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janessa ann Apr 2018
Banana.
Banana.
Banana.
Banana.
Banana.
Banana.
Banana.
Banana.
B­anana.
Banana.
Banana.
Banana.
Banana.
Banana.
Banana.
Orange.
Or­ange you glad I'm not a Banana?
Because everybody knows that the Banana is the ***** of the fruit world.

Spanish version:
Este poema es plátano.
Plátano.
Plátano.
Plátano.
Plátano.
Plátano.
Plátano.
Pl­átano.
Plátano.
Plátano.
Plátano.
Plátano.
Plátano.
Plátano.
Plát­ano.
Plátano.
Naranja.
Naranja, ¿estás contento de no ser un plátano?
Porque todos saben que el Plátano es el pene del mundo de la fruta
Hope this makes you laugh. cuz thats my goal in life.
tangshunzi Jun 2014
Ti ** mai detto che io sono un pollone completo per una storia d'amore ?Probabilmente capito che fuori già



.ma io amo sentire come fuori di tutte le persone del mondo .due persone è capitato di trovare l'altro - e quando finisce in un matrimonio bello come questo.mi rivolgo in poltiglia .Catturato da Heather Pipino Fotografia questa storia d'amore ha un finale molto felice.Vedere ancora di più qui .
Condividi questa splendida galleria ColorsSeasonsFallSettingsHotelStylesTraditional Elegance

Da Heather Pipino Fotografia. "Quattro anni fa non avrei maiè èe credevoè ñessere qui in piedi con una ragazza che camminava in un negozio di caffè che indossa un cappello Dodgers .ditutte le cose . abbiamo aspettato quasi due mesi prima che ci incontrassimo a vicenda . Dopo che tutti i testi .e-mail e telefonate abbiamo tenuto il nostro respiro e ha preso un salto .e abbiamo imparato nella vita.che tutto ciò che serve è venti secondi di coraggio folle afare qualcosa di grande accadere. "

Quelle parole erano solo una porzione di dolce voti Sam 'a Lindsey .ma danno una buona sbirciatina per i bellissimi cuori e amore stimolante che Sam e condividere Lindsey .Sono entrambi persone così gentili e genuini e la loro vita e l'amore riflettere sul fatto che in ogni modo.E 'doesnè èimporta quanto tempo siè èe li noti .Sam e abiti da sposa corti Lindsey sono il tipo di persone che ti accolgono con un caloroso abbraccio e lascerà piena di gioia .Essi vi invitano nel loro mondo e ti fanno abiti da sposa on line sentire come seè èe stati amici per anni .E ' questo amore che essi hanno per l'altro e per le persone intorno a loro che hanno fatto il loro giorno di nozze così incredibile .In una bella giornata in California.presso la Estancia Resort a La Jolla .amici e parenti si sono riuniti per sostenere e amare questa coppia che aveva toccato ciascuna delle loro vite .E 'stata una giornata piena di lacrime di gioia .il romanticismo .l'amore e la bellezza .e Sam e Lindsey meritato ogni singolo istante.

Da Bride.How ci siamo incontrati : Le nostre mamme lavorano insieme in una scuola nella Bay Area .Una volta che la sua mamma ha imparato che vivevo a San Diego .ha pensato che sarebbe stata una buona idea per me di mostrare il suo figlio in giro come gli era stato appena assunto lì .Lei e mi aveva viaggiato a Parigi circa sette anni fa con mia mamma e un altro insegnante .Mi ricordo che lei mi dice allora che avevo bisogno di incontrare suo figlio ma eravamo entrambi risalenti altre persone al momento .Ero titubante a incontrarlo fino a quando ** fatto un po ' di Facebook stalking.voglio dire .la ricerca .Mi fu colpito in primo click.The prima richiesta di amicizia è stata inviata e tanti.tanti .( molti) messaggi e fino a tarda notte dopo.i messaggi si rivolse a testi e testi voltai per le telefonate .Questo è durato per un certo periodo come i sentimenti si erano formate veloce e siamo stati nervosi e ansiosi di incontrarsi other.Finally un incontro è stato fissato al Coffee Bean a Carlsbad .Eravamo lì per quattro ore e quasi chiudiamo il posto in fondo .Il giorno dopo.unè edata irstèè stata impostata e il resto è storia !

Il nostro matrimonio ha avuto luogo a La Jolla .in California presso l' Estancia Hotel.Abbiamo scelto questa posizione perché è rilassato eleganza .giardini mozzafiato .ed è vicino a dove viviamo .Perché ci siamo incontrati e viviamo qui a San Diego e volevamo festeggiare il nostro amore qui .La maggior parte dei nostri ospiti di nozze erano da fuori città .abbiamo voluto l' atmosfera di essere caldo.accogliente.e una volta tutti vorremmo amare .

I colori erano nero.bianco e verde e il tema era classica .semplice eleganza.Volevamo la sede per parlare di se stesso in modo non volevo fiori eccessivamente fatto .ma felci semplicemente dichiarati e fiori bianchi .Isari Floral Studio ha fatto un lavoro incredibile catturare la nostra visione .

Volevamo il matrimonio per avere tocchi di tutti noi in tutto.Abbiamo parcheggiato la nostra hot rod (1932 Ford Roadster ) nel modo di entrata dell'hotel.Mio padre aveva una splendida "Just Married " segno gessato per noi.così abbiamo potuto avere un scappare con stile !Il nostro cane (leggi : nostro figlio ) . Non poteva essere sulla proprietà .purtroppo .così abbiamo avuto una foto incorniciata di lui fatta con un cartello appeso al collo che diceva : " Sono contento che tu sia qui a festeggiare con i miei genitori prega di godere il cagnolinoborse da me . Woof .Lux " .Su quel tavolo .avevamo sacchetti di biscotti monogramma di Michele Coulon Dessertier .Per il nostro libro degli ospiti .abbiamo lavorato con un graphic designer per fare quello di un manifesto sorta di nostra sede .Ora abbiamo questa grande opera d'arte.con parole gentili di tutti appendere in casa nostra .Sulle pareti della Sala Grande .avevo il nostro invito fatto saltare in aria e sparsi sui muri nelle loro cornici .Tutti questi tocchi davvero reso il giorno così memorabile .

nostro incredibile team di venditori e la nostra famiglia e gli amici sono ciò che veramente ha reso questa giornata il giorno più speciale della nostra vita finora.Siamo così fortunati ad aver avuto un bel matrimonio tale .Sono entusiasta di essere sposata con Sam per il resto della nostra vita !Fotografia

: Heather Pepin Fotografia | dell'artista: Aqua Vivus Productions | Event Design : Sherry Glommen | Pianificazione : Swann Soirees | Floral Design : Isari Flower Studio | Floral Design : Isari Flower Studio | Cake : la zia della sposa | Inviti : Smitten Onpaper | Cerimonia Luogo : Estancia La Jolla | Banco Luogo : Estancia La abiti da sposa on line Jolla | Bridesmaids Dresses : Nordstrom | capelli: Jessica / Michelle - Koda Salon | Calligraphy : Brown Fox Calligrafia | Abbigliamento da Groomsmen : Nero risvolto | officiante : Cerimonie Per Bethel | pipistrelli pergroomsmen : Louisville Slugger | vestito nuziale : Tara Keely | sposa / damigella d'onore Abiti : Abbastanza Plum zucchero | Cookies : Michele Coulon Dessertier | Guest Book Graphic Designer : Designs J Gal | Musica live / DJ : Collin Elliot -Ancora Ascolto Productions | Trucco : FioreBeauty | Photobooth : Photobooth mobileHayley Paige e Jim Hjelm occasioni sono membri della nostra Look Book .Per ulteriori informazioni su come vengono scelti i membri .fare clic qui .Fiore Bellezza .Isari Fiore Studio + Design Event .Plum Piuttosto Zucchero.JLM Couture .Inc. e Mobile Photo Booth sono membri del nostro Little Black Book .Scopri come i membri sono scelti visitando la nostra pagina delle FAQ .Fiore di bellezza VIEW PORTFOLIO Isari Fiore Studio vedi portfolio Plum graziosa Zucchero vedi portfolio JLM Couture Wedding Gown Bouti ... vedi portfolio Mobile Photo Booth VIEW
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Elegante Wedding at Estancia La Jolla_abiti da sposa 2014
En torno de una mesa de cantina,
una noche de invierno,
regocijadamente departían
seis alegres bohemios.Los ecos de sus risas escapaban
y de aquel barrio quieto
iban a interrumpir el imponente
y profundo silencio.El humo de olorosos cigarrillos
en espirales se elevaba al cielo,
simbolizando al resolverse en nada,
la vida de los sueños.Pero en todos los labios había risas,
inspiración en todos los cerebros,
y, repartidas en la mesa, copas
pletóricas de ron, whisky o ajenjo.Era curioso ver aquel conjunto,
aquel grupo bohemio,
del que brotaba la palabra chusca,
la que vierte veneno,
lo mismo que, melosa y delicada,
la música de un verso.A cada nueva libación, las penas
hallábanse más lejos del grupo,
y nueva inspiración llegaba
a todos los cerebros,
con el idilio roto que venía
en alas del recuerdo.Olvidaba decir que aquella noche,
aquel grupo bohemio
celebraba entre risas, libaciones,
chascarrillos y versos,
la agonía de un año que amarguras
dejó en todos los pechos,
y la llegada, consecuencia lógica,
del "Feliz Año Nuevo"...Una voz varonil dijo de pronto:
-Las doce, compañeros;
Digamos el "requiéscat" por el año
que ha pasado a formar entre los muertos.
¡Brindemos por el año que comienza!
Porque nos traiga ensueños;
porque no sea su equipaje un cúmulo
de amargos desconsuelos...-Brindo, dijo otra voz, por la esperanza
que a la vida nos lanza,
de vencer los rigores del destino,
por la esperanza, nuestra dulce amiga,
que las penas mitiga
y convierte en vergel nuestro camino.Brindo porque ya hubiese a mi existencia
puesto fin con violencia
esgrimiendo en mi frente mi venganza;
si en mi cielo de tul limpio y divino
no alumbrara mi sino
una pálida estrella: Mi esperanza.-¡Bravo! Dijeron todos, inspirado
esta noche has estado
y hablaste bueno, breve y sustancioso.
El turno es de Raúl; alce su copa
Y brinde por... Europa,
Ya que su extranjerismo es delicioso...-Bebo y brindo, clamó el interpelado;
brindo por mi pasado,
que fue de luz, de amor y de alegría,
y en el que hubo mujeres seductoras
y frentes soñadoras
que se juntaron con la frente mía...Brindo por el ayer que en la amargura
que hoy cubre de negrura
mi corazón, esparce sus consuelos
trayendo hasta mi mente las dulzuras
de goces, de ternuras,
de dichas, de deliquios, de desvelos.-Yo brindo, dijo Juan, porque en mi mente
brote un torrente
de inspiración divina y seductora,
porque vibre en las cuerdas de mi lira
el verso que suspira,
que sonríe, que canta y que enamora.Brindo porque mis versos cual saetas
Lleguen hasta las grietas
Formadas de metal y de granito
Del corazón de la mujer ingrata
Que a desdenes me mata...
¡pero que tiene un cuerpo muy bonito!Porque a su corazón llegue mi canto,
porque enjuguen mi llanto
sus manos que me causan embelesos;
porque con creces mi pasión me pague...
¡vamos!, porque me embriague
con el divino néctar de sus besos.Siguió la tempestad de frases vanas,
de aquellas tan humanas
que hallan en todas partes acomodo,
y en cada frase de entusiasmo ardiente,
hubo ovación creciente,
y libaciones y reír y todo.Se brindó por la Patria, por las flores,
por los castos amores
que hacen un valladar de una ventana,
y por esas pasiones voluptuosas
que el fango del placer llena de rosas
y hacen de la mujer la cortesana.Sólo faltaba un brindis, el de Arturo.
El del bohemio puro,
De noble corazón y gran cabeza;
Aquél que sin ambages declaraba
Que solo ambicionaba
Robarle inspiración a la tristeza.Por todos estrechado, alzó la copa
Frente a la alegre tropa
Desbordante de risas y de contento;
Los inundó en la luz de una mirada,
Sacudió su melena alborotada
Y dijo así, con inspirado acento:-Brindo por la mujer, mas no por ésa
en la que halláis consuelo en la tristeza,
rescoldo del placer ¡desventurados!;
no por esa que os brinda sus hechizos
cuando besáis sus rizos
artificiosamente perfumados.Yo no brindo por ella, compañeros,
siento por esta vez no complaceros.
Brindo por la mujer, pero por una,
por la que me brindó sus embelesos
y me envolvió en sus besos:
por la mujer que me arrulló en la cuna.Por la mujer que me enseño de niño
lo que vale el cariño
exquisito, profundo y verdadero;
por la mujer que me arrulló en sus brazos
y que me dio en pedazos,
uno por uno, el corazón entero.¡Por mi Madre! Bohemios, por la anciana
que piensa en el mañana
como en algo muy dulce y muy deseado,
porque sueña tal vez, que mi destino
me señala el camino
por el que volveré pronto a su lado.Por la anciana adorada y bendecida,
por la que con su sangre me dio vida,
y ternura y cariño;
por la que fue la luz del alma mía,
y lloró de alegría,
sintiendo mi cabeza en su corpiño.Por esa brindo yo, dejad que llore,
que en lágrimas desflore
esta pena letal que me asesina;
dejad que brinde por mi madre ausente,
por la que llora y siente
que mi ausencia es un fuego que calcina.Por la anciana infeliz que sufre y llora
y que del cielo implora
que vuelva yo muy pronto a estar con ella;
por mi Madre, bohemios, que es dulzura
vertida en mi amargura
y en esta noche de mi vida, estrella...El bohemio calló; ningún acento
profanó el sentimiento
nacido del dolor y la ternura,
y pareció que sobre aquel ambiente
flotaba inmensamente
un poema de amor y de amargura.
Cantar a ese gigante soberano
Que al soplo de su espíritu fecundo
Hizo triunfar el pensamiento humano,
Arrebatando al mar un nuevo mundo;
Cantar al que fue sabio entre los sabios,
Cantar al débil que humilló a los grandes,
Nunca osarán mi lira ni mis labios.
Forman su eterno pedestal los Andes,
El Popocatepelt su fe retrata,
Las pampas son sus lechos de coronas,
Su majestad refleja el Amazonas,
Y un himno a su poder tributa el Plata.

