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Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Ì faccio 'o schiattamuorto 'e prufessione,
modestamente songo conosciuto
pè tutt'e ccase 'e dinto a stu rione,
peccheè quann'io manèo 'nu tavuto,
songo 'nu specialista 'e qualità.

Ì tengo mode, garbo e gentilezza.
'O muorto nmano a me pò stà sicuro,
ca nun ave 'nu sgarbo, 'na schifezza.
Io 'o tratto comme fosse 'nu criaturo
che dice 'o pate, mme voglio jì a cuccà.

E 'o co'cco luongo, stiso 'int"o spurtone,
oure si è viecchio pare n'angiulillo.
'O muorto nun ha età, è 'nu guaglione
ca s'è addurmuto placido e tranquillo
'nu suonno doce pè ll'eternità.

E 'o suonno eterno tene stu vantaggio,
ca si t'adduorme nun te scite maie.
Capisco, pè murì 'nce vò 'o curaggio;
ma quanno chella vene tu che ffaie?
Nn'a manne n'ata vota all'al di là?

Chella nun fa 'o viaggio inutilmente.
Chella nun se ne va maie avvacante.
Sì povero, sì ricco, sì putente,
'nfaccia a sti ccose chella fa a gnurante,
comme a 'nu sbirro che t'adda arrestà.

E si t'arresta nun ce stanno sante,
nun ce stanno raggione 'a fà presente;
te ll'aggio ditto, chella fa 'a gnurante...
'A chesta recchia, dice, io nun ce sento;
e si nun sente, tu ch'allucche a ffà?

'A morta, 'e vvote, 'e comme ll'amnistia
che libbera pè sempe 'a tutt'e guaie
a quaccheduno ca, parola mia,
'ncoppa a sta terra nun ha avuto maie
'nu poco 'e pace... 'na tranquillità.

E quante n'aggio visto 'e cose brutte:
'nu muorto ancora vivo dinto 'o lietto,
'na mugliera ca già teneva 'o llutto
appriparato dinto a nù cassetto,
aspettanno 'o mumento 'e s'o 'ngignà.

C'è quacche ricco ca rimane scritto:
" Io voglio un funerale 'e primma classe! ".
E 'ncapo a isso penza 'e fà 'o deritto:
" Così non mi confondo con la ***** ".
Ma 'o ssape, o no, ca 'e llire 'lasse ccà?!

'A morta è una, 'e mezze songhe tante
ca tene sempe pronta sta signora.
Però, 'a cchiù trista è " la morte ambulante "
che può truvà p'a strada a qualunq'ora
(comme se dice?... ) pè fatalità.

Ormai per me il trapasso è 'na pazziella;
è 'nu passaggio dal sonoro al muto.
E quanno s'è stutata 'a lampella
significa ca ll'opera è fernuta
e 'o primm'attore s'è ghiuto a cuccà.
Mariah Tulli Feb 2019
Chovia a umas três horas, nada tão diferente de dias normais em São Paulo. Clara se arrumava para o trabalho com aquela pressa de quem ia perder o trem, mas na verdade era apenas a euforia pro segundo encontro com Luisa, que ia acontecer no fim do expediente. Se desesperou mais ainda quando olhou para cama e viu o tanto de roupa que havia deixado espalhada.  E se no final nós viermos para minha casa? Vai estar tudo uma bagunça, pensou ela, mas deixou assim mesmo, pois não queria criar expectativas demais, era apenas o segundo encontro e como já havia notado, Luisa parecia ser daquelas meninas meio tímidas de início. Pronto, calça preta, blusa preta e um boné vermelho que combinava com o tênis, pois em dias de chuva era necessário já que sempre perdia a sombrinha.

