l'eunuque, anges comme Satan !

Ô saints du ciel ! est-il, sous l'œil de Dieu qui règne,
Charlatans plus hideux et d'un plus lâche esprit,
Que ceux qui, sans frémir, accrochent leur enseigne
Aux clous saignants de Jésus-Christ !

Septembre 1850.
Le bras sur un marteau gigantesque, effrayant
D'ivresse et de grandeur, le front vaste, riant
Comme un clairon d'airain, avec toute sa bouche,
Et prenant ce gros-là dans son regard farouche,
Le Forgeron parlait à Louis Seize, un jour
Que le Peuple était là, se tordant tout autour,
Et sur les lambris d'or traînant sa veste sale.
Or le bon roi, debout sur son ventre, était pâle,
Pâle comme un vaincu qu'on prend pour le gibet,
Et, soumis comme un chien, jamais ne regimbait,
Car ce maraud de forge aux énormes épaules
Lui disait de vieux mots et des choses si drôles,
Que cela l'empoignait au front, comme cela !
" Or tu sais bien, Monsieur, nous chantions tra la la
Et nous piquions les boeufs vers les sillons des autres :
Le Chanoine au soleil filait des patenôtres
Sur des chapelets clairs grenés de pièces d'or
Le Seigneur, à cheval, passait, sonnant du cor
Et l'un avec la hart, l'autre avec la cravache
Nous fouaillaient. - Hébétés comme des yeux de vache,
Nos yeux ne pleuraient plus ; nous allions, nous allions,
Et quand nous avions mis le pays en sillons,
Quand nous avions laissé dans cette terre noire
Un peu de notre chair.., nous avions un pourboire :
On nous faisait flamber nos taudis dans la nuit ;
Nos petits y faisaient un gâteau fort bien cuit. ...
" Oh ! je ne me plains pas. Je te dis mes bêtises,
C'est entre nous. J'admets que tu me contredises.
Or n'est-ce pas joyeux de voir au mois de juin
Dans les granges entrer des voitures de foin
Énormes ? De sentir l'odeur de ce qui pousse,
Des vergers quand il pleut un peu, de l'herbe rousse ?
De voir des blés, des blés, des épis pleins de grain,
De penser que cela prépare bien du pain ?...
Oh ! plus fort, on irait, au fourneau qui s'allume,
Chanter joyeusement en martelant l'enclume,
Si l'on était certain de pouvoir prendre un peu,
Étant homme, à la fin ! de ce que donne Dieu !
- Mais voilà, c'est toujours la même vieille histoire !

" Mais je sais, maintenant ! Moi, je ne peux plus croire,
Quand j'ai deux bonnes mains, mon front et mon marteau,
Qu'un homme vienne là, dague sur le manteau,
Et me dise : Mon gars, ensemence ma terre ;
Que l'on arrive encor quand ce serait la guerre,
Me prendre mon garçon comme cela, chez moi !
- Moi, je serais un homme, et toi, tu serais roi,
Tu me dirais : Je veux !... - Tu vois bien, c'est stupide.
Tu crois que j'aime voir ta baraque splendide,
Tes officiers dorés, tes mille chenapans,
Tes palsembleu bâtards tournant comme des paons :
Ils ont rempli ton nid de l'odeur de nos filles
Et de petits billets pour nous mettre aux Bastilles,
Et nous dirons : C'est bien : les pauvres à genoux !
Nous dorerons ton Louvre en donnant nos gros sous !
Et tu te soûleras, tu feras belle fête.
- Et ces Messieurs riront, les reins sur notre tête !

" Non. Ces saletés-là datent de nos papas !
Oh ! Le Peuple n'est plus une putain. Trois pas
Et, tous, nous avons mis ta Bastille en poussière.
Cette bête suait du sang à chaque pierre
Et c'était dégoûtant, la Bastille debout
Avec ses murs lépreux qui nous racontaient tout
Et, toujours, nous tenaient enfermés dans leur ombre !

- Citoyen ! citoyen ! c'était le passé sombre
Qui croulait, qui râlait, quand nous prîmes la tour !
Nous avions quelque chose au coeur comme l'amour.
Nous avions embrassé nos fils sur nos poitrines.
Et, comme des chevaux, en soufflant des narines
Nous allions, fiers et forts, et ça nous battait là...
Nous marchions au soleil, front haut, - comme cela, -
Dans Paris ! On venait devant nos vestes sales.
Enfin ! Nous nous sentions Hommes ! Nous étions pâles,
Sire, nous étions soûls de terribles espoirs :
Et quand nous fûmes là, devant les donjons noirs,
Agitant nos clairons et nos feuilles de chêne,
Les piques à la main ; nous n'eûmes pas de haine,
- Nous nous sentions si forts, nous voulions être doux !

" Et depuis ce jour-là, nous sommes comme fous !
Le tas des ouvriers a monté dans la rue,
Et ces maudits s'en vont, foule toujours accrue
De sombres revenants, aux portes des richards.
Moi, je cours avec eux assommer les mouchards :
Et je vais dans Paris, noir marteau sur l'épaule,
Farouche, à chaque coin balayant quelque drôle,
Et, si tu me riais au nez, je te tuerais !
- Puis, tu peux y compter tu te feras des frais
Avec tes hommes noirs, qui prennent nos requêtes
Pour se les renvoyer comme sur des raquettes
Et, tout bas, les malins ! se disent : " Qu'ils sont sots ! "
Pour mitonner des lois, coller de petits pots
Pleins de jolis décrets roses et de droguailles,
S'amuser à couper proprement quelques tailles.
Puis se boucher le nez quand nous marchons près d'eux,
- Nos doux représentants qui nous trouvent crasseux ! -
Pour ne rien redouter, rien, que les baïonnettes...,
C'est très bien. Foin de leur tabatière à sornettes !
Nous en avons assez, là, de ces cerveaux plats
Et de ces ventres-dieux. Ah ! ce sont là les plats
Que tu nous sers, bourgeois, quand nous sommes féroces,
Quand nous brisons déjà les sceptres et les crosses !... "
Il le prend par le bras, arrache le velours
Des rideaux, et lui montre en bas les larges cours
Où fourmille, où fourmille, où se lève la foule,
La foule épouvantable avec des bruits de houle,
Hurlant comme une chienne, hurlant comme une mer,
Avec ses bâtons forts et ses piques de fer
Ses tambours, ses grands cris de halles et de bouges,
Tas sombre de haillons saignant de bonnets rouges :
L'Homme, par la fenêtre ouverte, montre tout
Au roi pâle et suant qui chancelle debout,
Malade à regarder cela !
" C'est la Crapule,
Sire. Ça bave aux murs, ça monte, ça pullule :
- Puisqu'ils ne mangent pas, Sire, ce sont des gueux !
Je suis un forgeron : ma femme est avec eux,
Folle ! Elle croit trouver du pain aux Tuileries !
- On ne veut pas de nous dans les boulangeries.
J'ai trois petits. Je suis crapule. - Je connais
Des vieilles qui s'en vont pleurant sous leurs bonnets
Parce qu'on leur a pris leur garçon ou leur fille :
C'est la crapule. - Un homme était à la Bastille,
Un autre était forçat : et tous deux, citoyens
Honnêtes. Libérés, ils sont comme des chiens :
On les insulte ! Alors, ils ont là quelque chose
Qui leur l'ait mal, allez ! C'est terrible, et c'est cause
Que se sentant brisés, que, se sentant damnés,
Ils sont là, maintenant, hurlant sous votre nez !
Crapule. - Là-dedans sont des filles, infâmes ,
Parce que, - vous saviez que c'est faible, les femmes, -
Messeigneurs de la cour, - que ça veut toujours bien, -
Vous avez craché sur l'âme, comme rien !
Vos belles, aujourd'hui, sont là. C'est la crapule.

" Oh ! tous les Malheureux, tous ceux dont le dos brûle
Sous le soleil féroce, et qui vont, et qui vont,
Qui dans ce travail-là sentent crever leur front...
Chapeau bas, mes bourgeois ! Oh ! ceux-là, sont les Hommes !
Nous sommes Ouvriers, Sire ! Ouvriers ! Nous sommes
Pour les grands temps nouveaux où l'on voudra savoir,
Où l'Homme forgera du matin jusqu'au soir
Chasseur des grands effets, chasseur des grandes causes,
Où, lentement vainqueur il domptera les choses
Et montera sur Tout, comme sur un cheval !
Oh ! splendides lueurs des forges ! Plus de mal,
Plus ! - Ce qu'on ne sait pas, c'est peut-être terrible :
Nous saurons ! - Nos marteaux en main, passons au crible
Tout ce que nous savons : puis, Frères, en avant !
Nous faisons quelquefois ce grand rêve émouvant
De vivre simplement, ardemment, sans rien dire
De mauvais, travaillant sous l'auguste sourire
D'une femme qu'on aime avec un noble amour :
Et l'on travaillerait fièrement tout le jour
Écoutant le devoir comme un clairon qui sonne :
Et l'on se sentirait très heureux ; et personne,
Oh ! personne, surtout, ne vous ferait ployer !
On aurait un fusil au-dessus du foyer...