No es la voz débil que al vibrar expira,
La digna de su nombre; ¿puede tanto
La palabra fugaz?... ¿Quién no lo admira?
La mar, la inmensa mar, ésa es su lira,
Su Homero el sol, la tempestad su canto.

Cuando cual buzo audaz, mi pensamiento
Penetra del pasado en las edades,
Y mira bajo el ancho firmamento
De América las vastas soledades:
El inca dando al sol culto ferviente,
El araucano indómito y bravío,
El azteca tenaz que afirma el trono,
Adunando al saber el poderío:
¡A cuántas reflexiones me abandono!...
Todas esas sabanas calentadas
Por la luz tropical, llenas de flores,
Con sus selvas incultas, y sus bosques
Llenos de majestad; con sus paisajes
Cerrados por azules horizontes,
Sus montes de granito,
Sus volcanes de nieve coronados,
Semejando diamantes engarzados
En el esmalte azul del infinito;

Las llanuras soberbias e imponentes,
Que puebla todavía
En la noche sombría
El eco atronador de los torrentes;
Los hondos ventisqueros,
Las cordilleras siempre amenazantes,
Y al aire sacudiéndose arrogantes,
Abanicos del bosque, los palmeros;
No miro con mi ardiente fantasía
Sólo una tierra virgen que podría
Ser aquel legendario paraíso
Que sólo Adán para vivir tenía;
Miro las nuevas fecundantes venas
De un mundo a las grandezas destinado,
Con su Esparta y su Atenas,
Tan grande y tan feliz como ignorado.
Para poder cantarlo, busca el verso
Una lira con cuerdas de diamante,
Por único escenario el Universo,
Voz de huracán y aliento de gigante.

Que destrence la aurora
Sus guedejas de rayos en la altura:
Que los tumbos del mar con voz sonora
Pueblen con ecos dulces la espesura:
Que las aves del trópico, teñidas
Sus alas en el iris, su contento
Den con esas cadencias tan sentidas
Que van de selva en selva repetidas
Sobre las arpas que columpia el viento.
Venid conmigo a descorrer osados
El velo de los siglos ya pasados.

Tuvo don Juan Segundo
En Isabel de Portugal, la bella,
Un ángel, que más tarde fue la estrella
Que guió a Colón a descubrir un mundo.
El claro albor de su niñez tranquila
Se apagó en la tristeza y en el llanto.
En el triste y oscuro monasterio
Donde, envuelta en el luto y el misterio,
Fue Blanca de Borbón a llorar tanto.
Allí Isabel fortaleció su mente,
Y aquel claustro de Arévalo imponente
Fe le dio para entrar al mundo humano,
Dio vigor a su espíritu intranquilo,
Fue su primer asilo soberano,
Cual la Rábida fue primer asilo
Del Vidente del mundo americano.
Muerto Alfonso, su hermano,
En el convento de Ávila se encierra,
Y hasta allí van los grandes de la tierra,
Llenos de amor, a disputar su mano.
Ella da el triunfo de su amor primero
A su igual en grandeza y en familia,
Al que, rey de Sicilia,
Es de Aragón el príncipe heredero.
A tan gentil pareja
Con ensañado afán persigue y veja
De Enrique Cuarto la orgullosa corte;
Pero palpita el alma castellana
Que de Isabel en la gentil persona,
Más que la majestad de la corona,
Ve la virtud excelsa y soberana.
La España en Guadalete decaída,
Y luego en Covadonga renacida,
No vuelve a unirse, ni por grande impera,
Hasta que ocupa, sin rencor ni encono,
De Berenguela y Jaime el áureo trono,
El genio augusto de Isabel Primera.
Grande en su sencillez, es cual la aurora
Que al asomarse, todo lo ilumina;
Humilde en su piedad, cual peregrina
Va al templo en cada triunfo, y reza, y llora;
Nada a su gran espíritu le agobia:
Desbarata en Segovia
La infiel conjuración: libra a Toledo,
Fija de las costumbres la pureza,
El crimen blasonando en la nobleza
Castiga, vindicando al pueblo ibero:
Por todos con el alma bendecida,
Por todos con el alma idolatrada,
Rinde y toma vencida,
Edén de amores, la imperial Granada.
Dejadme que venere
A esa noble mujer... Llegóse un dia
En que un errante loco le pedía,
Ya por todos los reyes desdeñado,
Buscar un hemisferio, que veía
Allá en sus sueños por el mar velado.
No intento escudriñar el pensamiento
Del visionario que a Isabel se humilla.
¿La América es la Antilla
En que soñó Aristóteles? ¿La
Atlántida
Que Platón imagina en su deseo,
Y menciona en su diálogo el Timeo?
¿Escandinavos son los navegantes
Que cinco siglos antes
De que el insigne genovés naciera,
Fijo en Islandia su anhelar profundo,
Al piélago se arrojan animados,
Y son por ruda tempestad lanzados
A la región boreal del Nuevo Mundo?...
¡Yo no lo sé! Se ofusca la memoria
Entre la noche de la edad pasada;
Sólo hay tras esa noche una alborada:
Isabel y Colón: ¡la Fe y la Gloria!
¡Cuántos hondos martirios, cuántas penas
Sufrió Colón! ¡El dolo y la perfidia
Le siguen por doquier! ¡La negra envidia
Al vencedor del mar puso cadenas!
Maldice a Bobadilla y a Espinosa
La humanidad que amamantarlos plugo...
¡El hondo mar con voz estrepitosa
Aun grita maldición para el verdugo!
El mundo descubierto,
A hierro y viva sangre conquistado,
¿Fue solamente un lóbrego desierto?
¿Vive? ¿palpita? ¿crece? ¿ha progresado?
¡Ah sí! Tended la vista... Cien naciones,
Grandes en su riqueza y poderío,
Responden con sonoras pulsaciones
Al eco tosco del acento mío.
El suelo que Cortés airado y fiero,
Holló con planta osada,
Templando lo terrible de su espada
La dulzura y bondad del misionero,
Cual tuvo en Cuauhtemoc, que al mundo asombra
Tuvo después cien héroes: un Hidalgo,
Cuya palabra sempiterna vibra;
Un Morelos, en genio esplendoroso;
¡Un Juárez, el coloso
Que de la Europa y su invasión lo libra!
Bolívar, en Santa Ana y Carabobo,
Y en Ayacucho Sucre, son dos grandes,
Son dos soles de América en la historia,
Que tienen hoy por pedestal de gloria
Las cumbres gigantescas de los Andes.
¡Junín! el solo nombre
De esta epopeya mágica engrandece
El lauro inmarcesible de aquel hombre,
Que un semidiós al combatir parece.
Sucre, Silva, Salom, Córdoba y Flores,
Colombia, Lima, Chile, Venezuela,
En el Olimpo para todos vuela
La eterna fama, y con amor profundo
La ciñe eterna y fúlgida aureola:
¡Gigantes de la América española,
Hoy tenéis por altar al Nuevo Mundo!
Ningún rencor nuestro cariño entraña:
Del Chimborazo, cuya frente baña
El astro que a Colombia vivifica,
A la montaña estrella,
Que frente al mar omnipotente brilla,
Resuena dulce, sonorosa y bella
El habla de Castilla:
Heredamos su arrojo, su fe pura,
Su nobleza bravía.

¡Oh, España! juzgo mengua
Lanzarte insultos con tu propia lengua;
Que no cabe insultar a la hidalguía.
En nombre de Isabel, justa y piadosa,
En nombre de Colón, ningún agravio
Para manchar tu historia esplendorosa
Verás brotar de nuestro humilde labio.
¡A Colón, a Isabel el lauro eterno!
Abra el Olimpo su dorada puerta,
Y ofrezca un trono a su sin par grandeza:
Resuene en nuestros bosques el arrullo
Del aura errante entre doradas pomas:
Las flores en capullo
Denles por grato incienso sus aromas:
El volcán, pebetero soberano,
Arda incesante en blancas aureolas,
Y un himno cadencioso el mar indiano
Murmure eterno con sus verdes olas...
El universo en coro
Con arpas de cristal, con liras de oro,
Al ver a los latinos congregados,
Ensalce ante los pueblos florecientes
Por la América misma libertados,
Aquellos genios, soles esplendentes
De Colón e Isabel, y con profundo
Respeto santo y con amor bendito,
Libre, sereno, eterno, sin segundo,
Resuene sobre el Cosmos este grito:
¡Gloria al descubridor del Nuevo Mundo!
¡Gloria a Isabel, por quien miró cumplida
Su gigantesca empresa soberana!
¡Gloria, en fin, a la tierra prometida,
La libre y virgen tierra americana!
Hoy he visto un seto cubierto de rosas
Y he vuelto a mi casa loca de alegría.
¡Hoy he visto un seto cubierto de rosas!
¡Qué impresión de fiesta de amor, alma mía

He vuelto a mi casa llena de contento
Como cuando vemos de nuevo al amante,
Por quién suspiramos a cada momento
Y que hace ya mucho se hallaba distante.