- Oii linda, então está tudo certo pra hoje né? Saio às 17h e prometo não atrasar. Disse clara enfatizando aquela idéia de pontualidade mais pra ela mesma do que para Luisa.
- Clara.. ops, claro rs! Te encontro no metrô perto do seu trabalho :)

Luisa tinha mania de fazer piadas com coisas bem bobas, era sua marca. Logo em seguida da mensagem enviada percebeu que mais uma vez tinha feito isso e riu de si mesma. Assim se estendeu o dia, Luisa sem muito o que fazer pois era seu dia de folga, então estava com todo o tempo do mundo para se arrumar, mas era daquelas decididas que pensava na roupa que iria vestir enquanto tomava banho e em dez minutos já estava pronta. O relógio despertou às 16h, trinta minutos se arrumando e mais trinta no metrô. Luisa estava pontualmente no local combinado, mesmo sabendo que Clara iria demorar mais um pouco ate finalizar todas as tarefas. Mais trinta minutos se passaram e nesse tempo Luisa já estava sentada em um bar ao lado da saída lateral do metrô com uma cerveja na mão, avistou aquele sorriso intenso de Clara, sorriu de volta cantarolando em sua cabeça “cê tem uma cara de quem vai fuder minha vida”, música vívida entre os jovens.

-Desculpa, te deixei esperando mais uma vez, como vamos resolver essa dívida aí? Disse clara esperando que a resposta fosse “com um beijo”.
-Sem problemas, já estou quase me acostumando, me rendi a uma cerveja, mas podemos beber outras lá em casa, o que acha?

Sem mais nem menos Clara aceitou e ficou surpresa pelo convite, a timidez percebida por ela já tinha ido embora pelo jeito. Chegando lá sentou em um colchão em cima de um pallet que ficava na sala e começou a analisar todo o ambiente, uma estante com dezenas de livros e três plantas pequenas no topo. Luisa com o tempo livre do dia deixou a casa toda arrumada e a geladeira cheia de cerveja, abriu uma garrafa e sentou-se ao lado de Clara em seu sofá improvisado.

-Posso? Pergunta Luisa ao indicar que queria passar a mão no sidecut de Clara.
-Claro, aproveita que raspei ontem.

Com a deixa para carícias, a mão ia deslizando de um lado para o outro em um toque suave na parte raspada do cabelo, até chegar ao ponto em que Clara já estava ficando um pouco excitada e gentilmente virou-se para Luisa encarou-a e sorriu, sem dizer nada, silêncio total, deixando aquela tensão pré beijo no ar por uns segundos. E sem nenhum esforço deixou que acontecesse naturalmente, sentindo aquele beijo encantador de Luisa. Pernas se entrelaçaram, corpos mais pertos um do outro, Clara acariciava lentamente o ombro de Luisa, aproveitando o movimento para abaixar a alça de sua blusa e dar um leve beijo na parte exposta, se estendendo ao pescoço, fazendo Luisa se arrepiar. Naquele momento o ambiente começa a ficar mais quente e num piscar de olhos as duas já se livraram de suas blusas. Clara volta a acariciar a pele de Luisa, mas dessa vez mais intensamente, percorre a mão pela barriga, puxa cuidadosamente a pele perto do quadril para conter o tesão, vai deslizando pela coxa, e num movimento quase imperceptível abaixa o short de Luisa e beija seus lábios molhados, fazendo-a soltar gemidos de excitação, criando um clima mais ofegante. Luisa em um mix de sensações sentiu a pulsação mais rápida de suas veias acelerado o coração, pernas tremendo e mãos suando, até perceber que aquele oral era o primeiro em que se entregava por completo, e se entregou.  Estava segura de si que aquilo era mágica e com a respiração voltando ao normal, posou um sorriso no rosto, abraçou Clara e perdurou o afago até cair no sono.
Es media noche; la luna
Irradia en el firmamento;
Y riza al pasar el viento
Las ondas de la laguna.

En el bosque secular,
Y entre el tupido ramaje,
Turba el pájaro salvaje
La quietud con su cantar.

Y entre los contornos vagos
Del horizonte, a lo lejos
Brillan cual claros espejos,
Al pie del monte, los lagos.

Yace en paz, sola y rendida
De Tenoch la ciudad bella,
Parece que impera en ella
La muerte más que la vida.