" Oh ! mais l'air est tout plein d'une odeur de bataille !
Que te disais-je donc ? Je suis de la canaille !
Il reste des mouchards et des accapareurs.
Nous sommes libres, nous ! Nous avons des terreurs
Où nous nous sentons grands, oh ! si grands ! Tout à l'heure
Je parlais de devoir calme, d'une demeure...
Regarde donc le ciel ! - C'est trop petit pour nous,
Nous crèverions de chaud, nous serions à genoux !
Regarde donc le ciel ! - Je rentre dans la foule,
Dans la grande canaille effroyable, qui roule,
Sire, tes vieux canons sur les sales pavés :
- Oh ! quand nous serons morts, nous les aurons lavés
- Et si, devant nos cris, devant notre vengeance,
Les pattes des vieux rois mordorés, sur la France
Poussent leurs régiments en habits de gala,
Eh bien, n'est-ce pas, vous tous ? - Merde à ces chiens-là ! "

- Il reprit son marteau sur l'épaule.
La foule
Près de cet homme-là se sentait l'âme soûle,
Et, dans la grande cour dans les appartements,
Où Paris haletait avec des hurlements,
Un frisson secoua l'immense populace.
Alors, de sa main large et superbe de crasse,
Bien que le roi ventru suât, le Forgeron,
Terrible, lui jeta le bonnet rouge au front !
En la isla en que detiene su esquife el argonauta
del inmortal Ensueño, donde la eterna pauta
de las eternas liras se escucha -isla de oro
en que el tritón elige su caracol sonoro
y la sirena blanca va a ver el sol- un día
se oye el tropel vibrante de fuerza y de harmonía.

Son los Centauros. Cubren la llanura. Les siente
la montaña. De lejos, forman són de torrente
que cae; su galope al aire que reposa
despierta, y estremece la hoja del laurel-rosa.

Son los Centauros. Unos enormes, rudos; otros
alegres y saltantes como jóvenes potros;
unos con largas barbas como los padres-ríos;
otros imberbes, ágiles y de piafantes bríos,
y robustos músculos, brazos y lomos aptos
para portar las ninfas rosadas en los raptos.

Van en galope rítmico, Junto a un fresco boscaje,
frente al gran Océano, se paran. El paisaje
recibe de la urna matinal luz sagrada
que el vasto azul suaviza con límpida mirada.
Y oyen seres terrestres y habitantes marinos
la voz de los crinados cuadrúpedos divinos.
 
Calladas las bocinas a los tritones gratas,
calladas las sirenas de labios escarlatas,
los carrillos de Eolo desinflados, digamos
junto al laurel ilustre de florecidos ramos
la gloria inmarcesible de las Musas hermosas
y el triunfo del terrible misterio de las cosas.
He aquí que renacen los lauros milenarios;
vuelven a dar su lumbre los viejos lampadarios;
y anímase en mi cuerpo de Centauro inmortal
la sangre del celeste caballo paternal.
 
Arquero luminoso, desde el Zodíaco llegas;
aun presas en las crines tienes abejas griegas;
aun del dardo herakleo muestras la roja herida
por do salir no pudo la esencia de tu vida.
¡Padre y Maestro excelso! Eres la fuente sana
de la verdad que busca la triste raza humana:
aun Esculapio sigue la vena de tu ciencia;
siempre el veloz Aquiles sustenta su existencia
con el manjar salvaje que le ofreciste un día,
y Herakles, descuidando su maza, en la harmonía
de los astros, se eleva bajo el cielo nocturno...
 
La ciencia es flor del tiempo: mi padre fue Saturno.
 
Himnos a la sagrada Naturaleza; al vientre
de la tierra y al germen que entre las rocas y entre
las carnes de los árboles, y dentro humana forma,
es un mismo secreto y es una misma norma,
potente y sutilísimo, universal resumen
de la suprema fuerza, de la virtud del Numen.
 
¡Himnos! Las cosas tienen un ser vital; las cosas
tienen raros aspectos, miradas misteriosas;
toda forma es un gesto, una cifra, un enigma;
en cada átomo existe un incógnito estigma;
cada hoja de cada árbol canta un propio cantar
y hay un alma en cada una de las gotas del mar;
el vate, el sacerdote, suele oír el acento
desconocido; a veces enuncia el vago viento
un misterio; y revela una inicial la espuma
o la flor; y se escuchan palabras de la bruma;
y el hombre favorito del Numen, en la linfa
o la ráfaga encuentra mentor -demonio o ninfa.
 
El biforme ixionida comprende de la altura,
por la materna gracia, la lumbre que fulgura,
la nube que se anima de luz y que decora
el pavimento en donde rige su carro Aurora,
y la banda de Iris que tiene siete rayos
cual la lira en sus brazos siete cuerdas, los mayos
en la fragante tierra llenos de ramos bellos,
y el Polo coronado de cándidos cabellos.
El ixionida pasa veloz por la montaña
rompiendo con el pecho de la maleza huraña
los erizados brazos, las cárceles hostiles;
escuchan sus orejas los ecos más sutiles:
sus ojos atraviesan las intrincadas hojas
mientras sus manos toman para sus bocas rojas
las frescas bayas altas que el sátiro codicia;
junto a la oculta fuente su mirada acaricia
las curvas de las ninfas del séquito de Diana;
pues en su cuerpo corre también la esencia humana
unida a la corriente de la savia divina
y a la salvaje sangre que hay en la bestia equina.
Tal el hijo robusto de Ixión y de la Nube.
 
Sus cuatro patas bajan; su testa erguida sube.
 
Yo comprendo el secreto de la bestia. Malignos
seres hay y benignos. Entre ellos se hacen signos
de bien y mal, de odio o de amor, o de pena
o gozo: el cuervo es malo y la torcaz es buena.
 
Ni es la torcaz benigna, ni es el cuervo protervo:
son formas del Enigma la paloma y el cuervo.
 
El Enigma es el soplo que hace cantar la lira.
 
¡El Enigma es el rostro fatal de Deyanira!
MI espalda aun guarda el dulce perfume de la bella;
aun mis pupilas llaman su claridad de estrella.
¡Oh aroma de su ****! ¡O rosas y alabastros!
¡Oh envidia de las flores y celos de los astros!
 
Cuando del sacro abuelo la sangre luminosa
con la marina espuma formara nieve y rosa,
hecha de rosa y nieve nació la Anadiomena.
Al cielo alzó los brazos la lírica sirena,
los curvos hipocampos sobre las verdes ondas
levaron los hocicos; y caderas redondas,
tritónicas melenas y dorsos de delfines
junto a la Reina nueva se vieron. Los confines
del mar llenó el grandioso clamor; el universo
sintió que un nombre harmónico sonoro como un verso
llenaba el hondo hueco de la altura; ese nombre
hizo gemir la tierra de amor: fue para el hombre
más alto que el de Jove; y los númenes mismos
lo oyeron asombrados; los lóbregos abismos
tuvieron una gracia de luz. ¡VENUS impera!
Ella es entre las reinas celestes la primera,
pues es quien tiene el fuerte poder de la Hermosura.
¡Vaso de miel y mirra brotó de la amargura!
Ella es la más gallarda de las emperatrices;
princesa de los gérmenes, reina de las matrices,
señora de las savias y de las atracciones,
señora de los besos y de los corazones.
 
¡No olvidaré los ojos radiantes de Hipodamia!
 
Yo sé de la hembra humana la original infamia.
Venus anima artera sus máquinas fatales;
tras sus radiantes ojos ríen traidores males;
de su floral perfume se exhala sutil daño;
su cráneo obscuro alberga bestialidad y engaño.
Tiene las formas puras del ánfora, y la risa
del agua que la brisa riza y el sol irisa;
mas la ponzoña ingénita su máscara pregona:
mejores son el águila, la yegua y la leona.
De su húmeda impureza brota el calor que enerva
los mismos sacros dones de la imperial Minerva;
y entre sus duros pechos, lirios del Aqueronte,
hay un olor que llena la barca de Caronte.
 
Como una miel celeste hay en su lengua fina;
su piel de flor aun húmeda está de agua marina.
Yo he visto de Hipodamia la faz encantadora,
la cabellera espesa, la pierna vencedora;
ella de la hembra humana fuera ejemplar augusto;
ante su rostro olímpico no habría rostro adusto;
las Gracias junto a ella quedarían confusas,
y las ligeras Horas y las sublimes Musas
por ella detuvieran sus giros y su canto.
 
Ella la causa fuera de inenarrable espanto:
por ella el ixionida dobló su cuello fuerte.
La hembra humana es hermana del Dolor y la Muerte.
 
Por suma ley un día llegará el himeneo
que el soñador aguarda: Cenis será Ceneo;
claro será el origen del femenino arcano:
la Esfinge tal secreto dirá a su soberano.
 
Naturaleza tiende sus brazos y sus pechos
a los humanos seres; la clave de los hechos
conócela el vidente; Homero con su báculo,
en su gruta Deifobe, la lengua del Oráculo.
 
El monstruo expresa un ansia del corazón del Orbe,
en el Centauro el bruto la vida humana absorbe,
el sátiro es la selva sagrada y la lujuria,
une sexuales ímpetus a la harmoniosa furia.
Pan junta la soberbia de la montaña agreste
al ritmo de la inmensa mecánica celeste;
la boca melodiosa que atrae en Sirenusa
es de la fiera alada y es de la suave musa;
con la bicorne bestia Pasifae se ayunta,
Naturaleza sabia formas diversas junta,
y cuando tiende al hombre la gran Naturaleza,
el monstruo, siendo el símbolo, se viste de belleza.
 
Yo amo lo inanimado que amó el divino Hesiodo.
 
Grineo, sobre el mundo tiene un ánima todo.
 
He visto, entonces, raros ojos fijos en mí:
los vivos ojos rojos del alma del rubí;
los ojos luminosos del alma del topacio
y los de la esmeralda que del azul espacio
la maravilla imitan; los ojos de las gemas
de brillos peregrinos y mágicos emblemas.
Amo el granito duro que el arquitecto labra
y el mármol en que duermen la línea y la palabra...
 