Yo que amo las selvas, los campos, los prados,
Los largos caminos verdes y encantados,
El amor sin trabas en la paz campestre,

Sueño ya con dulces fiestas amorosas,
Ante este temprano florecer de rosas
Sobre la negrura de un cerco silvestre.
Cuando fue el bravo Guerrero
Presidente, yo era un chico
Y en aquel tiempo a Tampico
Llegó un general ibero.
¿Barradas?
...Justo; esto es;
Barradas precisamente
Queriendo, audaz y valiente,
Ser un nuevo Hernán Cortés.
Entonces, sólo al decir
Que extraña tropa llegaba
El Gobierno ya miraba
Enlutado el porvenir.
Y por prudencia o temor
Cesaban goces y fiestas,
Haciéndole mil protestas
A cualquier embajador.
Barradas, bravo y experto,
Vencer a Méjico anhela
Y entra altivo a toda vela,
Como virrey frente al puerto.
Santa-Anna, a la patria fiel,
Tan audaz como animoso
Derrotó al jefe ambicioso
Ganando eterno laurel.
Fue una derrota ejemplar
Que no olvidará la Historia
Pues allí alcanzó la gloria
De hacerlo capitular.
En Méjico ¡Qué ansiedad
Por saber el resultado!
Estaba en completo estado
De agitación la ciudad.
Una noche, a ver un drama
Guerrero fue al Coliseo,
Un teatro tosco y feo
Que «Principal» se le llama.
Llegado el acto tercero,
Ve con asombro la gente
Que al palco del Presidente,
Entra, con traje de cuero,
Un hombre y le da un papel;
Guerrero al leerlo llora;
Y el público en esa hora,
Enternecido como él,
Presiente lo que le avisa
Al Presidente el pliego
Y queda mudo, en sosiego,
Entre lágrimas y risa.
Cuando acabó de leer
Guerrero, se levantó
De su asiento y así habló
Sin poderse contener:
«Si con frases no me explico,
El llanto lo hará por mí...
¡Me comunican aquí
La victoria de Tampico...!
Vencido está el jefe ibero,
Santa-Anna lo derrotó...»
Y un gran grito resonó:
«¡Vivan Santa-Anna y Guerrero!»
Guerrero con alegría,
Dijo enseñando leal
La faja de general
Que en la cintura tenía:
«Mando al brigadier Santa-Anna,
Esta faja, no os asombre,
Para que la porte en nombre
De la Nación Mejicana».
Volvió el público a gritar
Nuevos vivas y a aplaudir,
En unos era el reír,
En otros era el llorar
Y no hay mármoles ni bronces,
Ni existen tinta y color,
Que puedan pintar, señor,
El patriotismo de entonces.
Tu buena memoria pasma
A cualquiera, mi sargento,
Tu relato da contento,
Enardece y entusiasma.
Cuando el teatro dejaron
Todos con gran ansiedad,
¿Sabéis lo que en la ciudad
Con asombro contemplaron?
Adornadas con festones
Todas las casas vecinas,
Con faroles y cortinas
En cornisas y balcones;
Sobre las torres bermejas
De los vetustos conventos,
Gallardetes, ornamentos,
Guirnaldas y candilejas.
Las calles... ¡que animación!
Las gentes si se encontraban,
Entusiastas se abrazaban
Con lágrimas de emoción.
No se escuchaba un reproche,
Todo era franco y sincero,
Que estaba Méjico entero
De triunfo en aquella noche.
¡Y todos los mejicanos
Que un mismo placer sentían,
Entonces sí se querían
Como si fuesen hermanos...!
Me enternezco cuando pienso
En esto, porque señor,
No he visto un modo mejor
De dar a un bravo un ascenso,
Ni un modo más natural,
Más franco y más elocuente
De expresar públicamente
El contento nacional.
Glorias del pasado son,
¡Mas para un viejo soldado,
Esas glorias del pasado
Dan vida a su corazón...!
Victor Marques Aug 2010
Quando te conheci…

Quando te conheci na noite solidária com o vento,
Perdi-me no teu calor, no teu encanto.
Quando te conheci teu cheiro me apaixonava,
Deixava-me ao teu abandono e mais nada.



Quando te conheci, não entendi mas senti,
Aumentar o amor e a saudade,
O destino não tem amor nem sentido,
Tem a fragrância do desconhecido.


Te recordo com primazia,
Alegria que em mim se sentia,
Te conhecer sem apelo nem agravo,
Me contento com o futuro e o passado.

Victor Marques
Diego Scarca Mar 2010
Quando la sera scende
sulle nostre spalle come un manto
che non avremmo voluto portare,
non chiedermi di cercarti,
non chiedermi d'amare.

Quando la sera ci inietta nelle vene
la droga che ci fa tremare,
come una carezza perduta,
l'amore che avremmo dovuto amare,
lasciami vagabondare
per le vie in salita,
lasciami sbattere la testa
contro un muro,
lasciami insicuro, ubriaco,
contento di sbagliare.

Quando la sera scende
sulle nostre spalle in un minuto
nel quale non ci saremmo voluti tuffare,
non chiedermi di tornare.
Lascia che come volute di fumo,
come esalazioni nerastre,
le tenebre mi avviluppino
e mi s'offuschi la vista.

Che come un cane fiuti
la mia pista e con la morte
giochi a scacchi la mia partita.
Che un tossicomane m'abbagli,
che una prostituta o un pederasta
m'accostino, che una donna
che credevo morta
mi chieda aiuto dall'oltretomba,
da un'altra vita.

Quando la sera scende sui nostri sbagli
come dita che sentiamo chiudersi
in una stretta, come il viaggio
che non avremmo voluto fare,
come le cose a cui abbiam dovuto
rinunciare troppo in fretta,
come tutte le altre sere,
come ogni sera,
la stessa fitta, la stessa febbre,
un'euforia smarrita...

Quando la sera come un manto
scende sulla nostra vita,
lascia che questo manto
io non lo sopporti,
lascia che cerchi
di scrollarmelo di dosso,
lascia che a più non posso
io mi metta a gridare.
Diego Scarca, Architetture del vuoto, Torino, Edizioni Angolo Manzoni, 2007
Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
Silenziosa luna?
Sorgi la sera, e vai,
Contemplando i deserti; indi ti posi.
Ancor non sei tu paga
Di riandare i sempiterni calli?
Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga
Di mirar queste valli?
Somiglia alla tua vita
La vita del pastore.
Sorge in sul primo albore;
Move la greggia oltre pel campo, e vede
Greggi, fontane ed erbe;
Poi stanco si riposa in su la sera:
Altro mai non ispera.
Dimmi, o luna: a che vale
Al pastor la sua vita,
La vostra vita a voi? Dimmi: ove tende
Questo vagar mio breve,
Il tuo corso immortale?
Vecchierel bianco, infermo,
Mezzo vestito e scalzo,
Con gravissimo fascio in su le spalle,
Per montagna e per valle,
Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,
Al vento, alla tempesta, e quando avvampa
L'ora, e quando poi gela,
Corre via, corre, anela,
Varca torrenti e stagni,
Cade, risorge, e più e più s'affretta,
Senza posa o ristoro,
Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva
Colà dove la via
E dove il tanto affaticar fu volto:
Abisso orrido, immenso,
Ov'ei precipitando, il tutto obblia.
Vergine luna, tale
È la vita mortale.
Nasce l'uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell'esser nato.
Poi che crescendo viene,
L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell'umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura
Perché da noi si dura?
Intatta luna, tale
È lo stato mortale.
Ma tu mortal non sei,
E forse del mio dir poco ti cale.
Pur tu, solinga, eterna peregrina,
Che sì pensosa sei, tu forse intendi,
Questo viver terreno,
Il patir nostro, il sospirar, che sia;
Che sia questo morir, questo supremo
Scolorar del sembiante,
E perir dalla terra, e venir meno
Ad ogni usata, amante compagnia.
E tu certo comprendi
Il perché delle cose, e vedi il frutto
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci
Il verno cò suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
Spesso quand'io ti miro
Star così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina;
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in cielo arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dir questa
Solitudine immensa? Ed io che sono?
Così meco ragiono: e della stanza
Smisurata e superba,
E dell'innumerabile famiglia;
Poi di tanto adoprar, di tanti moti
D'ogni celeste, ogni terrena cosa,
Girando senza posa,
Per tornar sempre là donde son mosse;
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so. Ma tu per certo,
Giovinetta immortal, conosci il tutto.
Questo io conosco e sento,
Che degli eterni giri,
Che dell'esser mio frale,
Qualche bene o contento
Avrà fors'altri; a me la vita è male.
O greggia mia che posi, oh te beata,
Che la miseria tua, credo, non sai!
Quanta invidia ti porto!
Non sol perché d'affanno
Quasi libera vai;
Ch'ogni stento, ogni danno,
Ogni estremo timor subito scordi;
Ma più perché giammai tedio non provi.
Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,
Tu sè queta e contenta;
E gran parte dell'anno
Senza noia consumi in quello stato.
Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,
E un fastidio m'ingombra
La mente, ed uno spron quasi mi punge
Sì che, sedendo, più che mai son lunge
Da trovar pace o loco.
E pur nulla non bramo,
E non ** fino a qui cagion di pianto.
Quel che tu goda o quanto,
Non so già dir; ma fortunata sei.
Ed io godo ancor poco,
O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.
Se tu parlar sapessi, io chiederei:
Dimmi: perché giacendo
A bell'agio, ozioso,
S'appaga ogni animale;
Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?
Forse s'avess'io l'ale
Da volar su le nubi,
E noverar le stelle ad una ad una,
O come il tuono errar di giogo in giogo,
Più felice sarei, dolce mia greggia,
Più felice sarei, candida luna.
O forse erra dal vero,
Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero:
Forse in qual forma, in quale
Stato che sia, dentro covile o cuna,
È funesto a chi nasce il dì natale.
Frente al mar, y en la puerta de su pobre morada,
La viuda del marino con su hijo está sentada.
Se ve tristeza en ambos. Los rudos temporales
De esos días de otoño causaron tantos males,
Tanto destrozo hicieron, fue tal del mar la saña,
Cual nunca visto había la costa de Bretaña.
Por eso ante el crepúsculo se encuentran abstraídos
Y silenciosos, y ambos de luto están vestidos.

En ese lago quieto, de aguas murmuradoras,
En donde se deslizan las barcas pescadoras,
Cuyas velas se extienden bajo el oro del día,
¡Quién, al ver esa calma, reconocer podría
Aquel mar tempestuoso, que sólo en un momento,
En el pasado otoño, con ímpetu violento
Destrozó veinte barcas, y que a esa pobre madre
Dejó  trocada en viuda y a ese niño sin padre!

El agua azul sonríe; sin nubes brilla el cielo;
Y ella sigue sombría, con hondo desconsuelo
Recordando la tarde trágica de su vida,
Cuando hundió en sus abismos la mar embravecida
A su esposo. «Mas suya fue la culpa», a su hijo,
Que seguía en silencio, sollozando le dijo.
«A desgraciados náufragos que el temporal hundía,
¿Cómo sin un socorro dejárseles podría?

¡Qué tarde horrible! ¡Nadie recordaba en la aldea
Haber visto en su vida semejante marea!
¡Era tentar al cielo y era jugar la suerte
Socorrer a los náufragos... era afrontar la muerte!
Tu padre con nosotros estaba. En la bahía,
Recién entrada al puerto su barca se veía».
-«Sin duda están malditos, decíame comiendo,
Los que en el mar aguantan ese chubasco horrendo».