Y no es ficción, es verdad;
Que fue tan triste su suerte
Que la orillan a la muerte
El luto y la soledad.
Su esplendor está apagado
De la guerra al terremoto;
El gran huebuetl está roto
Y el teponaxtle callado.

No alumbra el teocal, la luz
Del copal de suave aroma,
Porque el teocal se desploma
Bajo el peso de la cruz.

No cubren mantos de pluma
Los cuerpos de altivos reyes;
Tiene otro Dios y otras leyes
La tierra de Moctezuma.

Y ante este Dios y esta ley
Que transforman su recinto
Sólo al César Carlos Quinto
Reconoce como rey.

¡Cuántos heroicos afanes!
¡Cuántos horribles estragos
Han visto bosques y lagos,
Ventisqueros y volcanes!

Está el palacio vacío
Sin pompas ni ricas galas;
Desiertas se ven sus salas
Su exterior mudo y sombrío.

Y zumba en su derredor
Sel viento la aguda queja,
Como un suspiro que deja
Honda impresión de dolor.

Es el profundo lamento
De una raza sin fortuna:
¡La sangre que en la laguna
Flota y se queja en el viento!

Por eso duerme rendida
De Tenoch la ciudad bella,
Como si imperase en ella
La muerte más que la vida.
Frente a la anchurosa plaza,
Cerca del teocal sagrado
Y del palacio olvidado
Que pronta ruina amenaza,

Donde con riqueza suma
Viviera, en tiempo mejor,
Axayacatl el señor
Y padre de Moctezuma,

En corta y estrecha calle
Desde la cual, el que pasa
Mira fabricar la casa
Del alto marqués del Valle.

Así en la noche sombría
Como en la tarde callada
Y al fulgor de la alborada
Con que nace el nuevo día,

En toscas piedras sentado
Y con harapos vestido,
Entre las manos hundido
El semblante demacrado;

Un hombre de aspecto rudo,
Imagen de desventura,
Siempre en la misma postura,
Y como una estatua muda,

Inclinada la cabeza,
Allí lo encuentra la gente,
como la expresión viviente
De la más honda tristeza.

¿En qué piensa? ¿Qué medita?
¿Qué dolor su alma destroza
Que ni llora, ni solloza,
Ni se queja, ni se agita?

En su conjunto reviste
Tanta tristeza ignorada,
Que la gente acostumbrada
clama al verlo: «¡el indio triste!»

Le conocen por tal nombre
En el pueblo y la nobleza,
Y dicen: es la tristeza
Que tiene formas de hombre.

A nadie llegó a contar
Su tenaz dolor profundo;
Siempre triste lo vio el mundo
En aquel mismo lugar;

Tal vez fue algún descendiente
De los nobles mejicanos,
Que al ver en extrañas manos
Y en poder de extraña gente

La nación que libre un día
Vivió con riqueza y calma
Sintió en el fondo del alma
Horrible melancolía.

Y sin ninguna amenaza,
Viendo a su nación cautiva,
Fue la expresión muda y viva
De la aflicción de su raza.

Muchos años se le vio
En igual sitio sentado,
Y allí pobre y resignado
De su tristeza murió.

Su desconocida historia
Al vulgo pasma y arredra,
Y en tosca estatua de piedra
Honrar quiso su memoria.

La estatua al cabo cayó,
Que al tiempo nada resiste,
Y «Calle del Indio Triste»
Esa calle se llamó,

Sin poder averiguar
Con ciencia ni sutileza
La causa de la tristeza
Del indio de aquel lugar;

Pero en nuestro hermoso valle,
Y en nuestra mejor ciudad,
Pasan de edad en edad
Ese nombre y esa calle.
Lirismo de invierno, rumor de crespones,
cuando ya se acerca la pronta partida;
agoreras voces de tristes canciones
que en la tarde rezan una despedida.

Visión del entierro de mis ilusiones
en la propia tumba de mortal herida.
Caridad verónica de ignotas regiones,
donde a precio de éter se pierde la vida.