A Deucalión y a Pirra, varones y mujeres
las piedras aun intactas dijeron: "¿Qué nos quieres?"
 
Yo he visto los lemures florar, en los nocturnos
instantes, cuando escuchan los bosques taciturnos
el loco grito de Atis que su dolor revela
o la maravillosa canción de Filomela.
El galope apresuro, si en el boscaje miro
manes que pasan, y oigo su fúnebre suspiro.
Pues de la Muerte el hondo, desconocido Imperio,
guarda el pavor sagrado de su fatal misterio.
 
La Muerte es de la Vida la inseparable hermana.
 
La Muerte es la victoria de la progenie humana.
 
¡La Muerte! Yo la he visto. No es demacrada y mustia
ni ase corva guadaña, ni tiene faz de angustia.
Es semejante a Diana, casta y virgen como ella;
en su rostro hay la gracia de la núbil doncella
y lleva una guirnalda de rosas siderales.
En su siniestra tiene verdes palmas triunfales,
y en su diestra una copa con agua del olvido.
A sus pies, como un perro, yace un amor dormido.
 
Los mismos dioses buscan la dulce paz que vierte.
 
La pena de los dioses es no alcanzar la Muerte.
 
Si el hombre -Prometeo- pudo robar la vida,
la clave de la muerte serále concedida.
 
La virgen de las vírgenes es inviolable y pura.
Nadie su casto cuerpo tendrá en la alcoba obscura,
ni beberá en sus labios el grito de la victoria,
ni arrancará a su frente las rosas de su gloria...
 
Mas he aquí que Apolo se acerca al meridiano.
Sus truenos prolongados repite el Oceano.
Bajo el dorado carro del reluciente Apolo
vuelve a inflar sus carrillos y sus odres Eolo.
A lo lejos, un templo de mármol se divisa
entre laureles-rosa que hace cantar la brisa.
Con sus vibrantes notas de Céfiro desgarra
la veste transparente la helénica cigarra,
y por el llano extenso van en tropel sonoro
los Centauros, y al paso, tiembla la Isla de Oro.
Tú, que estás la barba en la mano
meditabundo,
¿has dejado pasar, hermano,
la flor del mundo?Te lamentas de los ayeres
con quejas vanas:
¡aún hay promesas de placeres
en los mañanas!Aún puedes casar la olorosa
rosa y el lis,
y hay mirtos para tu orgullosa
cabeza gris.El alma ahíta cruel inmola
lo que la alegra,
como Zingua, reina de Angola,
lúbrica negra.Tú has gozado de la hora amable,
y oyes después
la imprecación del formidable
Eclesiastés.El domingo de amor te hechiza;
mas mira cómo
llega el miércoles de ceniza;
Memento, ****...Por eso hacia el florido monte
las almas van,
y se explican Anacreonte
y Omar Kayam.Huyendo del mal, de improviso
se entra en el mal,
por la puerta del paraíso
artificial.Y no obstante la vida es bella,
por poseer
la perla, la rosa, la estrella
y la mujer.Lucifer brilla. Canta el ronco
mar. Y se pierde
Silvano, oculto tras el tronco
del haya verde.Y sentimos la vida pura,
clara, real,
cuando la envuelve la dulzura
primaveral.¿Para qué las envidias viles
y las injurias,
cuando retuercen sus reptiles
pálidas furias?¿Para qué los odios funestos
de los ingratos?
¿Para qué los lívidos gestos
de los Pilatos?¡Si lo terreno acaba, en suma,
cielo e infierno,
y nuestras vidas son la espuma
de un mar eterno!Lavemos bien de nuestra veste
la amarga prosa;
soñemos en una celeste
mística rosa.Cojamos la flor del instante;
¡la melodía
de la mágica alondra cante
la miel del día!Amor a su fiesta convida
y nos corona.
Todos tenemos en la vida
nuestra Verona.Aun en la hora crepuscular
canta una voz:
«Ruth, risueña, viene a espigar
para Booz!»Mas coged la flor del instante,
cuando en Oriente
nace el alba para el fragante
adolescente.¡Oh! Niño que con Eros juegas,
niños lozanos,
danzad como las ninfas griegas
y los silvanos.El viejo tiempo todo roe
y va de prisa;
sabed vencerle, Cintia, Cloe
y Cidalisa.Trocad por rosas azahares,
que suena el son
de aquel Cantar de los Cantares
de Salomón.Príapo vela en los jardines
que Cipris huella;
Hécate hace aullar a los mastines;
mas Diana es bella;y apenas envuelta en los velos
de la ilusión,
baja a los bosques de los cielos
por Endimión.¡Adolescencia! Amor te dora
con su virtud;
goza del beso de la aurora,
¡oh juventud!¡Desventurado el que ha cogido
tarde la flor!
Y ¡ay de aquel que nunca ha sabido
lo que es amor!Yo he visto en tierra tropical
la sangre arder,
como en un cáliz de cristal,
en la mujerY en todas partes la que ama
y se consume
como una flor hecha de llama
y de perfume.Abrasaos en esa llama
y respirad
ese perfume que embalsama
la Humanidad.Gozad de la carne, ese bien
que hoy nos hechiza,
y después se tornará en
polvo y ceniza.Gozad del sol, de la pagana
luz de sus fuegos;
gozad del sol, porque mañana
estaréis ciegos.Gozad de la dulce armonía
que a Apolo invoca;
gozad del canto, porque un día
no tendréis boca.Gozad de la tierra que un
bien cierto encierra;
gozad, porque no estáis aún
bajo la tierra.Apartad el temor que os hiela
y que os restringe;
la paloma de Venus vuela
sobre la Esfinge.Aún vencen muerte, tiempo y hado
las amorosas;
en las tumbas se han encontrado
mirtos y rosas.Aún Anadiódema en sus lidias
nos da su ayuda;
aún resurge en la obra de Fidias
Friné desnuda.Vive el bíblico Adán robusto,
de sangre humana,
y aún siente nuestra lengua el gusto
de la manzana.Y hace de este globo viviente
fuerza y acción
la universal y omnipotente
fecundación.El corazón del cielo late
por la victoria
de este vivir, que es un combate
y es una gloria.Pues aunque hay pena y nos agravia
el sino adverso,
en nosotros corre la savia
del universo.Nuestro cráneo guarda el vibrar
de tierra y sol,
como el ruido de la mar
el caracol.La sal del mar en nuestras venas
va a borbotones;
tenemos sangre de sirenas
y de tritones.A nosotros encinas, lauros,
frondas espesas;
tenemos carne de centauros
y satiresas.En nosotros la vida vierte
fuerza y calor.
¡Vamos al reino de la Muerte
por el camino del Amor!
Rosalie Walker Nov 2014
O pó queima o nariz,
O álcool aquece o corpo,
A música acolhe,
O sangue jorra.

A ultima imagem,
O ultimo cheiro,
O último sentimento,
Dor.

Uma veste de sangue a cobre,
Olhos vermelhos escondem a paranóia,
Um punhal brilhante reflete o medo.

Um soco no espelho,
Um último beijo,
Julieta, Julieta,
Não se vá.

Romeu, Romeu,
Um punhal resolveu,
Piscina escarlate,
Seu sangue é combate.

Veludo frio,
Coração congelado,
Toque caloroso,
Olhar vidrado.

Romeu, Romeu,
Você lembra do dia que ela morreu?
Io ti ** vista seduta al pianoforte
e mi sei parsa un angelo, una vergine
di certissimo aspetto - come fossi
oggi cresciuta lì su quelle soglie
di sveltissima musica, o fermento
bello di donna dalle dritte spalle
cui le dita di angelo racchiuso

hanno impresso una curva di mistero
mentre che all'apparenza ne gioivi
profondamente come in veste nuova.

E noi tutti di te ripensavamo
cose profonde e più miracolosa
che una vetta di sogno la tua dolce
cara presenza ci scioglieva i nodi
dentro il sangue del male e sollevava
la nostr'aria nel palpito felice
dei tuoi biondi finissimi capelli.
Hermes Varini Nov 2022
Feudal, an’ Deep Swaird Scar-Faced Ah,

Th’ Lone Skye-Horror

Thad heare Ah once gleamingly wore,
Nowe! intae Theis Abysmal ay Past Fyre-Lore,
Ye a’ Skellums, see! Theis Rage o’ mine thad Ah bore
Heare! wae mah Thundir-Airn tirlin’, nae a Woe,
Taukin’ nowe Ah! wae th’ Wynde-Tone O’erhuman, fore
Abön th’ Skye-Storne wæs ay yondir Friendly Shore,
Wae a Pause wi’in mah strugglin’, nae ay any more,
Th’ Scyld Ah haudin’ unco glowin’, ‘yont th’ Castle Dore,
Whatna! Theis Airn-Wame o’ mine, Rageful ays nae afore,
Thro’ th’ Skye-Pruid ay Lightnings, an’ e’en skye-more,
*** ay standin’, ‘yont th’ Drakkar Ablaze, wae th’ Burnan Ore,
Thus Ðhunder-Imbued, Bluish Fyre becam mah flowin’ Gore,
O’er th’ Rid Rock soarin’, wrapped in th’ Auld taukin’ Lowe,
Revenge oan th’ Dust, wi’in theis Hill graven! stick-an-stowe,
Quhain! th’ Ocean abowt mah Person, th’ Gale intae twa it tore,
Quhain! th’ Return o’ Pow’r gaed tae its Guid Hel o’ Yore,
Quhain! a Firey Ember wæs mah Rubye Brooch ay hynne nowe,
‘Yont th’ Seven-Headed Beast Winged, wha Grim He swore,
Mah Frame Axe-Wounded, Rays emittin’ frae ilka pore,
Deep intae theis ay Norland Janwar’s bitin’ owre Frore,
An’ a Mirror appeared! thro’ th’ Thunderbolts, nae thair Chore,
Nae Gode bit th’ Owar-Mann! mah Steel-Ghaist, nae tae adore,
Quher! mah Battle-Scars Rid wur stylle thais unco a Soare,
Quher! th’ Cauld theare wæs tae mah Throat aye smore,
Quher! mah Sel-Reflection dazzlin’ it wæs, thro’ th’ Aurore,
Togiddir wae mah Chain Mail flashin’, tae th’ Whyte Core!