Como era su costumbre, después de la comida
Saliose de la casa con su pipa encendida,
Y a pesar de la lluvia, varios iban al puerto,
A ver saltar las olas sobre el muelle desierto;
Cuando de pronto observa tu padre en lontananza
Que contra los peñascos un bergantín se lanza.
Aquello fue un instante. Lo empuja el mar, y choca,
Y roto allí en pedazos quedó contra la roca.

-«Un bote», grita al punto. Yo lo miré aterrada.
Y en tanto que los otros le muestran la oleada
Que viene sobre el puerto rugiendo amenazante,
Grita otra vez: - ¡Salvémoslos! !Un bote... ¡En el instante!
Un bote al mar! ¡Un bote!... ¡Cobardes no seamos!»
Y seguían sus gritos: -«A socorrerlos vamos!
¡Mi barca! ¡Arriba! ¡Es tiempo! Mi barca no ha temido
Jamás las tempestades ni el mar embravecido,
Y por eso Adelante la bauticé»...

                                             
Salieron
Todos al mar entonces... y ¡nunca más volvieron!...

De tarde, en este invierno, y al bajar la marea,
Hasta allá, donde ves la espuma que blanquea,
Ir me has visto abatida. Mas todo ha sido en vano...
Nada de entre sus olas devuelve el océano...
¡Y ese mar que a mis plantas expira en la ribera,
De la barca no arroja ni una tabla siquiera!

Hijo: me prometiste no ser, jamás marino:
Cumplirás tu promesa. Será otro tu destino.
El cura, que te quiere, te seguirá enseñando;
Aprenderás las letras, luego a escribir. Y cuando
Grande estés, serás cura. ¡Pasará el tiempo aprisa...
Veré el día dichoso de tu primera misa!...
Yo misma pondré flores en el altar... ¡Oh, cuánta
Será mi dicha, lejos de este mar que me espanta!

Calla el niño pensando sin duda en los chicuelos
Que ve sobre chalupas y ágiles barquichuelos,
En las azules aguas, desde que el día brilla,
Caminar en la borda, bajar a la escotilla,
Mientras que él no se atreve, ni nunca se ha atrevido,
Un cable a atar siquiera. Cumple lo prometido.
Y cuando terminada la lección de lectura,
El viejo silabario cierra de tarde el cura,
Y le dice que es hora de que a jugar se vaya,
Descalzo, arremangado, se aleja por la playa,
Y así engaña sus sueños el hijo del marino;
Pero entre los cabellos el áspero y salino
Viento sentir que sopla; sentir el agua fría
Que a la rodilla sube; ver en la lejanía
Las olas que se rompen bajo azulada bruma
Y que el peñasco cubre de iridiscente espuma;
Ir conchas o mariscos buscando por la costa,
O saltar, sobre piedras, detrás de una langosta,
Eso no le bastaba; quería más; quería
La barca que se aleja bajo el fulgor del día,
Con sus palos erectos y sus velas redondas;
Quería el horizonte, los tumbos de las ondas,
Y la embriaguez del alma sobre la mar rugiente,
Cuyos acres aromas hablaban a su mente
De países lejanos... ¡Tal era su delirio!
¡Y hacía muchos meses que ese era su martirio!

Y va pasando el tiempo. Llega otro otoño horrible;
Y un día los marinos, a la luz apacible
De un cielo gris, entre ellos hablando, hacia el poniente
Sobre el mar tempestuoso, señalan de repente
Un velero que avanza contra las rocas. Brava
Marejada envolvíalo... Más y más se encrespaba...

¡En las revueltas olas aquello parecía
El estertor postrero del barco en la agonía!

-«¡Un bote al mar! ¡Un bote!», dice alguien con voz ruda,
 ¡Al mar! ¡A socorrerlos! ¡A prestarles ayuda!»

Y todos recordaban a los que al mar salieron
A salvar a unos náufragos, y nunca más volvieron;
Mas de pronto a una barca se abalanzan, y en tanto,
Todo lo ve la madre con indecible espanto;
Y a su hijo abrazando le murmura al oído:
-«¿Sabes? Me lo ofreciste... lo tienes prometido,
¡No irás!...» Con las pupilas dilatadas, la frente
Pensativa,   y el labio mordiéndose impaciente,
Nada responde, y mira con absorta mirada
Que ya los hombres tienen la barca aparejada.
De repente, una ola gigantesca y sombría,
 Que avanza rugidora por la turbia bahía.
Se estrella con fracaso, toda la playa moja, fe...
Y a las plantas del niño, tabla podrida arroja.

En la tabla estas letras leíanse: Adelante.

De su abismo esa tabla sacaba el mar de Atlante.
¡Mandato de su padre sobre las olas era!
Listos los remadores sacan de la ribera
La barca. De los brazos maternos se desprende;
Detrás de los marinos veloz carrera emprende;
Salta al bote con ellos, y al punto un remo ensaya...
 ¡Y allá van con la ola que vuelve de la playa!

¡Cómo con la mirada todos los van siguiendo!
¡Virgen Santa! ¡Las olas cuan altas y qué estruendo!
¡Parece que se hunden! ¡Jesús! ¡Naufraga el bote!
¡Mas no!... ¡Las olas pasan y ellos están a flote!
¡Y siguen!... Van llegando... ¡Ya se les ve acercarse!
¡Ya era tiempo !... ¡ Ya el barco comenzaba a inclinarse

¡Ya vuelven! ¡Los pañuelos agitan! ¡Qué arrojados!
¡El bote viene lleno!...
-«¿Cuántos?»
-« ¡Todos salvados!»
-«¡Hurra! ¡Pronto una amarra!»
Y en tanto que gozosos,
Náufragos y marinos, saltando presurosos
De piedra en piedra vienen, hacia la madre el niño
Se lanza. Ella lo abraza; lo besa; y con cariño
Él le dice al oído: «No me regañes, madre...
¡Tan contento estaría mirándome mi padre!»
hay hombres con una historia o dos
pero cab calloway tenía otra historia
a nadie la podía mostrar y le pesaba
más que el Día de la Santa Consolación

¡ah cab calloway hijo!
toda sabiduría es poca eso se sabe
con los brazos hundidos hasta el codo en la espesa marea
se le volvían dulces las mujeres

y terribles como un cuento de hadas
la Bella Durmiente se la pasaba despertando
cómo salir del bosque oscuro
cómo salir preguntaba cab calloway

"por áhi anda el cansancio haciendo ruidos" decía pero no
cab calloway arregló su corazón como una casa
puso la mesa y bebió
a la salud de todos los vivientes

ninguno conocía a cab calloway
pero una especie de huno o vos o calor o luz
se les caía en la cabeza según
cuando cab calloway brindaba

de modo que está bien
el pajarito está contento
salta y salta en la jaula y canta
¡ah cab calloway padre!

un día de estos se murió y lo enterraron con sus pies
que asistieron respetuosos a toda la ceremonia
y después se fueron por el campo
y en la pieza de cab calloway lloraban las mujeres

cuando las lágrimas se secaron
el pajarito se las comió
el pajarito está contento
salta y salta en la jaula y canta

una mujer a lo mejor le abrazaba los pies a cab calloway
antes de que se fueran por el campo
hundiéndose hasta el codo en la espesa marea
ya vueltos dulces dulces
¡Qué tranquilidad violeta
por el sendero a la tarde!
A caballo va el poeta...
¡Qué tranquilidad violeta!

La rica brisa del río,
olorosa a junco y agua,
le refresca el albedrío...
La brisa rica del río.

A caballo va el poeta...

Y el corazón se le pierde
contento y embalsamado
en la madreselva verde...
Y el corazón se le pierde.

¡Qué tranquilidad violeta!

Caballo y él son ya uno.
El mismo corazón lento
en campo como ninguno...
Caballo y él van en uno.

A caballo va el poeta...

Se está la orilla dorando.
El último pensamiento
del sol la deja soñando...
Se va la orilla dorando.

¡Qué tranquilidad violeta!
El dulce niño pone el sentimiento
entre la pompa de jabón que fía
el lirio de su mano a la extensión.
El dulce niño pone el sentimiento
y el contento en la pompa de jabón.
Yo pongo el corazón -¡pongo el lamento!
entre la pompa de ilusión del día,
en la mentira azul de la extensión.
El dulce niño pone el sentimiento
y el contento. Yo pongo el corazón...
Después de Azul... después de Los Raros, voces insinuantes, buena y mala intención, entusiasmo sonoro y envidia
subterránea -todo bella cosecha-, solicitaron lo que, en conciencia, no he creído fructuoso ni oportuno: un manifiesto.Ni fructuoso ni oportuno:a) Por la absoluta falta de elevación mental de la mayoría pensante de nuestro continente, en la cual impera el universal personaje
clasificado por Remy de Gourmont con el nombre de Celui-qui-ne-comprend-pas. Celui-qui-ne-comprend-pas es, entre nosotros, profesor, académico
correspondiente de la Real Academia Española, periodista, abogado, poeta, rastaquouer.b) Porque la obra colectiva de los nuevos de América es aún vana, estando muchos de los mejores talentos en el limbo de un completo desconocimiento
del mismo Arte a que se consagran. c) Porque proclamando, como proclamo, una estética acrática, la imposición de un modelo o de un código implicaría
una contradicción.Yo no tengo una literatura «mía» -como la ha manifestado una magistral autoridad-para marcar el rumbo de los demás: mi literatura
es mía en mí-; quien siga servilmente mis huellas perderá su tesoro personal y, paje o esclavo, no podrá ocultar sello o librea.
Wágner, a Augusta Holmés, su discípula, dijo un día: «lo primero, no imitar a nadie, y sobre todo, a mí». Gran decir.Yo he dicho, en la misa rosa de mi juventud, mis antífonas, mis secuencias, mis profanas prosas.-Tiempo y menos fatigas de alma y corazón
me han hecho falta para, como un buen monje artífice, hacer mis mayúsculas dignas de cada página del breviario. (A través
de los fuegos divinos de las vidrieras historiadas me río del viento que sopla afuera, del mal que pasa). Tocad, campanas de oro, campanas de
plata, tocad todos los días, llamándome a la fiesta en que brillan los ojos de fuego, y las rosas de las bocas sangran delicias únicas.
Mi órgano es un viejo clavicordio pompadour, al son del cual danzaron sus gavotas alegres abuelos; y el perfume de tu pecho es mi perfume, eterno incensario de carne.
Varona inmortal, flor de mi costilla.Hombres soy.¿Hay en mi sangre alguna gota de sangre de África, o de indio chorotega o nagrandano? Pudiera ser, a despecho de mis manos de marqués;
mas he aquí que veréis en mis versos princesas, reyes, cosas imperiales, visiones de países lejanos o imposibles: ¡qué
queréis!, yo detesto la vida y el tiempo en que me tocó nacer; y a un presidente de República no podré saludarle en el idioma
en que te cantaría a ti, ¡oh Halagabal!, de cuya corte -oro, seda, mármol- me acuerdo en sueños...
(Si hay poesía en nuestra América, ella está en las cosas viejas: en Palenke y Utatlán, en el indio legendario,
y en el inca sensual y fino, y en el gran Moctezuma de la silla de oro. Lo demás es tuyo, demócrata Walt Whitman).Buenos Aires; Cosmópolis.¡Y mañana!El abuelo español de barba blanca me señala una serie de retratos ilustres: «Éste, me dice, es el gran don Miguel de Cervantes
Saavedra, genio y manco; éste es Lope de Vega; éste, Garcilaso; éste, Quintana». Yo le pregunto por el noble Gracián, por
Teresa la Santa, por el bravo Góngora y el más fuerte de todos, don Francisco de Quevedo y Villegas. Después exclamo: ¡Shakespeare!
¡Dante! ¡Hugo...! (Y en mi interior: ¡Verlaine...!)Luego, al despedirme: «Abuelo, preciso es decíroslo; mi esposa es de mi tierra; mi querida, de París».¿Y la cuestión métrica? ¿Y el ritmo?Como cada palabra tiene un alma, hay en cada verso, además de la armonía verbal, una melodía ideal. La música es
sólo de la idea, muchas veces.La gritería de trescientas ocas no te impedirá, silvano, tocar tu encantadora flauta, con tal de que tu amigo el ruiseñor
esté contento de tu melodía. Cuando él no esté para escucharte, cierra los ojos y toca para los habitantes de tu reino
interior. ¡Oh pueblo de desnudas ninfas, de rosadas reinas, de amorosas diosas!Cae a tus pies una rosa, otra rosa, otra rosa, ¡Y besos!Y la primera ley, creador: crear. Bufe el eunuco. Cuando una musa te dé un hijo, queden las otras ocho encinta.
Mío es el mundo: como el aire libre,
otros trabajan porque coma yo;
todos se ablandan si doliente pido
una limosna por amor de Dios.
El palacio, la cabaña
          son mi asilo,
si del ábrego el furor
troncha el roble en la montaña,
o que inunda la campaña
El torrente asolador.
Y a la hoguera
me hacen lado
los pastores
con amor.
Y sin pena
y descuidado
de su cena
ceno yo,
o en la rica
chimenea,
que recrea
con su olor,
me regalo
codicioso
del banquete
suntüoso
con las sobras
de un señor.Y me digo: el viento brama,
caiga furioso turbión;
que al son que cruje de la seca leña,
libre me duermo sin rencor ni amor.
    Mío es el mundo como el aire libre...
Todos son mis bienhechores,
          y por todos
a Dios ruego con fervor;
de villanos y señores
yo recibo los favores
sin estima y sin amor.