Cerca de la aurora partiré llorando;
y mientras mis años se vayan curvando,
curvará guadañas mi ruta veloz.

Y ante fríos óleos de luna muriente,
con timbres de aceros en tierra indolente,
cavarán los perros, aullando, un adiós!
En libre vuelo, el cielo de mi América
hender he visto un cóndor *****, errante.
¿Qué abismo circunscribe? ¿Qué intacta
nieve augura?
Por las arterias de los ciervos montesinos
discurre para el cóndor la sangre enardecida,
bajo las pieles lúcidas, entre las carnes bellas.

¡La presa viva!, ¡el pico ensangrentado!,
¡el ala pronta!, ¡el ímpetu del vuelo!
y un delirar de cumbres y centellas.

Así mi impulso al aura de la vida,
y así mi Musa en su ilusión liviana
de que brote la carne un lirio místico.
Bestia de los demonios poseída,
¡oh carne, es hora ya del don eucarístico!

Cintila el cielo en gajos de luceros,
y querubes de vuelos melodiosos
revuelan de luceros a luceros.

Tengo la sensación de que discurro
delante de los pórticos sagrados:
alguien dice mi nombre a la distancia;
brotan dulces jardines los collados
y asume mi ternura en su fragancia.

Claridad estelar, templo encendido,
rima errante por noches de pavura,
huerto a la luz de Vésper. En olvido
mi ser se muere, mi canción no dura,
¿y fui no más un lúgubre alarido?

Carne, bestia, mi Amiga y mi Enemiga:
yo soy tú, que por leyes ominosas,
cual vano mimbre que meció una espiga
te haces nada en el polvo de las cosas...

¿Y la divina Psiquis, la Rosa entre las rosas?
¿Y mis amores que irisé de lágrimas?
¿Y mi ciudad nebúlea tras la ilusión del
día?
¿Y mis antorchas que erigí de emblema?
¿Y esta inquietud, y este ímpetu anhelante
hacia una ley o una verdad suprema?

Pesa sobre tus pétalos, ¡oh Rosa
Espiritual! tan lóbrega y cerrada
la noche, tan vacía y rencorosa,
que en vano el brillo de tu broche efunde.
Amor. Deleite. Horror. Pavesas. Nada.

¡Nada, nada por siempre! Y merecía
mi Alma, por los dioses engañada,
la Verdad, y la ley y la Armonía.
¡Sé digna de este horror y de esta nada,
y activa y valerosa, ¡oh alma mía!
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Expo 86' Jan 2016
Estou cansado e sem inspiração
Me sinto como uma bateria sem carga
Pronta para ser jogada fora
Velho e sem utilidade
Eu sou um livro a lido  na prateleira
E agora apenas guardado como um enfeite
Eu sou uma corda de guitarra quebrada
Eu sou inútil
Eu sou invisível

Sinto que meu cotidiano é uma inevitável guerra contra o mundo
Como se eu estivesse
Mariana Seabra Mar 2022
Sou uma criança apaixonada!...

E tu bem sabes que sou uma criança apaixonada!...

Mas isolo-me, confortavelmente, na esfera do casulo.

Pronta a renascer,

Mas ainda enganada…



Sinto um amor!...

Que de tanto ser infantil,  

Chega a ser puro!



(E talvez o deixemos assim, meu amor.)



Talvez nos encontremos apenas no ar.

Como dois passarinhos feridos,

Ainda ingenuamente atrapalhados,

Pelas asas que os guiam.



Apenas cruzando estas simples energias,

Em cada nuvem batente daquele tal céu ardente.

E onde nelas escalarei…

Até ao cimo do teu próprio inferno.

Onde nele, ainda te manténs refém.



Amarte-ei pela literatura,

Como tu tão bem me sabes amar…



                                 (E quanto do nosso amor,  

                                 Será também feito poesia?)



Sou uma criança apaixonada!...

E tu bem sabes que sou uma criança apaixonada!...

E agora, pronta a renascer,

Bato, suavemente, as minhas asas…





Sinto um vento!...