ŌFER-MANNES BEADULÉOMAN WÆLGRYRE,
NIHTES HRÍÐUM SĊĒAWERE OND WÆPENÞRACUM
UNDER HERE-GRĪMAN OÞÍEWEDE SE DWIMOR,
HWÆR SWĀ MISGEWIDERE ECGÞRACU MAÞELODE,

SIGRSÆLL EK AFSKRÆMI-LIGA MIS-YRKI,
ÞÁ EN GINSTAN MEÐ MJÖK FRÆKNLIGA
VIND-ǪLD ÞVÍ NÆST ALMÁTTIGR ALFÖÐR,

QVA RE

ALTO A SEPTENTRIONE VINTICTÆ CVM FVLMINE

DEVS RVBRA FEVDORVM SECVRE THOR NOMINE MEORVM
SPECVLO CHALIBE SIVE SCVTO MEO SOLISQVE POLITISSIMO
RVBRO IN TEMPLO CVM ILLE NVNC AIT MIHI ALTOQVE
MEA REX SIVE BELLATOR OVERMAN NOMINE SPATHA
VT INGNEVS SIT MAXIME HOC TONITRVO MEVS VIGOR
AC FVGIENDA FVLMINE ESSE CÆRVLEO HIC VMBRA
ET INTRA FLAMMAS AC RVBRA EX FEODALE VLTIONE
ALBO HIC FVLMINE AC HYDRA SEPTEM CAPITIBVS RVBRA
LIVIDO EX IGNE GRÆCO PROFVNDE HIC FACETE DICTO

ENΘΔE KAI ΔE ETI
AΦΘONΩΣ Ω OVERMAN

OΛΩΣ ΔE ΠΟΚΑΤΑΣΤΑΣIΣ ΠANTH
KAI ΔYNAMIΣ ΓE KAI AΛHΘEIA TEΩΣ
NYN ΔOΞA KAI ΔE KAI ΔAIMΩN

STAT DEMVM ILLE HIC NOMINE REX I

QVA RE

FERRO AMICTVS FEODALE IMMORTALIQVE TOTALITER EGO CVM SPATHA
VBI LIVIDA MEA SPECVLI REFLECTIONE AC VESTE CONCREVERVNT CHALYBIS FVLMINA

QVOAD

AD INFINITVM PERPETVO RECVRRENS POTENTIÆ INCREMENTO SICVT IGNEA ROTA HÆC IMAGO
FEODALIS SIVE O ΔΑIΜΩΝ GRÆCO VERBO MEA EX FVLMINIBVS IN SPECVLO LIVIDA
AC POST DE BRVNANBVRH PROELIVM ASSIDVE DE OVERMAN CRVORE POTENTIOR IGNEA

QVIA

VENIT RECVRSV POTENTIÆ HOC IDVLVM IVGITER SIVE TO EIΔΩΛON EXTRAMVNDANVM MIHI
AC HÆ SVNT LEX RATIOQVE DE OVERMAN INVIOLABILITER HAC IN LAPIDE INSCRIPTÆ

QVOMODO

FVLGORIS NATVRA OVERMAN SIVE ENAPXIKH TPIAΣ EXCELLENTIA ESSENTIÆ
HOC FVLMINORVM INCREMENTO SINE FINE AC SINE INITIO HVIVS TEMPESTATIS MAGNI AC IRÆ MEÆ

QVAQVMQVE

SVMMA EST IN SCVTO SIVE SPECVLO CONTINVATIONEM ILLE GENERANS ET VLTOR
AC MVTATIONIS INCREMENTVM TONITRVO SICVT ΔEYPO TΩ EMΩ AIMATI PERSEVERANS

QVONIAM

SIT DENVO GRÆCA CVM VOCE AC TONITRVO EX SANGVINE MEO IGNEO
FEODALE HORVM FVLMINORVM METALLICO CORPORE MEA VINDICTA SICVT

ΜOΝΗ EΣTI ΚΑΙ ΠΡOΟΔΟΣ ΚΑI ΔH ΚΑI ΕΠΙΣΤΡΟΦH
EΝ ΤΩ ΧΡOΝΩ ΦΑΣΜΑΤΑ

QVONDAM

ΤA ΠAΝΤΑ AEI ΚOΣΜΟΣ-ΛOΓΟΣ ΚΑΙ ΜEΤΡΟΝ
ΤO ΓΕ ΝYΝ ΓΝΩΣΙΣ

AC RELVCENTEM MAGNVMQVE IN SPECVLO LAVDO ET CANO VINDICEM
ET PERGITE RVBRA HAC IN ALTISSIMA RVPE HVIVS HIEMIS FVLMINA

AD QVEM

IRA CVM EXTRAMVNDANA MEA ET FEODALE CORPORE

LOCVM  FERRO AMICTVS SPATHA SCVTOQVE PERVENIEBAM NATANS
INTRA OCEANVM AD VERGENTIS OCCASVM CALEDONIÆ REGNI SICVT

OVERMAN ECGÞRACU.
Set after the Battle of Brunanburh in A.D. 937, this composition of mine, or rather brief epic, in archaic Scots, Classical Latin, Anglo-Saxon, Old Norse and ancient Greek, tells of a lone warrior, severely wounded after the battle, whose blood turns into fire and lightnings, as attracted by his armor, when a mirror appears before him as formed by thunderbolts themselves ("VBI LIVIDA MEA SPECVLI REFLECTIONE AC VESTE CONCREVERVNT CHALYBIS FVLMINA"), at the top of a soaring rock off the coast of western Scotland ("INTRA OCEANVM AD VERGENTIS OCCASVM CALEDONIÆ REGNI"), during a storm, therein obtaining immortality, upon his own reflected self, that is, the Overman himself, recurring over and over more powerful to the infinite as one person ("AD INFINITVM PERPETVO RECVRRENS POTENTIÆ INCREMENTO SICVT IGNEA ROTA HÆC IMAGO"). My own Return of Power event thus surfaces. How he was able to reach this rock, in his own bleeding condition, and in a heavy iron vest with sword and shield while swimming, I leave it undefined, hence to the interpretation of the reader. The title reads “The Overman through the Onrush of Swords”. “Ah” is “I”, "wae" is "with", and "stick-an-stowe", "totally", "altogether".
Todos los intermedios pudresienes de espera de esqueleto de lluvia sin persona
cuando no neutros lapsus micropulpos engendros del sotedio
pueden antes que cóncavos ausentes en seminal yacencia
ser otros flujos ácidos del diurno sueño insomne
otros sorbos de páramo
tan viles vivas bilis de nonadas carcomas diametrales
aunque el sabor no cambie
y Ofelia pura costa sea un pescado reflejo de rocío de esclerosada túnica sin lastre
un fósil loto amóvil entre remansos muslos puros juncos de espasmo
un maxilar de luna sobre un canto rodado
tierno espectro fluctuante del novilunio arcaico dromedario
lejos ya de su neuro dubitabundo exnovio psiquisauce
aunque el sabor no cambie
y cualquier lacio cuajo invista nuevos huecos ante los ídem lodos expartos bostezantes
peste con veste huéspedes del macrobarro grávido de muerte
y hueros logros de horas lagrimales
aunque el sabor no cambie
y el menos yo del uno en el total por nada
beato saldo de excoito amodorrado malentetando el asco
explore los estratos de su ámbito si sino
cada vez menos cráter
aunque el sabor no cambie
cada vez más burbúja de algánima no náyade
más amplio menos tránsfuga
tras sus estancas sienes de mercurio
o en las finales radas de lo obsceno de marismas de pelvis bajo el agua
con su no llanto arena y sus mínimas muertes navegables
aunque el sabor no cambie
y sólo erecto espeso mascaduda insaciado en progresiva resta
ante el incierto ubicuo muy quizás equis deífico se malciña la angustia interrogante
aunque el sabor no cambie
Sole di mezzogiorno, nel luglio felice, sulla piazza deserta:
piazza lontana di città lontana, tu ed il tuo uomo,
e quello era il mondo.
Bianca nella tua veste, bianca vibratile fiamma tu pure,
nell'abbaglio d'incendio dell'aria.
Bianco il tuo riso perduto nel riso di lui, fresco di polla il
tuo riso d'amore tra il vasto fulgere ed ardere.
Non sarebbe discesa la notte, non sarebbe venuto il domani,
tua la luce, tuo l'uomo, tuo il tempo.
Fermasti il tempo in pieno sull'ora solare per cui in terra
tu fosti divina:
il resto è ombra e polvere d'ombra.
Remportée aux cris de Vive l'Empereur !