Ni pregunto
quiénes sean,
ni me obligo
a agradecer;
que mis rezos
si desean,
dar limosna
es un deber.
Y es pecado
la riqueza:
la pobreza
santidad:
Dios a veces
es mendigo,
y al avaro
da castigo,
que le niegue
caridad.Yo soy pobre y se lastiman
todos al verme plañir,
sin ver son mías sus riquezas todas,
qué mina inagotable es el pedir.
    Mío es el mundo: como el aire libre...
Mal revuelto y andrajoso,
          entre harapos
del lujo sátira soy,
y con mi aspecto asqueroso
me vengo del poderoso,
y a donde va, tras él voy.

Y a la hermosa
que respira
cien perfumes,
gala, amor,
la persigo
hasta que mira,
y me gozo
cuando aspira
mi punzante
mal olor.
Y las fiestas
y el contento
con mi acento
turbo yo,
y en la bulla
y la alegría
interrumpen
la armonía
mis harapos
y mi voz:Mostrando cuán cerca habitan
el gozo y el padecer,
que no hay placer sin lágrimas, ni pena
que no traspire en medio del placer.
    Mío es el mundo; como el aire libre...
Y para mí no hay mañana,
          ni hay ayer;
olvido el bien como el mal,
nada me aflige ni afana;
me es igual para mañana
un palacio, un hospital.

Vivo ajeno
de memorias,
de cuidados
libre estoy;
busquen otros
oro y glorias,
yo no pienso
sino en hoy.
Y do quiera
vayan leyes,
quiten reyes,
reyes den;
yo soy pobre,
y al mendigo,
por el miedo
del castigo,
todos hacen
siempre bien.Y un asilo donde quiera
y un lecho en el hospital
siempre hallaré, y un hoyo donde caiga
mi cuerpo miserable al espirar.
Mío es el mundo: como el aire libre,
otros trabajan porque coma yo;
todos se ablandan, si doliente pido
una limosna por amor de Dios.
Hermosa como la estrella
De la alborada de mayo
Fue en Méjico hará dos siglos
Doña Ana María de Castro.

Ninguna logró excederle
En la elegancia y el garbo
Ni en los muchos atractivos
De su afable y fino trato.

Sus maneras insinuantes,
Su genio jovial y franco,
Su lenguaje clara muestra
De su instrucción y su rango:

Su talle esbelto y flexible,
Sus ojos como dos astros
Y las riquísimas joyas,
Con que esmaltó sus encantos.

La hicieron en todo tiempo
La más bella en el teatro,
La mejor por sus hechizos,
La primera en los aplausos.

Los atronadores vivas,
Los gritos del entusiasmo
Siempre oyó, noche por noche,
Al pisar el escenario.

En canciones, en comedias,
En sacramentales autos,
Ninguna le excedió en gracia,
Ni le disputó los lauros.

Doña Ana entre bastidores
Era de orgullo tan alto,
Que a todos sus compañeros
Trató como a sus lacayos.

Las maliciosas hablillas,
Los terribles comentarios,
Los epigramas agudos
Y los rumores más falsos,

Siempre tuvieron origen
Según el vulgo, en su cuarto,
Centro fijo en cada noche
De los jóvenes más guapos.

Allí en torno de una mesa
Se charlaba sin descanso,
Sin escrúpulos ni coto
De lo bueno y de lo malo.

Si la gazmoña chicuela
Del marqués, ama a Fulano,
Y si éste le guiña el ojo
Escondido en algún palco;

Si la esposa de un marino
Mira con afán extraño
Al alabardero Azunza
Que de algún noble está al lado;

Si el Virrey fijó sus ojos
Con interés en el patio,
Como en busca de un amigo
Que subiera a acompañarlo,

Sobre el último alboroto
De tal calle y de tal barrio
Con alguaciles, corchetes
Mujerzuelas y soldados

La actriz, risueña y festiva
Oyendo tales relatos,
A todos daba respuestas
Como experta en cada caso.

Algunos por conquistarse
Su pasión más que su agrado,
Sin lograr sus esperanzas
Grandes sumas se gastaron;

Otros con menos fortuna
Sólo anhelaban su trato
Viviendo como satélites
En derredor de aquel astro.

Ana, radiante de gloria,
Miraba con desenfado
A los opulentos nobles
Que eclipsara con su encanto.

Y en la sociedad más alta
Censuraban su descaro
Creyéndola una perdida,
Foco de vicios y escándalos.

Mas no hay crónica que ponga
Tan duros juicios en claro,
Ni nos diga que a ninguno
Se rindió por los regalos.

Ella protegió conquistas
De sus amigos más francos,
Y quizá empujó al abismo
A los galanes incautos.

Astuta e inteligente
Guardó en su amor tal recato
Que tan valioso secreto
No han descubierto los años.

Se habla de un Virrey
Que estuvo de doña Ana enamorado,
Mas la historia no lo afirma
Ni puedo yo asegurarlo.

Mujer hermosa y ardiente,
De genio y en el teatro,
Por la calumnia y la envidia
Tuvo medidos sus pasos.
Por sabias disposiciones
Dictadas con gran acierto
Las actrices habitaban
Muy cerca del coliseo.

Este se alzó por entonces
Entre el callejón estrecho
Que del Espíritu Santo
Llamamos en nuestro tiempo,

Y la calle de la Acequia,
En los solares extensos
Que hoy las gentes denominan
Calle del Coliseo Viejo.

Y cerca, en vecina calle,
Que por tener un colegio
Destinado a las doncellas
«De las niñas» llama el pueblo,

Las artistas del teatro
Buscaron sus aposentos,
Y de las Damas llamóse
A tal motivo aludiendo.

Una noche gran tumulto
Turbó del barrio el sosiego,
A los más graves vecinos
Levantando de sus lechos;

Los jóvenes elegantes
Formando corrillo inmenso,
Seguidos de gente alegre
Y poco amiga del sueño,

A la puerta de una casa
Su carrera detuvieron
Acompañando sus trovas
Con sonoros instrumentos

-«Serenata a la de Castro»,
Dijo al mirarlos un viejo.
-¿Y por qué así la celebran?
Preguntó un mozo indiscreto.

-¡Cómo por qué! dijo alguno;
El Virrey loco se ha vuelto
Y prendado de la dama
Ordena tales festejos.

-¿El Virrey?-Así lo dicen.
-¡El Virrey! -Ni más ni menos;
Y allí cantan edecanes,
Corchetes y alabarderos.
-¿Será posible ?
-Miradlos...
-¡Qué locuras!
-Y ¡qué tiempos!
-Los oidores están sordos.
-Al menos están durmiendo.
-¡Turbar en tan altas horas
La soledad y el silencio!
¡Y alarmar a los que viven
Con recato en los conventos!

-¡Y por una mujerzuela!
-¡Una farsanta que ha puesto,
Como a Job, a tantos ricos
Que están limosna pidiendo!

-¿Y la Inquisición? -Se calla.
-¿Y la mitra? -¿Y el Gobierno?
-Doña Ana domina a todos
Con su horrible desenfreno.

-¿Y es hermosa? -Cual ninguna.
-¿Joven? -¡Y de gran talento!
-Y con dos ojos que vierten
Las llamas del mismo infierno.

-Con razón con sus hechizos
Vuelve locos a los viejos.
-El Virrey no es un anciano.
-Ni tampoco un arrapiezo.

-Pero escuchad lo que dicen
Cantando esos bullangueros.
-Es el descaro más grande
Tal cosa decir en verso.

Y al compás de la guitarra
Vibraba claro el acento
De un doncel que así decía
En obscura capa envuelto:

-«¡Sal a tu balcón, señora,
Que por mirarte me muero,
Piensa en que por ver tus gracias
El trono y la corte dejo».

-Más claro no canta un gallo.
-Y todos lo estáis oyendo.
El Virrey deja su trono
Por buscar a la... ¡Silencio!

-¡Cómo está la Nueva España!
-¡Pobre colonia! -Me atrevo
A decir que no se ha visto
Cosa igual en todo el reino.

Y los del corro cantaban,
Y al fin todos aplaudieron
Al mirar que la de Castro
A su balcón salió luego.

-«¡Vivan la luz y la gracia,
La sandunga y el salero!»
-«Ya asomó el sol en oriente».
-«¡Ya el alba tiñó los cielos!»

Y doña Ana agradecida
Buscando a todos un premio,
Llevó la mano a los labios
Y al grupo le arrojó un beso.

Creció el escándalo entonces
Rayó en locura el contento
Y volaron por los aires
Las capas y los sombreros,

Cerró su balcón la dama,
Apagáronse los ecos,
Dispersáronse las gentes
Y todo quedó en silencio
Con grande asombro se supo,
Trascurridas dos semanas
Desde aquella escandalosa
Aunque alegre serenata,

Que las glorias de la escena,
Los laureles de la fama,
El brillo y los oropeles
De la carrera dramática,

Por inexplicable cambio,
Por repentina mudanza,
Sin reserva y sin esfuerzo
Todo dejaba doña Ana.

Y alguno de los que saben
Cuanto en los hogares pasa
Y que exploran con cautela
Los secretos de las almas,

Dijo a todos los amigos
De artista tan celebrada
Que un sermón del Viernes Santo
Era de todo la causa.

El padre Matías Conchoso,
Cuya elocuente palabra
Los más duros corazones
Convirtiera en cera blanda,

Al ver entre su auditorio
A tan arrogante dama
Atrayéndose en el templo
De los hombres las miradas,

Habló de lo falso y breves
Que son las glorias mundanas;
De los mortales pecados
De los que viven en farsas;

De los escándalos graves
Que a la sociedad alarma
Cuando una actriz sin recato
Incautos pechos inflama;

Y con tan vivos colores
Pintó la muerte y sus ansias
Y al infierno perdurable
Que al pecador se prepara;

Que la de Castro, temblando,
Cayó al punto desmayada
Con el hechicero rostro
Bañado en ardientes lágrimas.