Alegremente, espreito fora do casulo!...




E a brisa que corre e me leva,  

Carrega em cada batida,  

Só para mim,

A sustentável leveza do amor.



(E talvez o deixemos assim, meu amor.)



Talvez nos encontremos apenas no fogo.

Como duas belas fénixes,

Usando as suas próprias cinzas,

Para pintar a mais bela das telas.




Apenas cruzando os nossos caminhos,

Em cada folha queimada que paira

Sobre os nossos tristes olhares.

E onde nelas escalarei…

Até ao cimo do nosso paraíso distante,

Onde nele ainda me mantenho refém.



Amarte-ei pelo silêncio,

Como tu tão bem me sabes amar…



                                  (E quanto do nosso amor,

                                  Será também feito poesia?)



Sou uma criança apaixonada!...

E tu bem sabes que sou uma criança apaixonada!...

E aquelas frágeis asas que me bateram,

Criaram em mim uma bela metamorfose.

Onde na beleza do simples ser,

Encontramo-nos e fomos voando.  



                                 (E quanto do nosso amor,

                                 Será também feito poesia?)



                       (Cada bater de asas da borboleta o dirá…)
Cuando volvemos las fugaces horas
        del pasado a evocar,
temblando brilla en sus pestañas negras
una lágrima pronta a resbalar.
  Y, al fin, resbala y cae como gota
        de rocío al pensar
que cual hoy por ayer, por hoy mañana,
volveremos los dos a suspirar.
Este noble poeta, que ha escuchado
los ecos de la tarde y los violines
del otoño en Verlaine, y que ha cortado
las rosas de Ronsard en los jardines
de Francia, hoy, peregrino
de un Ultramar de Sol, nos trae el oro
de su verbo divino.
¡Salterios del loor vibran en coro!
La nave bien guarnida,
con fuerte casco y acerada prora,
de viento y luz la blanca vela henchida
surca, pronta a arribar, la mar sonora.
Y yo le grito: ¡Salve! a la bandera
flamígera que tiene
esta hermosa galera,
que de una nueva España a España viene.
En las alas oscuras de la racha cortante
me das, al mismo tiempo, una pena y un goce:
algo como la helada virtud de un seno blando,
algo en que se confunden el cordial refrigerio
y el glacial desamparo de un lecho de doncella.
He aquí que en la impensada tiniebla de la muda
ciudad, eres un lampo ante las fauces lóbregas
de mi apetito: he aquí que en la húmeda tiniebla
de la lluvia, trasciendes a candor como un lino
recién lavado, y hueles, como él, a cosa casa;
he aquí que entre las sombras regando estás la esencia
del pañolín de lágrimas de alguna buena novia.
Me embozo en la tupida oscuridad, y pienso
para ti estos renglones, cuya rima recóndita
has de advertir en una pronta adivinación
porque son como pétalos nocturnos, que te llevan
un mensaje de un singular clarosfrío;
y en las tinieblas húmedas me recojo, y te mando
estas sílabas frágiles, en tropel, como ráfaga
de misterio, al umbral  de tu espíritu en vela.
Toda tú te deshaces sobre mí como una
escarcha, y el traslúcido meteoro prolóngase
fuera del tiempo; y suenan tus palabras remotas
dentro de mí, con esa intensidad quimérica
de un reloj descompuesto que da horas y horas
en una cámara destartalada...
Mariana Seabra Mar 2022
Ó vida!

Que de ti se apagou a luz

Da escrita criativa.



Não foi de ti, vida,

Foi de mim.



Foi de mim que se extinguiu!

E a mim que ela levou,

                Depois que me partiu…

Como se me levasse a vida!

Toda!

            a que existia.



E como é criativa,

A musa que me inspira à escrita!

Foi de mim;

Levou-me a vida;

                              Mas conseguiu deixar-me viva.



“Tem tanto de triste

Como de cruel:

Ser peso morto que respira.”