Au milieu, l'Empereur, dans une apothéose
Bleue et jaune, s'en va, raide, sur son dada
Flamboyant ; très heureux, - car il voit tout en rose,
Féroce comme Zeus et doux comme un papa ;

En bas, les bons Pioupious qui faisaient la sieste
Près des tambours dorés et des rouges canons,
Se lèvent gentiment. Piton remet sa veste,
Et, tourné vers le Chef, s'étourdit de grands noms !

A droite, Dumanet, appuyé sur la crosse
De son chassepot, sent frémir sa nuque en brosse,
Et : " Vive l'Empereur !!! " - Son voisin reste coi...

Un schako surgit, comme un soleil noir... - Au centre,
Boquillon rouge et bleu, très naïf, sur son ventre
Se dresse, et, - présentant ses derrières - : " De quoi ?..."
Leyendo un claro día
mis bien amados versos,
he visto en el profundo
espejo de mis sueños  que una verdad divina
temblando está de miedo,
y es una flor que quiere
echar su aroma al viento.  El alma del poeta
se orienta hacia el misterio.
Sólo el poeta puede
mirar lo que está lejos
dentro del alma, en turbio
y mago sol envuelto.  En esas galerías,
sin fondo, del recuerdo,
donde las pobres gentes
colgaron cual trofeo  el traje de una fiesta
apolillado y viejo,
allí el poeta sabe
el laborar eterno
mirar de las doradas
abejas de los sueños.  Poetas, con el alma
atenta al hondo cielo,
en la cruel batalla
o en el tranquilo huerto,  la nueva miel labramos
con los dolores viejos,
la veste blanca y pura
pacientemente hacemos,
y bajo el sol bruñimos
el fuerte arnés de hierro.  El alma que no sueña,
el enemigo espejo,
proyecta nuestra imagen
con un perfil grotesco.  Sentimos una ola
de sangre, en nuestro pecho,
que pasa... y sonreímos,
y a laborar volvemos.
Sí, yo amaba lo azul con ardimiento:
las montañas excelsas, los sutiles
crespones de zafir del firmamento,
el piélago sin fin, cuyo lamento
arrulló mis ensueños juveniles.

Callaba mi laúd cuando despliega
cada estrella purísima su broche,
el universo en la quietud navega,
y la luna, hoz de plata, surge y siega
el haz d'espesas sombras de la noche.

Cantaba, si l'aurora descorría
en el Oriente sus rosados velos,
si el aljófar al campo descendía,
y el sol, urna de oro que se abría,
inundaba de luz todos los cielos.

Mas hoy amo la noche, la galana,
de dulce majestad, horas tranquilas
y solemnes, la nubia soberana,
la d'espléndida pompa americana:
¡la noche tropical de tus pupilas!

Hoy esquivo del alba los sonrojos,
su saeta de oro me maltrata,
y el corazón, sin pena y sin enojos,
tan sólo ante lo ***** de tus ojos
como el iris del búho se dilata.

¿Qu'encanto hubiera semejante al tuyo,
oh, noche mía? ¡Tu beldad me asombra!
Yo, qu'esplendores matutinos huyo,
¡dejo el alma que agite, cual cocuyo,
sus alas coruscantes en tu sombra!

Si siempre he de sentir esa mirada
fija en mi rostro, poderosa y tierna,
¡adiós, por siempre adiós, rubia alborada!;
doncella de la veste sonrosada:
¡que reine en mi redor la noche eterna!

¡Oh, noche! Ven a mí llena d'encanto;
mientras con vuelo misterioso avanzas,
nada más para ti será mi canto,
y en los brunos repliegues de tu manto,
su cáliz abrirán mis esperanzas...
En cada corazón arde una llama,
Si aún vive la ilusión y amor impera,
Pero en mi corazón desdeque te ama
Sin que viva ilusión, arde una hoguera.

Oye esta confesión; te amo con miedo,
Con el miedo del alma a tu hermosura,
Y te traigo a mis sueños y no puedo
Llevarte más allá de mi amargura.

¿Sabes lo que es vivir como yo vivo?
¿Sabes lo que es llorar sin fe ni calma?
¿Mientras se muere el corazón cautivo
Y en la cruz del dolor expira el alma?

Eres al corazón lo que a las ruinas
Son los rayos del sol esplendoroso,
Donde el reptil se arropa en las esquinas
Y se avergüenza el sol del ser hermoso.

Nunca podrás amarme aunque yo quiera,
Porque lo exige así mi suerte impía,
Y si esa misma suerte nos uniera
Tú fueras desgraciada por ser mía.

Deja que te contemple y que te adore,
Y que escuche tu voz y que te admire,
Aunque al decirte adiós, con risas llore,
Y al volvernos a ver llore y suspire.

Yo no quiero enlazar a mi destino
Tu dulce juventud de horas tranquilas,
Ni he de dar otro sol a mi camino
Que los soles que guardan tus pupilas.

Enternézcame siempre tu belleza
Aunque no me des nunca tus amores,
Y no adornes con flores tu cabeza
Pues me encelan los besos de las flores.

Siempre rubios, finísimos y bellos,
Madejas de oro, en céltica guirnalda,
Caigan flotando libres tus cabellos,
Como un manto de reina por tu espalda.

Es cielo azul el que mi amor desea,
La flor que más me encanta es siempre hermosa,
Que en tu talle gentil yo siempre vea
Tu veste tropical de azul y rosa.

Mírame con tus ojos adormidos,
Sonriéndote graciosa y dulcemente,
Y avergüenza y maldice a mis sentidos
Mostrándome el rubor sobre tu frente.

¿Yo nunca seré tuyo? ¡ay! ese día,
Oscureciera al sol duelo profundo;
Mas para ser feliz sobre este mundo
Bástame amarte sin llamarte mía.
Desde el umbral de un sueño me llamaron...
Era la buena voz, la voz querida.     -Dime: ¿vendrás conmigo a ver el alma?...
Llegó a mi corazón una caricia.     -Contigo siempre... Y avancé en mi sueño
por una larga, escueta galería,
sintiendo el roce de la veste pura
y el palpitar suave de la mano amiga.
Sé que hay una persona
que me busca en su mano, día y noche,
encontrándome, a cada minuto, en su calzado.
¿Ignora que la noche está enterrada
con espuelas detrás de la cocina?
Sé que hay una persona compuesta de mis partes,
a la que integro cuando va mi talle
cabalgando en su exacta piedrecilla.
¿Ignora que a su cofre
no volverá moneda que salió con su retrato?
Sé el día,
pero el sol se me ha escapado;
sé el acto universal que hizo en su cama
con ajeno valor y esa agua tibia, cuya
superficial frecuencia es una mina.
¿Tan pequeña es, acaso, esa persona,
que hasta sus propios pies así la pisan?
Un gato es el lindero entre ella y yo,
al lado mismo de su tasa de agua.
La veo en las esquinas, se abre y cierra
su veste, antes palmera interrogante...
¿Qué podrá hacer sino cambiar de llanto?
Pero me busca y busca. ¡Es una historia!
Non avete veduto le farfalle
con che leggera grazia
sfiorano le corolle in primavera?
Con pari leggerezza
limpido aleggia sulle cose tutte
lo sguardo della vergine sorella.
Non avete veduto quand'è notte
le vergognose stelle
avanzare la luce e ritirarla?...
Così, timidamente, la parola
varca la soglia
del suo labbro al silenzio costumato.
Non ha forma la veste ch'essa porta,
la luce che ne filtra
ne disperde i contorni. Il suo bel volto
non si sa ove cominci, il suo sorriso
ha la potenza di un abbraccio immenso.
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Rui Serra May 2015
vem
entra na minha vida
vem
para o meu covil

veste-te de preto
pinta o teu cabelo de *****
e vamos juntos ouvir o som do mar

vamos juntos na escuridão
dizer adeus à luz
vamos viver na eternidade
onde todos os dias são noites

eu sei que sou louco
mas no teu coração eu sei
há uma gótica a desabrochar
Mo accumencia l'anno nuovo,
è Jennaro, ch'alleria!
Cu 'a speranza e 'a fantasia,
tu te pienze ca chist'anno
forse è cchiù meglio 'e chill'ato...
quanno è a fine t'he sbagliato.
A Febbraio nce sta 'o viglione:
chi se veste d'arlecchino,
pulcinella o colombina...
e me fanno tanta pena
chesti ggente cu sti facce:
ma songh'uommene o pagliacce?!

Quanno vene 'o mese 'e Marzo
pure 'e ggatte fanno ammore,
ch'aggia fa? Me guardo a lloro?
'Mmiezo 'e grade cu 'a vicina,
faccio un anema e curaggio
e m'acchiappo nu passaggio.

Comme è ddoce 'o mese Abbrile,
tutta ll'aria è profumata!
P' 'e ciardine quanno è 'a sera
cu na femmena abbracciata,
musso e musso, core e core...
tutta smania e tutto ammore.

Quant'è bello 'o mese 'e Maggio
quanno schioppano sti rrose!
Che prufumo int'a stu mese
pe Pusiileco addiruso!
Stongo 'nterra o 'mparaviso
quanno tu staje 'mbraccio a mme?

Quanno è Giugno la stagione
vene e trase chianu chiano:
s'ammatura pure 'o ggrano,
s'ammatura tutte cose...
Pure 'a femmena scuntrosa
tu t' 'a cuoglie cu nu vaso.

Quanno è Luglio 'mmiezo 'o mare,
'ncopp' 'a spiaggia, 'nterra 'a rena
mamma mia, quanta sirene!
Io cu ll'uocchie m' 'e magnasse;
guardo a chesta, guardo a chella,
ma pe mme tu si 'a cchiù bella!