Sacáronla de aquel templo,
Condujéronla a su casa,
Y temiendo que muriera
Fueron a sacramentarla.

Cuando cesaron sus males,
Y estuvo en su juicio y sana,
En señal de penitencia
Resolvió dejar las tablas;

Y vendió trajes y joyas;
Y las sumas que dejaran
Se las entregó a la Iglesia
De su nuevo voto en aras.

Entró después de novicia
Y su conducta sin mancha
Y su piedad y su empeño
Por vivir estando en gracia,

Abreviaron sus afanes,
La dieron consuelo y calma
Y tomó el hábito y nunca
El mundo volvió a mirarla.

Fueron tales sus virtudes
Y sus hechos de enclaustrada,
Que cuentan los que lo saben
Que murió en olor de santa.

Por muchos años miróse
La celda pequeña y blanca
Que ocupó en Regina Coeli
La memorable doña Ana.

Y aun se conservan los muros
De la antigua estrecha casa
En que vivió aquella artista
En la «Calle de las Damas».

Pasó, dejando animosa
Riqueza, aplausos y fama,
Del escenario a la celda
¡Por la salvación del alma!
Filomena Dec 2023
Está frio o tempo
E está forte o vento
Mas o rosto está contento
Que não falta aquecimento

Porque na figura
No caminho pela rua
As botinhas são felpudas
Refletindo as doçuras

E maldosamente olha
As pessoas na recolha
Mas ela nunca está nervosa
E sempre porta-se garbosa

E a sua processão
Nessa grande multidão
Não precisa de permissão
E é doce a sua canção

Porque o amor e o amizade
Para ela são bastantes
E não há necessidade
Atentar ao desplante

E está frio o tempo
E está forte o vento
Mas o rosto está contento
Que não falta aquecimento
My first attempt at writing in Brazilian Portuguese.
If you speak Portuguese
and have a suggestion,
please let me know.
Original English:
https://hellopoetry.com/poem/4594310/the-fuzzy-boots/
Cuando ya el cuerpo sustenta
Cerca de cuarenta abriles,
Y ya pico en los cuarenta.
La memoria se alimenta
De recuerdos infantiles.

Voy a narrar una historia
Oportuna en este mes.
Mes de recuerdos de gloria;
Es un hecho, una memoria
Que tiene algún interés.

Sano, fuerte y bullicioso,
Creyendo en muchas quimeras
Era yo un rapaz dichoso,
Como que estaba orgulloso
De mis trece primaveras.

Del mundo sólo sabía
Lo que a la inocente tropa
Enseña la geografía,
Que hay Asia, África y Europa
Y América y Oceanía.

Aun estaban en fermento
Mis gustos y mis ideas,
Juzgaba la historia un cuento
Y el amor un sentimiento
Que se apaga ante las feas.

Estudiaba sin desmayo,
Conversaba sin misterio,
Era por activo un rayo
Y así llegué a un mes de mayo
En la época del Imperio.

El pueblo a Maximiliano
Le llamaba sin temor,
En estilo liso y llano,
En lugar de «soberano»:
«Intruso y usurpador».

Los estudiantes, ajenos
A las pompas imperiales,
Escuchábamos serenos
Esos epítetos llenos
De resabios liberales.

En nuestros pechos ardía
La libertad como norma,
Como faro, como guía;
Eran nuestra idolatría
Los hombres de la reforma.

A la estudiantina grey
Nada importaba la corte
Ni los festejos del Rey;
Sabía sólo que la Ley
Andaba en Paso del Norte.

Por fin, en una ocasión
Se puso a prueba el colegio
Con una extraña función:
¡La solemne recepción
De un huésoed preclaro y regio!!

Cada cuai se disponía
A la fiesta sorprendente
Que agitados nos tenía;
¡¡El Emperador vendría
A vernos el día siguiente!!

Y era la fecha elegida
Una que en gloria reboza
De nuestra historia en la vida:
¡¡La que en Puebla dejó ungida
Con su triunfo Zaragoza!!

Convenimos con recato
En conmemorar tal hecho
Dando al gobierno un mal rato;
¿Cómo? ¡¡Ostentando el retrato
De Zaragoza en el pecho!!

Fue un complot hecho de bruces,
Cada cual tendió la mano
Jurando por las tres cruces
Ser muy digno a todas luces
De llamarse mejicano.

Y en ademán decisivo
Que mi memoria no olvida,
Juramos por el Dios vivo
Ponernos tal distintivo
A una señal convenida.

Llegó el momento anhelado,
Pusieron en un salón
Todo el colegio formado
Ya dispuesto y arreglado
Para la gran recepción.

Entra el monarca y atento
Saluda, suena un rumor
Y en un solo movimiento,
Cada cual muestra contento
La efigie del vencedor.

-¿Qué es esto?-Maximiliano
Dice, y sin temer reveses
Un chico resoonde ufano:
«¡¡Un jefe republicano
Que derrotó a los franceses!!»

El Director quedó mudo
Y los que estaban allí
Ante un responder tan rudo;
Sacó el Príncipe un escudo,
Lo dio al chico y dijo así:

«Vuestra lealtad es notoria
Y yo la debo premiar,
De los héroes es la gloria
Y en el mundo y en la historia
La debemos respetar».

Prodújose un gran rumor
Que retumbó como un rayo
Y aquel grupo encantador
En vez de «al Emperador»
Victoreó «al 5 de Mayo».
La mattutina pioggia, allor che l'ale
Battendo esulta nella chiusa stanza
La gallinella, ed al balcon s'affaccia
L'abitator dè campi, e il Sol che nasce
I suoi tremuli rai fra le cadenti
Stille saetta, alla capanna mia
Dolcemente picchiando, mi risveglia;
E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo
Degli augelli susurro, e l'aura fresca,
E le ridenti piagge benedico:
Poiché voi, cittadine infauste mura,
Vidi e conobbi assai, là dove segue
Odio al dolor compagno; e doloroso
Io vivo, e tal morrò, deh tosto! Alcuna
Benché scarsa pietà pur mi dimostra
Natura in questi lochi, un giorno oh quanto
Verso me più cortese! E tu pur volgi
Dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando
Le sciagure e gli affanni, alla reina
Felicità servi, o natura. In cielo,
In terra amico agl'infelici alcuno
E rifugio non resta altro che il ferro.
Talor m'assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d'un lago
Di taciturne piante incoronato.
Ivi, quando il meriggio in ciel si volve,
La sua tranquilla imago il Sol dipinge,
Ed erba o foglia non si crolla al vento,
E non onda incresparsi, e non cicala
Strider, né batter penna augello in ramo,
Né farfalla ronzar, né voce o moto
Da presso né da lunge odi né vedi.
Tien quelle rive altissima quiete;
Ond'io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, né spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica
Cò silenzi del loco si confonda.
Amore, amore, assai lungi volasti
Dal petto mio, che fu sì caldo un giorno,
Anzi rovente. Con sua fredda mano
Lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto
Nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo
Che mi scendesti in seno. Era quel dolce
E irrevocabil tempo, allor che s'apre
Al guardo giovanil questa infelice
Scena del mondo, e gli sorride in vista
Di paradiso. Al garzoncello il core
Di vergine speranza e di desio
Balza nel petto; e già s'accinge all'opra
Di questa vita come a danza o gioco
Il misero mortal. Ma non sì tosto,
Amor, di te m'accorsi, e il viver mio
Fortuna avea già rotto, ed a questi occhi
Non altro convenia che il pianger sempre.
Pur se talvolta per le piagge apriche,
Su la tacita aurora o quando al sole
Brillano i tetti e i poggi e le campagne,
Scontro di vaga donzelletta il viso;
O qualor nella placida quiete
D'estiva notte, il vagabondo passo
Di rincontro alle ville soffermando,
L'erma terra contemplo, e di fanciulla
Che all'opre di sua man la notte aggiunge
Odo sonar nelle romite stanze
L'arguto canto; a palpitar si move
Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo sopor; ch'è fatto estrano
Ogni moto soave al petto mio.
O cara luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve; e duolsi
Alla mattina il cacciator, che trova
L'orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia; salve, o benigna
Delle notti reina. Infesto scende
Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
A deserti edifici, in su l'acciaro
Del pallido ladron ch'a teso orecchio
Il fragor delle rote e dè cavalli
Da lungi osserva o il calpestio dè piedi
Su la tacita via; poscia improvviso
Col suon dell'armi e con la rauca voce
E col funereo ceffo il core agghiaccia
Al passegger, cui semivivo e nudo
Lascia in breve trà sassi. Infesto occorre
Per le contrade cittadine il bianco
Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
Va radendo le mura e la secreta
Ombra seguendo, e resta, e si spaura
Delle ardenti lucerne e degli aperti
Balconi. Infesto alle malvage menti,
A me sempre benigno il tuo cospetto
Sarà per queste piagge, ove non altro
Che lieti colli e spaziosi campi
M'apri alla vista. Ed ancor io soleva,
Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar negli abitati lochi,
Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando
Scopriva umani aspetti al guardo mio.
Or sempre loderollo, o ch'io ti miri
Veleggiar tra le nubi, o che serena
Dominatrice dell'etereo campo,
Questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pè boschi e per le verdi rive,
O seder sovra l'erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m'avanza.
Aquí, junto al mar latino,
digo la verdad:
siento en roca, aceite y vino,
yo mi antigüedad.¡Oh, qué anciano soy, Dios santo,
oh, qué anciano soy!...
¿De dónde viene mi canto?
Y yo, ¿adónde voy?El conocerme a mí mismo
ya me va costando
muchos momentos de abismo
y el cómo y el cuándo...Y esta claridad latina,
¿de qué me sirvió
a la entrada de la mina
del yo y el no yo?...Nefelibata contento,
creo interpretar
las confidencias del viento,
la tierra y el mar...Unas vagas confidencias
del ser y el no ser,
y fragmentos de conciencias
de ahora y de ayer.Como en medio de un desierto
me puse a clamar;
y miré el sol como un muerto
y me eché a llorar.
Lector: escúchame atento
Esta tosca narración
Y júzgala la tradición,
Fábula, conseja o cuento.
En un libro polvoriento
La encontré leyendo un día,
Y hoy entra a la poesía
Desfigurada y maltrecha;
El verso es de mal cosecha
Y la conseja no es mía.

Hubo en un pueblo de España,
Cuyo nombre no es del caso
Porque el tiempo con su paso
Todo lo borra o lo empaña,
Un noble que cada hazaña,
De las que le daban brillo,
Celebraba en su castillo
Dando dinero a su gente
Construyendo un nuevo puente
O alzando un nuevo rastrillo.

Era el noble de gran fama,
De carácter franco y rudo,
Con campo azul en su escudo
Y en su torre una oriflama.
Era señor de una dama
Piadosa como ninguna;
Dueño de inmensa fortuna
Por trabajo y por herencia
Y tan limpio de conciencia
Como elevado de cuna.

Una vez, para decoro
De sus ricas heredades
Cruzó yermo y ciudades
Para combatir al moro.
Llevóse como tesoro
Y como escudo a la par,
Un talismán singular
Atado a viejo rosario
Un modesto escapulario
Con la Virgen del Pilar.

Era el precioso legado
De sus ínclitos mayores;
Desde sus años mejores
Lo tuvo siempre a su lado.
Y como voto sagrado
De cristiano y caballero
Juzgó su deber primero
En el combate reñido
Llevarlo siempre escondido
Tras de su cota de acero.