Escrevi isso em algum papel…

Que logo depois perdi,

Ou se molhou,

Ou o esqueci,

Em algum lugar

Ao qual não pretendo voltar.



Mais tarde, estava de frente com o Mar

Quando dei por mim a chorar…



Em algum momento pensei:

“Talvez a dor da sua partida

Seja outra faísca perdida no ar

À qual me vou agarrar,

E sentir entre os dedos

Antes de a transformar  

Em algo mais.”



O “algo mais” que me referia,

Creio que seja esta desordenada poesia.



É o sangue quente, frio, vermelho, azul, é rio, és fogo,

Sou maresia, és eu, sou tu, somos nós, é o mundo,

É a fantasia, é a verdade disfarçada de ironia,

É dor, é amor, é tudo o que caiba num poema,

É tudo o que faça encher; se possível, transbordar!



Foram tantos!  

Os que me imploraram para os escrever.

Era eu que ia buscar a inspiração;

Ou era ela que me vinha socorrer?!



No frenesim da escrita maldita

Ficou outra questão por responder.



A caneta tornou-se um órgão essencial

Que não pedi para transplantarem cá dentro;

Sentia a sua forte presença nos momentos de maior alento;

Era a ponte que eu percorria, entre o sentir e o saber;

Assisti enquanto se estendia; dobrava! mas nunca partia;

Até encontrar na página branca uma saída

Para poder florescer; e florescia!

Nascia uma folha que era tecida; com uma teia tão fina que ninguém via;

Só brilhava quando a luz lhe batia; resplandecia!

Quando existia uma ligação direta entre mim e a magia;

De estar na beira do precipício entre a morte e a armadilha;

A que escolhem chamar de vida.



Ah! Musa criativa…

A única que me inspira à escrita!

Sei que um dia te irei reler,

Mas só quando estiver pronta para te entender.



Prometo que vou fazer por o merecer!



Talvez quando esta agonia paradoxal

De ser

Tão humana e sentimental

De ter

De amar à distância  

Uma humana tão excecional

Fizer sentido;  

                        Ou então desaparecer!



Foi um “adeus” que nem te cheguei a dizer…



Nem vou tentar romancear

Toda a angústia que vivi; contida

Numa simples despedida.  



Foi como se dissesse adeus à vida!



Pois nem toda a tinta

Alguma vez já vertida

Serviu para camuflar o *****

Que saiu da minha espinha

Quando a adaga me acertou.



Até hoje, nem eu sei como me atingiu!

Se fui eu que não a vi,

Ou se fui eu quem a espetou?!



Mas era *****, muito *****,

Tudo o que de mim sangrou;

Quando descobri,

Num mero dia, num inferno acaso,

Que no final das contas

A única que eu tanto amava

Se tinha entregue a um alguém tão raso.



Tapei os olhos com terra suja!...

Tal como decidiu fazer a minha musa.



“O pior cego é o que não quer ver!”

Prefere fechar os olhos porque abri-los é sofrer!



Induzi-me à cegueira;

Amnésia propositada;

Alma bem trancada;

Tudo para a tentar esquecer.



Tudo para lhe pagar na mesma moeda!



Então, claramente, o desfecho da narrativa só poderia ser:

De olhos bem fechados se deu a queda…



Foi assim que aprendi:

A vingança tal como o ódio,

É veneno para quem a traz!



Parei…

Dei um, dois, três, quatro, cinco mil passos atrás.

Relaxei…

Segui em frente.

                                         Lá ia eu  

                                                        com a corrente…



Inspirei amor e paz.



E foi assim que os abri,

Com uma chapada de água fria.



Não posso dizer que não a mereci.



Foi à chuva, nua, de frente com a verdade pura e crua,  

que descobri do que era capaz; e quando soltei ar de novo,  

expeli branco, afastou-se um corvo, brilhou o sol com a lua atrás, e:



Ahhhhh! Lá estava ela, exatamente ali!



Onde sempre tinha estado.

No lugar que lhe era reservado,

Onde estava eu também.