Quanno è Austo che calore!
lo nun saccio che me piglia...
Chistu sole me scumpiglia!
E te guardo cu passione:
volle 'o sango dint' 'e vvene
e nisciuno me trattene.

È chest'aria settembrina
ca te mette dint' 'e vvene
tanta smania 'e vulè bbene!
Nu suspiro, ciente vase
mille cose e 'o desiderio
ca st' ammore fosse serio.

Vene Uttombre, int' 'a stu mese
ll'aria è fresca p' 'a campagna.
Chisto è tiempo d' 'a vennegna,
si t'astrigne a na cumpagna
zittu zittu dint' 'a vigna,
nun se lagna e lass'a fà.

Chiove, nebbia, scura notte.
Stu Nuvembre porta 'mpietto
nu ricordo fatto a llutto:
nu canisto 'e crisanteme...
chistu sciore, che tristezza,
mette 'ncore n'amarezza!

A Natale, 'o zampugnaro,
'e biancale, 'e spare, 'e bbotte,
'o presebbio a piede 'o lietto.
Quann' è 'mpunto mezanotte
cu mugliereta tu miette
'o Bambino dint' 'a grotta...
Le bras sur un marteau gigantesque, effrayant
D'ivresse et de grandeur, le front vaste, riant
Comme un clairon d'airain, avec toute sa bouche,
Et prenant ce gros-là dans son regard farouche,
Le Forgeron parlait à Louis Seize, un jour
Que le Peuple était là, se tordant tout autour,
Et sur les lambris d'or traînant sa veste sale.
Or le bon roi, debout sur son ventre, était pâle,
Pâle comme un vaincu qu'on prend pour le gibet,
Et, soumis comme un chien, jamais ne regimbait,
Car ce maraud de forge aux énormes épaules
Lui disait de vieux mots et des choses si drôles,
Que cela l'empoignait au front, comme cela !
" Or tu sais bien, Monsieur, nous chantions tra la la
Et nous piquions les boeufs vers les sillons des autres :
Le Chanoine au soleil filait des patenôtres
Sur des chapelets clairs grenés de pièces d'or
Le Seigneur, à cheval, passait, sonnant du cor
Et l'un avec la hart, l'autre avec la cravache
Nous fouaillaient. - Hébétés comme des yeux de vache,
Nos yeux ne pleuraient plus ; nous allions, nous allions,
Et quand nous avions mis le pays en sillons,
Quand nous avions laissé dans cette terre noire
Un peu de notre chair.., nous avions un pourboire :
On nous faisait flamber nos taudis dans la nuit ;
Nos petits y faisaient un gâteau fort bien cuit. ...
" Oh ! je ne me plains pas. Je te dis mes bêtises,
C'est entre nous. J'admets que tu me contredises.
Or n'est-ce pas joyeux de voir au mois de juin
Dans les granges entrer des voitures de foin
Énormes ? De sentir l'odeur de ce qui pousse,
Des vergers quand il pleut un peu, de l'herbe rousse ?
De voir des blés, des blés, des épis pleins de grain,
De penser que cela prépare bien du pain ?...
Oh ! plus fort, on irait, au fourneau qui s'allume,
Chanter joyeusement en martelant l'enclume,
Si l'on était certain de pouvoir prendre un peu,
Étant homme, à la fin ! de ce que donne Dieu !
- Mais voilà, c'est toujours la même vieille histoire !

" Mais je sais, maintenant ! Moi, je ne peux plus croire,
Quand j'ai deux bonnes mains, mon front et mon marteau,
Qu'un homme vienne là, dague sur le manteau,
Et me dise : Mon gars, ensemence ma terre ;
Que l'on arrive encor quand ce serait la guerre,
Me prendre mon garçon comme cela, chez moi !
- Moi, je serais un homme, et toi, tu serais roi,
Tu me dirais : Je veux !... - Tu vois bien, c'est stupide.
Tu crois que j'aime voir ta baraque splendide,
Tes officiers dorés, tes mille chenapans,
Tes palsembleu bâtards tournant comme des paons :
Ils ont rempli ton nid de l'odeur de nos filles
Et de petits billets pour nous mettre aux Bastilles,
Et nous dirons : C'est bien : les pauvres à genoux !
Nous dorerons ton Louvre en donnant nos gros sous !
Et tu te soûleras, tu feras belle fête.
- Et ces Messieurs riront, les reins sur notre tête !

" Non. Ces saletés-là datent de nos papas !
Oh ! Le Peuple n'est plus une putain. Trois pas
Et, tous, nous avons mis ta Bastille en poussière.
Cette bête suait du sang à chaque pierre
Et c'était dégoûtant, la Bastille debout
Avec ses murs lépreux qui nous racontaient tout
Et, toujours, nous tenaient enfermés dans leur ombre !

- Citoyen ! citoyen ! c'était le passé sombre
Qui croulait, qui râlait, quand nous prîmes la tour !
Nous avions quelque chose au coeur comme l'amour.
Nous avions embrassé nos fils sur nos poitrines.
Et, comme des chevaux, en soufflant des narines
Nous allions, fiers et forts, et ça nous battait là...
Nous marchions au soleil, front haut, - comme cela, -
Dans Paris ! On venait devant nos vestes sales.
Enfin ! Nous nous sentions Hommes ! Nous étions pâles,
Sire, nous étions soûls de terribles espoirs :
Et quand nous fûmes là, devant les donjons noirs,
Agitant nos clairons et nos feuilles de chêne,
Les piques à la main ; nous n'eûmes pas de haine,
- Nous nous sentions si forts, nous voulions être doux !

" Et depuis ce jour-là, nous sommes comme fous !
Le tas des ouvriers a monté dans la rue,
Et ces maudits s'en vont, foule toujours accrue
De sombres revenants, aux portes des richards.
Moi, je cours avec eux assommer les mouchards :
Et je vais dans Paris, noir marteau sur l'épaule,
Farouche, à chaque coin balayant quelque drôle,
Et, si tu me riais au nez, je te tuerais !
- Puis, tu peux y compter tu te feras des frais
Avec tes hommes noirs, qui prennent nos requêtes
Pour se les renvoyer comme sur des raquettes
Et, tout bas, les malins ! se disent : " Qu'ils sont sots ! "
Pour mitonner des lois, coller de petits pots
Pleins de jolis décrets roses et de droguailles,
S'amuser à couper proprement quelques tailles.
Puis se boucher le nez quand nous marchons près d'eux,
- Nos doux représentants qui nous trouvent crasseux ! -
Pour ne rien redouter, rien, que les baïonnettes...,
C'est très bien. Foin de leur tabatière à sornettes !
Nous en avons assez, là, de ces cerveaux plats
Et de ces ventres-dieux. Ah ! ce sont là les plats
Que tu nous sers, bourgeois, quand nous sommes féroces,
Quand nous brisons déjà les sceptres et les crosses !... "
Il le prend par le bras, arrache le velours
Des rideaux, et lui montre en bas les larges cours
Où fourmille, où fourmille, où se lève la foule,
La foule épouvantable avec des bruits de houle,
Hurlant comme une chienne, hurlant comme une mer,
Avec ses bâtons forts et ses piques de fer
Ses tambours, ses grands cris de halles et de bouges,
Tas sombre de haillons saignant de bonnets rouges :
L'Homme, par la fenêtre ouverte, montre tout
Au roi pâle et suant qui chancelle debout,
Malade à regarder cela !
" C'est la Crapule,
Sire. Ça bave aux murs, ça monte, ça pullule :
- Puisqu'ils ne mangent pas, Sire, ce sont des gueux !
Je suis un forgeron : ma femme est avec eux,
Folle ! Elle croit trouver du pain aux Tuileries !
- On ne veut pas de nous dans les boulangeries.
J'ai trois petits. Je suis crapule. - Je connais
Des vieilles qui s'en vont pleurant sous leurs bonnets
Parce qu'on leur a pris leur garçon ou leur fille :
C'est la crapule. - Un homme était à la Bastille,
Un autre était forçat : et tous deux, citoyens
Honnêtes. Libérés, ils sont comme des chiens :
On les insulte ! Alors, ils ont là quelque chose
Qui leur l'ait mal, allez ! C'est terrible, et c'est cause
Que se sentant brisés, que, se sentant damnés,
Ils sont là, maintenant, hurlant sous votre nez !
Crapule. - Là-dedans sont des filles, infâmes ,
Parce que, - vous saviez que c'est faible, les femmes, -
Messeigneurs de la cour, - que ça veut toujours bien, -
Vous avez craché sur l'âme, comme rien !
Vos belles, aujourd'hui, sont là. C'est la crapule.

" Oh ! tous les Malheureux, tous ceux dont le dos brûle
Sous le soleil féroce, et qui vont, et qui vont,
Qui dans ce travail-là sentent crever leur front...
Chapeau bas, mes bourgeois ! Oh ! ceux-là, sont les Hommes !
Nous sommes Ouvriers, Sire ! Ouvriers ! Nous sommes
Pour les grands temps nouveaux où l'on voudra savoir,
Où l'Homme forgera du matin jusqu'au soir
Chasseur des grands effets, chasseur des grandes causes,
Où, lentement vainqueur il domptera les choses
Et montera sur Tout, comme sur un cheval !
Oh ! splendides lueurs des forges ! Plus de mal,
Plus ! - Ce qu'on ne sait pas, c'est peut-être terrible :
Nous saurons ! - Nos marteaux en main, passons au crible
Tout ce que nous savons : puis, Frères, en avant !
Nous faisons quelquefois ce grand rêve émouvant
De vivre simplement, ardemment, sans rien dire
De mauvais, travaillant sous l'auguste sourire
D'une femme qu'on aime avec un noble amour :
Et l'on travaillerait fièrement tout le jour
Écoutant le devoir comme un clairon qui sonne :
Et l'on se sentirait très heureux ; et personne,
Oh ! personne, surtout, ne vous ferait ployer !
On aurait un fusil au-dessus du foyer...