En ocasión oportuna
El noble llegó a creer
Que ante el moro iba a perder
Honra, blasón y fortuna.
Soñó que la media luna
Nuncio de sangre y de penas,
En horas de espanto llenas
Iba en sus feudos a entrar
Y hasta la vio coronar
Sus respetadas almenas.

Y no sueño, realidad
Pudo ser en un momento,
Pues fue tal presentimiento
Engendro de la verdad.
Acércanse a su heredad
Muslef y sus caballeros;
Mira brillar los aceros
Al fugor de alta linterna
Y sale por la poterna
En busca de sus pecheros.

Anda con paso inseguro
De un hachón a los reflejos;
«Alarma», grita a lo lejos
El arquero sobre el muro.
Como a la voz de un conjuro
Del noble los servidores
Surgen entre los negrores
De aquella noche maldita
Y lo siguen cuando grita:
«¡Sus! ¡A degollar traidores!

Corren y, en breves instantes,
Terror y espanto difunden
Y en una masa se funden
Asaltados y asaltantes.
Los cascos y los turbantes,
Revueltos y confundidos,
Entre quejas y alaridos
Vense en las sombras surgir,
Sin lograrse distinguir
Vencedores y vencidos.

El noble señor avanza
En pos del blanco alquicel
De un moro que en su corcel
Huye blandiendo su lanza.
Resuelto a asirlo le alcanza
Por ciega rabia impelido,
Y cruel y enardecido
Le mata con gran fiereza
Y le corta la cabeza,
Pues Muslef era el vencido.

Al tornar lleno de gloria
A su castillo feudal
Dijo: «Es un ser celestial
El que me dio la victoria.
El que ampara la memoria
Y el lustre de mis abuelos;
El que me otorga consuelos
Cuando vacila mi planta;
Es... ¡la imagen sacrosanta
De la Reina de los cielos!

»Siempre la llevé conmigo
Y hoy de mi fe como ejemplo
He de levantarle un templo
Donde tenga eterno abrigo.
El mundo será testigo
De que ferviente la adoro,
Y cual reclamo sonoro
De su gloria soberana
Daré al templo una campana
Hecha con armas del moro».

El tiempo corrió ligero
Y el templo se construyó
Como que el noble empeñó
Palabra de caballero.
Sobre su recinto austero,
Todo el feudo acudió a orar
Venerando en el altar
En lujoso relicario,
Un modesto escapulario
Con la Virgen del Pilar.

Los siglos, que todo arrastran
Lo más sólido destruyen,
Los hombres llegan y huyen
Y los monumentos pasan.
Templos que en la fe se abrasan
Ceden del tiempo al estrago;
Todo es efímero y vago
Y en las sombras del no ser
Lo que vistió el oro ayer
Hoy lo encubre el jaramago.

Quedóse el templo en ruinas,
Sus glorias estaban muertas
Y ya en sus naves desiertas
Volaban las golondrinas.
Sobre sus muros, espinas;
Verde yedra en la portada
La Virgen, abandonada
Por ley aciaga e injusta,
Y la campana vetusta
Eternamente calada.

En cierta noche el horror
De algo extraño se apodera
De aquel pueblo cuando oyera
De la campana el rumor.
Desde el más alto señor
Al pobre y al pequeñuelo,
Acuden con vivo anhelo
A mirar quién la profana
Y se encuentran la campana
Sola, repicando a vuelo.

Asaltan con gran trabajo
La torre donde repica
Y su espanto multiplica
Ver que toca sin badajo.
El noble, el peón del tajo,
El alcalde, el alguacil,
Con agitación febril
Y con ánima turbada
Exclaman: «¡Está hechizada
Por los siervos de Boabdil!»

Entre temores y enojos,
Propios de aquellos instantes,
Los sencillos habitantes
Ya no pegaron los ojos.
Con sobresalto y sonrojos
El temor al pueblo excita
Lleva el cura agua bendita
Y como todos, temblando,
Comienza a rezar, regando
A la campana maldita.

A medida que mojaba
El agua bendita el hierro,
Cual diabólico cencerro
Más la campana sonaba.
La gente se santiguaba
Triste, amedrentada y loca,
El cura a Jesús invoca
Y por fin llega a exclamar:
«No la podemos callar
Porque el diablo es quien la toca».

Tras esa noche infernal
Se dio cuenta al nuevo día
De aquella aventura impía
Al consejo y al fiscal.
Este, en tono magistral,
Bien estudiado el conjunto,
Resolvió tan grave punto
Y por solución perfecta
Dijo: «Que tuvo directa parte
El diablo en el asunto».

Y como sentencia sana,
Poniendo al espanto un dique,
Declaró nulo el repique
De la maldita campana;
Que cualquier mano profana
Con un golpe la ofendiera
Que el pueblo la maldijera,
Siendo el alcalde testigo
Y desterrada, en castigo,
Para las Indias saliera.

Cumplida aquella sentencia,
Maldecida y sin badajo,
A Méjico se la trajo
Antes de la Independencia.
De algún Virrey la indolencia
La dio castigo mayor
Quedando en un corredor
Del Palacio abandonada,
Por ser campana embrujada
Que a todos causaba horror.

Alguien la alzó en el espacio,
Le dio voz y útil empleo,
Y fue un timbre y un trofeo
En el reloj de palacio.
El tiempo a todo reacio
Y que méritos no advierte,
Puso un término a su suerte
Cambiando su condición
Y encontró en la fundición
Metamorfosis y muerte.

En el libro polvoriento
Que a tal caso registré,
La descripción encontré
De tan raro monumento.
Tuvo como un ornamento
De sus nobles condiciones,
De su abolengo pregones
En la parte principal,
Una corona imperial
Asida por dos leones.

En el cuerpo tosco y rudo,
Consagrando sonidos,
Se miraban esculpidos
Un calvario y un escudo,
Y como eterno saludo
De la tierra en que nació
En sus bordes se grabó
Una fecha y un letrero:
«Maese Rodrigo» (el obrero
Que la campana fundió).

Produjo tal sensación
Entre la gente más llana
Ver un reloj con campana
En la virreinal mansión,
Que son eterna expresión
De aquel popular contento
Las calles que el pueblo atento
«Del Reloj» sigue llamando
Constante conmemorando
Tan fausto acontecimiento.

Dos centenares de auroras
La campana de palacio
Lanzó al anchuroso espacio
Sus voces siempre sonorazas.
Después de marcar las horas
Con solemne majestad,
Dejóle nuestra ciudad
Recuerdo imperecedero,
Que es su toque postrimero
Vibrando en la eternidad.
El varón que tiene corazón de lis,
alma de querube, lengua celestial,
el mínimo y dulce Francisco de Asís,
está con un rudo y torvo animal,
bestia temerosa, de sangre y de robo,
las fauces de furia, los ojos de mal:
el lobo de Gubbia, el terrible lobo,
rabioso, ha asolado los alrededores;
cruel ha deshecho todos los rebaños;
devoró corderos, devoró pastores,
y son incontables sus muertes y daños.

Fuertes cazadores armados de hierros
fueron destrozados. Los duros colmillos
dieron cuenta de los más bravos perros,
como de cabritos y de corderillos.

Francisco salió:
al lobo buscó
en su madriguera.
Cerca de la cueva encontró a la fiera
enorme, que al verle se lanzó feroz
contra él. Francisco, con su dulce voz,
alzando la mano,
al lobo furioso dijo: -¡Paz, hermano
lobo! El animal
contempló al varón de tosco sayal;
dejó su aire arisco,
cerró las abiertas fauces agresivas,
y dijo: -¡Está bien, hermano Francisco!
¡Cómo! -exclamó el santo-. ¿Es ley que tú vivas
de horror y de muerte?
¿La sangre que vierte
tu hocico diabólico, el duelo y espanto
que esparces, el llanto
de los campesinos, el grito, el dolor
de tanta criatura de Nuestro Señor,
no han de contener tu encono infernal?
¿Vienes del infierno?
¿Te ha infundido acaso su rencor eterno
Luzbel o Belial?
Y el gran lobo, humilde: -¡Es duro el invierno,
y es horrible el hambre! En el bosque helado
no hallé qué comer; y busqué el ganado,
y en veces comí ganado y pastor.
¿La sangre? Yo vi más de un cazador
sobre su caballo, llevando el azor
al puño; o correr tras el jabalí,
el oso o el ciervo; y a más de uno vi
mancharse de sangre, herir, torturar,
de las roncas trompas al sordo clamor,
a los animales de Nuestro Señor.
Y no era por hambre, que iban a cazar.
Francisco responde: -En el hombre existe
mala levadura.
Cuando nace viene con pecado. Es triste.
Mas el alma simple de la bestia es pura.
Tú vas a tener
desde hoy qué comer.
Dejarás en paz
rebaños y gente en este país.
¡Que Dios melifique tu ser montaraz!
-Está bien, hermano Francisco de Asís.
-Ante el Señor, que todo ata y desata,
en fe de promesa tiéndeme la pata.
El lobo tendió la pata al hermano
de Asís, que a su vez le alargó la mano.
Fueron a la aldea. La gente veía
y lo que miraba casi no creía.
Tras el religioso iba el lobo fiero,
y, baja la testa, quieto le seguía
como un can de casa, o como un cordero.

Francisco llamó la gente a la plaza
y allí predicó.
Y dijo: -He aquí una amable caza.
El hermano lobo se viene conmigo;
me juró no ser ya vuestro enemigo,
y no repetir su ataque sangriento.
Vosotros, en cambio, daréis su alimento
a la pobre bestia de Dios. -¡Así sea!,
contestó la gente toda de la aldea.
Y luego, en señal
de contentamiento,
movió testa y cola el buen animal,
y entró con Francisco de Asís al convento.

Algún tiempo estuvo el lobo tranquilo
en el santo asilo.
Sus bastas orejas los salmos oían
y los claros ojos se le humedecían.
Aprendió mil gracias y hacía mil juegos
cuando a la cocina iba con los legos.
Y cuando Francisco su oración hacía,
el lobo las pobres sandalias lamía.
Salía a la calle,
iba por el monte, descendía al valle,
entraba en las casas y le daban algo
de comer. Mirábanle como a un manso galgo.
Un día, Francisco se ausentó. Y el lobo
dulce, el lobo manso y bueno, el lobo probo,
desapareció, tornó a la montaña,
y recomenzaron su aullido y su saña.
Otra vez sintióse el temor, la alarma,
entre los vecinos y entre los pastores;
colmaba el espanto los alrededores,
de nada servían el valor y el arma,
pues la bestia fiera
no dio treguas a su furor jamás,
como si tuviera
fuegos de Moloch y de Satanás.

Cuando volvió al pueblo el divino santo,
todos lo buscaron con quejas y llanto,
y con mil querellas dieron testimonio
de lo que sufrían y perdían tanto
por aquel infame lobo del demonio.