Olhamo-nos;

Com um olhar triste; influenciado

Por restos de terra suja

Que ainda não se tinham descolado.



                                                             Quase não aguentei;

                               Contrariei

                              A vontade de fugir;

                                                               ­                                                                 ­      
                                                                ­      E sorri-lhe…



Já fui um ser não tão humano,

Que até para amar estava cansado!

Preso por correntes de ilusões;

Ego;

Egoísmo;

E muito mais do que considero errado.



Como tudo na História

Isso pertence apenas ao passado.



Ah! Musa criativa…

A única que me inspira à escrita!

Ela, melhor que ninguém, o deveria saber;

Que me tornei um ninguém melhor,

Só por a conhecer.



Fiquei mais ardida

Que a Roma Antiga!

Quando aquela louca,

Tal musa criativa,

Me pegou na mão

E fez-me a vida colorida.



(Despertou-me fogo no coração!)



Alastrem-se cores de cinza!

Espalhem-se! Que os vamos fazer ver:

Mesmos os templos em ruína

São possíveis de reerguer.
giovanna Aug 2022
“isso só ta’ acontecendo
porque eu tive você”

ela me disse, de forma fria
naquela noite, chorei sem urgia

eu só não consigo entender,
quando estive pronta para desaparecer

ela chorava suplicando
para que eu tentasse permanecer
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Lo he visto en el frío
de la tierra en sombra,
al ponerse el sol.
Blanco, leve y rosa.

Con la fina fuerza
de su vida pronta
cruzaba las noches,
de aurora en aurora.

Salía más bello
por la inmensa boca,
la bóveda negra,
leve, blanco y rosa.
Esta reliquia exhala perfume de elegía,
Porque la reina Estuardo, de labio purpurino,
Que a Ronsard recitaba y el misal, un divino
Hálito aquí ha dejado de magia y poesía.

La hermosa reina rubia, con frágil energía,
Firmó María abajo del viejo pergamino.
Aquí posó la mano, lirio adorado y fino,
Que azulaba una sangre fiera y pronta a la orgía.

Fijáronse aquí dedos de mujer, impregnados
En olor de cabellos, por ella acariciados
En el real orgullo de un sangriento adulterio.

y aspiro la fragancia, y veo los rosados
Tintes de aquellos dedos, hoy mudos, y trocados
Quizá en pálidas flores de triste cementerio.
Ì faccio 'o schiattamuorto 'e prufessione,
modestamente songo conosciuto
pè tutt'e ccase 'e dinto a stu rione,
peccheè quann'io manèo 'nu tavuto,
songo 'nu specialista 'e qualità.

Ì tengo mode, garbo e gentilezza.
'O muorto nmano a me pò stà sicuro,
ca nun ave 'nu sgarbo, 'na schifezza.
Io 'o tratto comme fosse 'nu criaturo
che dice 'o pate, mme voglio jì a cuccà.

E 'o co'cco luongo, stiso 'int"o spurtone,
oure si è viecchio pare n'angiulillo.
'O muorto nun ha età, è 'nu guaglione
ca s'è addurmuto placido e tranquillo
'nu suonno doce pè ll'eternità.

E 'o suonno eterno tene stu vantaggio,
ca si t'adduorme nun te scite maie.
Capisco, pè murì 'nce vò 'o curaggio;
ma quanno chella vene tu che ffaie?
Nn'a manne n'ata vota all'al di là?

Chella nun fa 'o viaggio inutilmente.
Chella nun se ne va maie avvacante.
Sì povero, sì ricco, sì putente,
'nfaccia a sti ccose chella fa a gnurante,
comme a 'nu sbirro che t'adda arrestà.

E si t'arresta nun ce stanno sante,
nun ce stanno raggione 'a fà presente;
te ll'aggio ditto, chella fa 'a gnurante...
'A chesta recchia, dice, io nun ce sento;
e si nun sente, tu ch'allucche a ffà?

'A morta, 'e vvote, 'e comme ll'amnistia
che libbera pè sempe 'a tutt'e guaie
a quaccheduno ca, parola mia,
'ncoppa a sta terra nun ha avuto maie
'nu poco 'e pace... 'na tranquillità.