" Oh ! mais l'air est tout plein d'une odeur de bataille !
Que te disais-je donc ? Je suis de la canaille !
Il reste des mouchards et des accapareurs.
Nous sommes libres, nous ! Nous avons des terreurs
Où nous nous sentons grands, oh ! si grands ! Tout à l'heure
Je parlais de devoir calme, d'une demeure...
Regarde donc le ciel ! - C'est trop petit pour nous,
Nous crèverions de chaud, nous serions à genoux !
Regarde donc le ciel ! - Je rentre dans la foule,
Dans la grande canaille effroyable, qui roule,
Sire, tes vieux canons sur les sales pavés :
- Oh ! quand nous serons morts, nous les aurons lavés
- Et si, devant nos cris, devant notre vengeance,
Les pattes des vieux rois mordorés, sur la France
Poussent leurs régiments en habits de gala,
Eh bien, n'est-ce pas, vous tous ? - Merde à ces chiens-là ! "

- Il reprit son marteau sur l'épaule.
La foule
Près de cet homme-là se sentait l'âme soûle,
Et, dans la grande cour dans les appartements,
Où Paris haletait avec des hurlements,
Un frisson secoua l'immense populace.
Alors, de sa main large et superbe de crasse,
Bien que le roi ventru suât, le Forgeron,
Terrible, lui jeta le bonnet rouge au front !
¿Decís que la rima ya ha muerto, y que es ruido
De compás monótono, muy fuerte al oído,
Y que rotos ritmos son música interna
Para los arcanos del alma moderna?

¿Música? Mas cuándo lo que no es eufónico
Por suerte ha dejado de ser inarmónico?

Descoyuntamientos y palabrería,
No serán ni han sido jamás Poesía.
Es a sus dominios áspera la ruta,
Y todo el que quiera, su don no disfruta.
Y así como el mármol a cincel se labra,
Al esfuerzo nacen idea y palabra.
Siempre el arte es largo. Poeta o artista
No con bagatelas el lauro conquista.

Grautier dijo: «Calce la Musa un estrecho
Coturno». Y os digo, que el píe que no es hecho
A molde no holgado, rehúya la ordalia
Del verso, y que lleve más libre sandalia.

Dejad a la Musa su veste radiosa:
Las trabas del verso no tiene la prosa.
¿Y cuándo el desorden, la no coherencia,
Han sido armonía y han sido cadencia?

«Son cosas sutiles, son matices trémulos»,
Decís, «y vosotros que sois nuestros émulos
No entendéis».
                                    Es cierto. Jamás lo estrambótico
Entendemos, menos lo insulso o caótico.

¿Que usáis simbolismos? Lo diáfano es norma:
Jamás lo que el hombre retuerce o deforma.
¿Queréis que os comprendan?  Sed siempre muy claros:
Que brillen los versos cual mármol de Paros,
Y en ellos, la rima cual oro en la jagua,
O rosa de fuego temblando en el agua;
Y como el poema del BJiin cruza Elsa,
Que siga la Musa radiante y excelsa,
Dejando cual huella de luz vivos rastros,
Y orladas las sienes en polvo de astros.

Ícaro, atrevido, vio vano su anhelo....
Si no tenéis alas no intentéis el vuelo.
Quedaos en tierra si la fuerza os falta.
Es duro el ascenso. La cumbre es muy alta.
Poesía es Arte, del Arte la cima,
Y la estrofa es alma, y es ritmo y es rima.
Verdad que las reglas son difícil aula,
Mas falta no hace que entréis a la jaula;
Y de Arte y de numen al soplo y al toque
Tan sólo ha surgido la estatua del bloque.
Vii
Mientras el brillo de tu gloria augura
ser en la eternidad sol sin poniente,
fénix de viva luz, fénix ardiente,
diamante parangón de la pintura,
de España está sobre la veste oscura
tu nombre, como joya reluciente,
rompe la Envidia el fatigado diente,
y el Olvido lamenta su amargura.
Yo en equívoco altar, tú en sacro fuego,
miro a través de mi penumbra el día
en que el calor de tu amistad, don Diego,
jugando de la luz con la armonía,
con la alma luz, de tu pincel el juego
el alma duplicó de la faz mía.Alma de oro, fina voz de oro,
al venir hacia mí, ¿por qué suspiras?
Ya empieza el noble coro de las liras
a preludiar el himno a tu decoro;
ya el misterioso son del noble coro
calma el Centauro sus grotescas iras,
y con nueva pasión que les inspiras
tornan a amarse Angélica y Medoro.
A Teócrito y Possin la Fama dote
con la corona de laurel supremo;
que en donde da Cervantes el Quijote
y yo las telas con mis luces gemo,
para son Luis de Góngora y Argote
traerá una nueva palma Polifemo.En tanto «pace estrellas» el Pegaso divino,
y vela tu hipógrifo, Velázquez, la Fortuna,
en los celestes parques al Cisne gongorino
deshoja sus sutiles margaritas la Luna.
Tu castillo, Velázquez, se eleva en el camino
del Arte como torre que de águilas es cuna,
y tu castillo, Góngora, se alza al azul cual una
jaula de ruiseñores labrada en oro fino.
Gloriosa la península que abriga tal colonia.
¡Aquí bronce corintio, y allá marmol de Jonia!
Las rosas a Velázquez, y a Góngora claveles.
De ruiseñores y águilas se pueblan las encinas,
y mientras pasa Angélica sonriendo a las Meninas,
salen las nueve musas de un bosque de laureles.
Un singe en veste de brocart

Trotte et gambade devant elle

Qui froisse un mouchoir de dentelle

Dans sa main gantée avec art,


Tandis qu'un négrillon tout rouge

Maintient à tour de bras les pans

De sa lourde robe en suspens,

Attentif à tout pli qui bouge ;


Le singe ne perd pas des yeux

La gorge blanche de la dame.

Opulent trésor que réclame

Le torse nu de l'un des dieux ;


Le négrillon parfois soulève

Plus haut qu'il ne faut, l'aigrefin,

Son fardeau somptueux, afin

De voir ce dont la nuit il rêve ;


Elle va par les escaliers,

Et ne paraît pas davantage

Sensible à l'insolent suffrage

De ses animaux familiers.
Como gran flor que el peso de su corola inclina,
A veces en mis brazos tu talle se reclina,
Y en mí los ojos clavas verdes y relucientes,
Con radiosa sonrisa do espejean tus dientes...

Te abrazo, y en el éxtasis que mi ser embelesa
Siento el áspero goce de la fiera en la presa.
Sonríes... y mi alma se estremece abstraída
Al borde del deleite viéndose suspendida.

Y el corazón me muerde con ímpetu el deseo
De llevarte a la muerte, viva, como te veo.
Fijo en los ojos tuyos, do una llama destella,
Voy bajando a tu alma para fundirme en ella.

De tu veste entreabierta, de amplios pliegues flotantes,
Do la pielen fulgores, reluce por instantes,
Sube un cálido vaho como un perfume ardiente,
Perfume que me turba, y entonces, lentamente,
Con los ojos cerrados, y entre tus brazos preso,
Cojo sobre tus dientes la rosa de tu beso.
A la desierta plaza
conduce un laberinto de callejas.
A un lado, el viejo paredón sombrío
de una ruinosa iglesia;
a otro lado, la tapia blanquecina
de un huerto de cipreses y palmeras,
y, frente a mí, la casa,
y en la casa la reja
ante el cristal que levemente empaña
su figurilla plácida y risueña.
Me apartaré. No quiero
llamar a tu ventana... Primavera
viene -su veste blanca
flota en el aire de la plaza muerta-;
viene a encender las rosas
rojas de tus rosales... Quiero verla...
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Que tus ojos radien sobre mi destino,
que tu veste nívea, que la luz orló,
ampare mis culpas del torvo Dios Trino:
¡Señora, te amo! ¡Ni el grande Agustino
ni el tierno Bernardo te amaron cual yo!

Que la luna, octante de bruñida plata,
escabel de plata de tu piel real,
por mi noche bogue, por mi noche ingrata,
y en su sombra sea místico fanal.

Que los albos lises de tu vestidura
el erial perfumen de mi senda dura,
y por ti mi vida brillará tan pura
cual los lises albos de tu vestidura.

Te daré mis versos: floración tardía;
mi piedad de niño: floración de abril;
e irán a tu solio, dulce madre mía,
mis castos amores en blanca theoría,
con cirio en las manos y toca monjil.
Su veste era de tul con albas rosas,
y eran sus labios como rosas pálidas,
y eran sus labios Fríos,
Eran fríos y azules como el agua
que sueña en el silencio de los bosques.

El mar Tirreno, con cadencias lánguidas,
Arrullaba su vida,
que se esparcía en pétalos al aura.

Moría dulcemente,
Los blancos pies en cruz... Cuando cantaba
El cristal de su voz sangrar hacía
El corazón, al evocar la patria.

Un férreo brazalete, con su nombre.
Que era blancura y suavidad, llevaba
Siempre en el grácil puño, y parecía
La argolla del destierro en dura playa.

Moría en un perfume de heliotropo,
Fijos los ojos en las velas blancas
Que se alejaban lentamente, sobre
El agua azul de la dormida rada.

Moría en el otoño... con las hojas...
y era como una música lejana,
Como doliente música
Que en armonías trémulas se apaga.
« M. Victor Hugo vient de publier à Bruxelles un livre qui a pour titre :
Napoléon le Petit, et qui renferme les calomnies les plus odieuses contre le prince-président. »
On raconte qu'un des jours de la semaine dernière un fonctionnaire apporte ce libellé à
Saint-Cloud. Lorsque Louis-Napoléon le vit, il le prit, l'examina un instant avec le sourire
du mépris sur les lèvres, puis s'adressant aux personnes qui l'entouraient, il dit, en leur
montrant le pamphlet :

« Voyez, messieurs, voici Napoléon le Petit, par Victor Hugo le Grand. »
(JOURNAUX ÉLYSÉENS, AOÛT 1852.)


Ah ! tu finiras bien par hurler, misérable !
Encor tout haletant de ton crime exécrable,
Dans ton triomphe abject, si lugubre et si prompt,
Je t'ai saisi. J'ai mis l'écriteau sur ton front ;
Et maintenant la foule accourt, et te bafoue.
Toi, tandis qu'au poteau le châtiment te cloue,
Que le carcan te force à lever le menton,
Tandis que, de ta veste arrachant le bouton,
L'histoire à mes côtés met à nu ton épaule,
Tu dis : je ne sens rien ! et tu nous railles, drôle !
Ton rire sur mon nom gaîment vient écumer ;
Mais je tiens le fer rouge et vois ta chair fumer.


Jersey, le 30 octobre 1852.
Sole di mezzogiorno, nel luglio felice, sulla piazza deserta:
piazza lontana di città lontana, tu ed il tuo uomo,
e quello era il mondo.
Bianca nella tua veste, bianca vibratile fiamma tu pure,
nell'abbaglio d'incendio dell'aria.
Bianco il tuo riso perduto nel riso di lui, fresco di polla il
tuo riso d'amore tra il vasto fulgere ed ardere.
Non sarebbe discesa la notte, non sarebbe venuto il domani,
tua la luce, tuo l'uomo, tuo il tempo.
Fermasti il tempo in pieno sull'ora solare per cui in terra
tu fosti divina:
il resto è ombra e polvere d'ombra.
Io ti ** vista seduta al pianoforte
e mi sei parsa un angelo, una vergine
di certissimo aspetto – come fossi
oggi cresciuta lì su quelle soglie
di sveltissima musica, o fermento
bello di donna dalle dritte spalle
cui le dita di angelo racchiuso

hanno impresso una curva di mistero
mentre che all'apparenza ne gioivi
profondamente come in veste nuova.

E noi tutti di te ripensavamo
cose profonde e più miracolosa
che una vetta di sogno la tua dolce
cara presenza ci scioglieva i nodi
dentro il sangue del male e sollevava
la nostr'aria nel palpito felice
dei tuoi biondi finissimi capelli.
Mo accumencia l'anno nuovo,
è Jennaro, ch'alleria!
Cu 'a speranza e 'a fantasia,
tu te pienze ca chist'anno
forse è cchiù meglio 'e chill'ato...
quanno è a fine t'he sbagliato.
A Febbraio nce sta 'o viglione:
chi se veste d'arlecchino,
pulcinella o colombina...
e me fanno tanta pena
chesti ggente cu sti facce:
ma songh'uommene o pagliacce?!

Quanno vene 'o mese 'e Marzo
pure 'e ggatte fanno ammore,
ch'aggia fa? Me guardo a lloro?
'Mmiezo 'e grade cu 'a vicina,
faccio un anema e curaggio
e m'acchiappo nu passaggio.

Comme è ddoce 'o mese Abbrile,
tutta ll'aria è profumata!
P' 'e ciardine quanno è 'a sera
cu na femmena abbracciata,
musso e musso, core e core...
tutta smania e tutto ammore.

Quant'è bello 'o mese 'e Maggio
quanno schioppano sti rrose!
Che prufumo int'a stu mese
pe Pusiileco addiruso!
Stongo 'nterra o 'mparaviso
quanno tu staje 'mbraccio a mme?

Quanno è Giugno la stagione
vene e trase chianu chiano:
s'ammatura pure 'o ggrano,
s'ammatura tutte cose...
Pure 'a femmena scuntrosa
tu t' 'a cuoglie cu nu vaso.

Quanno è Luglio 'mmiezo 'o mare,
'ncopp' 'a spiaggia, 'nterra 'a rena
mamma mia, quanta sirene!
Io cu ll'uocchie m' 'e magnasse;
guardo a chesta, guardo a chella,
ma pe mme tu si 'a cchiù bella!

Quanno è Austo che calore!
lo nun saccio che me piglia...
Chistu sole me scumpiglia!
E te guardo cu passione:
volle 'o sango dint' 'e vvene
e nisciuno me trattene.

È chest'aria settembrina
ca te mette dint' 'e vvene
tanta smania 'e vulè bbene!
Nu suspiro, ciente vase
mille cose e 'o desiderio
ca st' ammore fosse serio.

Vene Uttombre, int' 'a stu mese
ll'aria è fresca p' 'a campagna.
Chisto è tiempo d' 'a vennegna,
si t'astrigne a na cumpagna
zittu zittu dint' 'a vigna,
nun se lagna e lass'a fà.

Chiove, nebbia, scura notte.
Stu Nuvembre porta 'mpietto
nu ricordo fatto a llutto:
nu canisto 'e crisanteme...
chistu sciore, che tristezza,
mette 'ncore n'amarezza!

A Natale, 'o zampugnaro,
'e biancale, 'e spare, 'e bbotte,
'o presebbio a piede 'o lietto.
Quann' è 'mpunto mezanotte
cu mugliereta tu miette
'o Bambino dint' 'a grotta...
Mo accumencia l'anno nuovo,
è Jennaro, ch'alleria!
Cu 'a speranza e 'a fantasia,
tu te pienze ca chist'anno
forse è cchiù meglio 'e chill'ato...
quanno è a fine t'he sbagliato.
A Febbraio nce sta 'o viglione:
chi se veste d'arlecchino,
pulcinella o colombina...
e me fanno tanta pena
chesti ggente cu sti facce:
ma songh'uommene o pagliacce?!

Quanno vene 'o mese 'e Marzo
pure 'e ggatte fanno ammore,
ch'aggia fa? Me guardo a lloro?
'Mmiezo 'e grade cu 'a vicina,
faccio un anema e curaggio
e m'acchiappo nu passaggio.

Comme è ddoce 'o mese Abbrile,
tutta ll'aria è profumata!
P' 'e ciardine quanno è 'a sera
cu na femmena abbracciata,
musso e musso, core e core...
tutta smania e tutto ammore.

Quant'è bello 'o mese 'e Maggio
quanno schioppano sti rrose!
Che prufumo int'a stu mese
pe Pusiileco addiruso!
Stongo 'nterra o 'mparaviso
quanno tu staje 'mbraccio a mme?

Quanno è Giugno la stagione
vene e trase chianu chiano:
s'ammatura pure 'o ggrano,
s'ammatura tutte cose...
Pure 'a femmena scuntrosa
tu t' 'a cuoglie cu nu vaso.

Quanno è Luglio 'mmiezo 'o mare,
'ncopp' 'a spiaggia, 'nterra 'a rena
mamma mia, quanta sirene!
Io cu ll'uocchie m' 'e magnasse;
guardo a chesta, guardo a chella,
ma pe mme tu si 'a cchiù bella!

Quanno è Austo che calore!
lo nun saccio che me piglia...
Chistu sole me scumpiglia!
E te guardo cu passione:
volle 'o sango dint' 'e vvene
e nisciuno me trattene.

È chest'aria settembrina
ca te mette dint' 'e vvene
tanta smania 'e vulè bbene!
Nu suspiro, ciente vase
mille cose e 'o desiderio
ca st' ammore fosse serio.

Vene Uttombre, int' 'a stu mese
ll'aria è fresca p' 'a campagna.
Chisto è tiempo d' 'a vennegna,
si t'astrigne a na cumpagna
zittu zittu dint' 'a vigna,
nun se lagna e lass'a fà.

Chiove, nebbia, scura notte.
Stu Nuvembre porta 'mpietto
nu ricordo fatto a llutto:
nu canisto 'e crisanteme...
chistu sciore, che tristezza,
mette 'ncore n'amarezza!

A Natale, 'o zampugnaro,
'e biancale, 'e spare, 'e bbotte,
'o presebbio a piede 'o lietto.
Quann' è 'mpunto mezanotte
cu mugliereta tu miette
'o Bambino dint' 'a grotta...
Sole di mezzogiorno, nel luglio felice, sulla piazza deserta:
piazza lontana di città lontana, tu ed il tuo uomo,
e quello era il mondo.
Bianca nella tua veste, bianca vibratile fiamma tu pure,
nell'abbaglio d'incendio dell'aria.
Bianco il tuo riso perduto nel riso di lui, fresco di polla il
tuo riso d'amore tra il vasto fulgere ed ardere.
Non sarebbe discesa la notte, non sarebbe venuto il domani,
tua la luce, tuo l'uomo, tuo il tempo.
Fermasti il tempo in pieno sull'ora solare per cui in terra
tu fosti divina:
il resto è ombra e polvere d'ombra.

— The End —