E quante n'aggio visto 'e cose brutte:
'nu muorto ancora vivo dinto 'o lietto,
'na mugliera ca già teneva 'o llutto
appriparato dinto a nù cassetto,
aspettanno 'o mumento 'e s'o 'ngignà.

C'è quacche ricco ca rimane scritto:
" Io voglio un funerale 'e primma classe! ".
E 'ncapo a isso penza 'e fà 'o deritto:
" Così non mi confondo con la ***** ".
Ma 'o ssape, o no, ca 'e llire 'lasse ccà?!

'A morta è una, 'e mezze songhe tante
ca tene sempe pronta sta signora.
Però, 'a cchiù trista è " la morte ambulante "
che può truvà p'a strada a qualunq'ora
(comme se dice?... ) pè fatalità.

Ormai per me il trapasso è 'na pazziella;
è 'nu passaggio dal sonoro al muto.
E quanno s'è stutata 'a lampella
significa ca ll'opera è fernuta
e 'o primm'attore s'è ghiuto a cuccà.
Ì faccio 'o schiattamuorto 'e prufessione,
modestamente songo conosciuto
pè tutt'e ccase 'e dinto a stu rione,
peccheè quann'io manèo 'nu tavuto,
songo 'nu specialista 'e qualità.

Ì tengo mode, garbo e gentilezza.
'O muorto nmano a me pò stà sicuro,
ca nun ave 'nu sgarbo, 'na schifezza.
Io 'o tratto comme fosse 'nu criaturo
che dice 'o pate, mme voglio jì a cuccà.

E 'o co'cco luongo, stiso 'int"o spurtone,
oure si è viecchio pare n'angiulillo.
'O muorto nun ha età, è 'nu guaglione
ca s'è addurmuto placido e tranquillo
'nu suonno doce pè ll'eternità.

E 'o suonno eterno tene stu vantaggio,
ca si t'adduorme nun te scite maie.
Capisco, pè murì 'nce vò 'o curaggio;
ma quanno chella vene tu che ffaie?
Nn'a manne n'ata vota all'al di là?

Chella nun fa 'o viaggio inutilmente.
Chella nun se ne va maie avvacante.
Sì povero, sì ricco, sì putente,
'nfaccia a sti ccose chella fa a gnurante,
comme a 'nu sbirro che t'adda arrestà.

E si t'arresta nun ce stanno sante,
nun ce stanno raggione 'a fà presente;
te ll'aggio ditto, chella fa 'a gnurante...
'A chesta recchia, dice, io nun ce sento;
e si nun sente, tu ch'allucche a ffà?

'A morta, 'e vvote, 'e comme ll'amnistia
che libbera pè sempe 'a tutt'e guaie
a quaccheduno ca, parola mia,
'ncoppa a sta terra nun ha avuto maie
'nu poco 'e pace... 'na tranquillità.

E quante n'aggio visto 'e cose brutte:
'nu muorto ancora vivo dinto 'o lietto,
'na mugliera ca già teneva 'o llutto
appriparato dinto a nù cassetto,
aspettanno 'o mumento 'e s'o 'ngignà.

C'è quacche ricco ca rimane scritto:
" Io voglio un funerale 'e primma classe! ".
E 'ncapo a isso penza 'e fà 'o deritto:
" Così non mi confondo con la ***** ".
Ma 'o ssape, o no, ca 'e llire 'lasse ccà?!

'A morta è una, 'e mezze songhe tante
ca tene sempe pronta sta signora.
Però, 'a cchiù trista è " la morte ambulante "
che può truvà p'a strada a qualunq'ora
(comme se dice?... ) pè fatalità.

Ormai per me il trapasso è 'na pazziella;
è 'nu passaggio dal sonoro al muto.
E quanno s'è stutata 'a lampella
significa ca ll'opera è fernuta
e 'o primm'attore s'è ghiuto a cuccà.

— The End —