Francisco de Asís se puso severo.
Se fue a la montaña
a buscar al falso lobo carnicero.
Y junto a su cueva halló a la alimaña.
-En nombre del Padre del sacro universo,
conjúrote -dijo-, ¡oh lobo perverso!,
a que me respondas: ¿Por qué has vuelto al mal?
Contesta. Te escucho.
Como en sorda lucha, habló el animal,
la boca espumosa y el ojo fatal:
-Hermano Francisco, no te acerques mucho...
Yo estaba tranquilo allá en el convento;
al pueblo salía,
y si algo me daban estaba contento
y manso comía.
Mas empecé a ver que en todas las casas
estaban la Envidia, la Saña, la Ira,
y en todos los rostros ardían las brasas
de odio, de lujuria, de infamia y mentira.
Hermanos a hermanos hacían la guerra,
perdían los débiles, ganaban los malos,
hembra y macho eran como perro y perra,
y un buen día todos me dieron de palos.
Me vieron humilde, lamía las manos
y los pies. Seguía tus sagradas leyes,
todas las criaturas eran mis hermanos:
los hermanos hombres, los hermanos bueyes,
hermanas estrellas y hermanos gusanos.
Y así, me apalearon y me echaron fuera.
Y su risa fue como un agua hirviente,
y entre mis entrañas revivió la fiera,
y me sentí lobo malo de repente;
mas siempre mejor que esa mala gente.
y recomencé a luchar aquí,
a me defender y a me alimentar.
Como el oso hace, como el jabalí,
que para vivir tienen que matar.
Déjame en el monte, déjame en el risco,
déjame existir en mi libertad,
vete a tu convento, hermano Francisco,
sigue tu camino y tu santidad.

El santo de Asís no le dijo nada.
Le miró con una profunda mirada,
y partió con lágrimas y con desconsuelos,
y habló al Dios eterno con su corazón.
El viento del bosque llevó su oración,
que era: Padre nuestro, que estás en los cielos...
Éste de mis entrañas dulce fruto,
con vuestra bendición, oh Rey eterno,
ofrezco humildemente a vuestras aras;
que si es de todos el mejor tributo
un puro corazón humilde y tierno,
y el más precioso de las prendas caras,
no las aromas raras
entre olores fenicios
y licores sabeos,
os rinden mis deseos,
por menos olorosos sacrificios,
sino mi corazón, que Carlos era,
que en el que me quedó menos os diera.

Diréis, Señor, que en daros lo que es vuestro
ninguna cosa os doy, y que querría
hacer virtud necesidad tan fuerte,
y que no es lo que siento lo que muestro,
pues anima su cuerpo el alma mía,
y se divide entre los dos la muerte.
Confieso que de suerte
vive a la suya asida,
que cuanto a la vil tierra,
que el ser mortal encierra,
tuviera más contento de su vida;
mas cuanto al alma, ¿qué mayor consuelo
que lo que pierdo yo me gane el cielo?
 
Y vos, dichoso niño, que en siete años
que tuvistes de vida, no tuvistes
con vuestro padre inobediencia alguna,
corred con vuestro ejemplo mis engaños,
serenad mis paternos ojos tristes,
pues ya sois sol donde pisáis la luna;
de la primera cuna
a la postrera cama
no distes sola un hora
de disgusto, y agora
parece que le dais, si así se llama
lo que es pena y dolor de parte nuestra,
pues no es la culpa, aunque es la causa, vuestra.

Cuando tan santo os vi, cuando tan cuerdo,
conocí la vejez que os inclinaba
a los fríos umbrales de la muerte;
luego lloré lo que ahora gano y pierdo,
y luego dije: «Aquí la edad acaba,
porque nunca comienza desta suerte».
¿Quién vio rigor tan fuerte,
y de razón ajeno,
temer por bueno y santo
lo que se amaba tanto?
Mas no os temiera yo por santo y bueno,
si no pensara el fin que prometía,
quien sin el curso natural vivía.

Yo para vos los pajarillos nuevos,
diversos en el canto y las colores,
encerraba, gozoso de alegraros;
yo plantaba los fértiles renuevos
de los árboles verdes, yo las flores,
en quien mejor pudiera contemplaros,
pues a los aires claros
del alba hermosa apenas
salistes, Carlos mío,
bañado de rocío,
cuando marchitas las doradas venas
el blanco lirio convertido en hielo,
cayó en la tierra, aunque traspuesto al cielo.


¿Oh qué divinos pájaros agora,
Carlos, gozáis, que con pintadas alas
discurren por los campos celestiales
en el jardín eterno, que atesora
por cuadros ricos de doradas salas
más hermosos jacintos orientales,
adonde a los mortales
ojos la luz excede?
¡Dichoso yo que os veo
donde está mi deseo
y donde no tocó pesar, ni puede;
que sólo con el bien de tal memoria
toda la pena me trocáis en gloria!

¿Qué me importara a mí que os viera puesto
a la sombra de un príncipe en la tierra,
pues Dios maldice a quien en ellos fía,
ni aun ser el mismo príncipe compuesto
de aquel metal del sol, del mundo guerra,
que tantas vidas consumir porfía?
La breve tiranía,
la mortal hermosura,
la ambición de los hombres
con títulos y nombres,
que la lisonja idolatrar procura,
al expirar la vida, ¿en qué se vuelven,
si al fin en el principio se resuelven?

Hijo, pues, de mis ojos, en buen hora
vais a vivir con Dios eternamente
y a gozar de la patria soberana.
¡Cuán lejos, Carlos venturoso, agora
de la impiedad de la ignorante gente
y los sucesos de la vida humana,
sin noche, sin mañana,
sin vejez siempre enferma,
que hasta el sueño fastidia,
sin que la fiera envidia
de la virtud a los umbrales duerma,
del tiempo triunfaréis, porque no alcanza
donde cierran la puerta a la esperanza!

La inteligencia que los orbes mueve
a la celeste máquina divina
dará mil tornos con su hermosa mano,
fuego el León, el Sagitario nieve;
y vos, mirando aquella esencia trina,
ni pasaréis invierno ni verano,
y desde el soberano
lugar que os ha cabido,
los bellísimos ojos,
paces de mis enojos,
humillaréis a vuestro patrio nido,
y si mi llanto vuestra luz divisa,
los dos claveles bañaréis en risa.

Yo os di la mejor patria que yo pude
para nacer, y agora en vuestra muerte,
entre santos dichosa sepultura;
resta que vos roguéis a Dios que mude
mi sentimiento en gozo, de tal suerte
que, a pesar de la sangre que procura
cubrir de noche escura
la luz de esta memoria,
viváis vos en la mía;
que espero que algún día
la que me da dolor me dará gloria,
viendo al partir de aquesta tierra ajena,
que no quedáis adonde todo es pena.
¿de este destierro subo a tu hermosura? /
¿entras en mí como contento? / ¿lágrimas
de contento o congoja? / ¿por qué aprietan
al corazón? / ¿tu mano es? / ¿apretando?/

¿acariciando moviendo? / ¿tus labios
besándome son? / ¿tu calor? / ¿tu pura
pasión donde me quiebro la cabeza? /
¿torpe? / ¿lágrimas o deseos? / ¿altos

en la humildad que das? / ¿bondad que sos? /
¿y qué es amar? / ¿o son señales del
amor lo que se ve? / ¿amar muchísimo? /
luz que bañas el apretado sueño /

meditación que vuela como pájaro
desatándome el cuerpo / corazón
que entendés en silencio / corazón /
como la tortolita del pensar
¿Oís?,  es el cañón.  Mi pecho hirviendo
el cántico de guerra entonará,
y al eco ronco del cañón venciendo,
la lira del poeta sonará.
El pueblo ved que la orgullosa frente
levanta ya del polvo en que yacía,
arrogante en valor, omnipotente,
terror de la insolente tiranía.
          Rumor de voces siento,
y al aire miro deslumbrar espadas,
y desplegar banderas;
y retumban al son las escarpadas
rocas del Pirineo;
y retiemblan los muros
de la opulenta Cádiz, y el deseo
crece en los pechos de vencer lidiando;
brilla en los rostros* el marcial contento,
y dondequiera generoso acento
se alza de PATRIA y LIBERTAD tronando.
              Al grito de la patria
          volemos, compañeros,
          blandamos los aceros
          que intrépida nos da.
          A par en nuestros brazos
          ufanos la ensalcemos
          y al mundo proclamemos:
          "España
es libre ya".
              ¡Mirad, mirad en sangre,
          y lágrimas teñidos
          reír los forajidos,
          gozar en su dolor!
          ¡Oh!, fin tan sólo ponga
          su muerte a la contienda,
          y cada golpe encienda
          aún más nuestro rencor.
              ¡Oh siempre dulce patria
          al alma generosa!
          ¡Oh siempre portentosa
          magia de libertad!
          Tus ínclitos pendones
          que el español tremola,
          un rayo tornasola
          del iris de la paz.
              En medio del estruendo
          del bronce pavoroso,
          tu grito prodigioso
          se escucha resonar.
          Tu grito que las almas
          inunda de alegría,
          tu nombre que a esa impía
          caterva hace temblar.
              ¿Quién hay ¡oh compañeros!,
          que al bélico redoble
          no sienta el pecho noble
          con júbilo latir?
          Mirad centelleantes
          cual nuncios ya de gloria,
          reflejos de victoria
          las armas despedir.

¡Al arma!, ¡al arma!, ¡mueran los carlistas!
Y al mar se lancen con bramido horrendo
de la infiel sangre caudalosos ríos,
y atónito contemple el océano
sus olas combatidas
con la traidora sangre enrojecidas.
Truene el cañón: el cántico de guerra,
pueblos ya libres, con placer alzad:
ved, ya desciende a la oprimida tierra,
los hierros a romper, la libertad.
Casi mediando por filo
El siglo decimosexto,
Pues sólo faltaba un año
Para diez lustros completos,
Un pregón del Santo Oficio
Puso en gran alarma a México
Asombrando a la nobleza
Y a la plebe dando miedo.
Iban a ser conducidos
Con gran pompa al Quemadero
Más de cien penitenciados,
De grandes crímenes reos.

Herejes y judaizantes,
Desde largo tiempo presos,
Y firmes en las doctrinas
De Moisés y de Lutero,
De sus terribles sentencias
Fijado el lúgubre término
Pronto como relajados
Iban a ser un ejemplo,
Una sagrada enseñanza,
Prueba, verdad y escarmiento
De que los hijos del diablo
Deben morir en el fuego.

Alzáronse inmensas piras
Sobre aquel lugar siniestro,
Donde hallamos una plaza
de mercado en nuestros tiempos,
Al lado sur del Palacio
Donde reside el Gobierno.
Cansáronse muchos hombres,
Gastóse mucho dinero
En los mil preparativos
Del auto de fe más *****
Que la Inquisición registra
En su historia en nuestro suelo.

Y corrió de boca en boca,
Jurando todos ser cierto,
Que ordenaba el Santo Oficio
Que desde el conde al pechero
Revistieran las fachadas
De sus propios aposentos
Con todo lo que mostrase
Aflicción, terror y duelo.

Que en balcones y ventanas
De las casas del trayecto,
Que recorrer deberían
Hasta el suplicio los reos,
Se pusieran crucifijos
Con verdes ceras ardiendo;
Lazos y cortinas negras,
Ramas de ciprés con heno
Y por únicos adornos
Los atributos más tétricos
De estatuas y de retablos
En tumbas y cementerios.

Que al pasar la comitiva,
Con numeroso cortejo
De inquisidores y jueces
Y de verdugos y pueblo,
Ninguno hablara en voz alta
Para no ofender al cielo,
Y que de todas las bocas
Salieran fervientes rezos,
Para así atenuar un tanto
La suerte de los confesos.
Que era obligación de todos
Rezar contritos el Credo
Y repetirlo las veces
Que les permitiera el tiempo
Que tardaran en cambiarse
En cenizas los incrédulos.

Por último el Santo Oficio,
A nobles como a plebeyos,
Ordenaba que llevasen
En torno del Quemadero
A sus esposas e hijos
Para tomar escarmiento
De cómo padece y muere
Y causa terror un réprobo.

Y les previno asimismo
Que aquel que por sentimiento,
Por compasión o ternura
En instantes tan supremos
Solicitara clemencia
O indulto para los reos,
A las terribles hogueras
Fuera arrojado con éstos.

Y se mandó que ninguna
De las gentes de este Reino
Pudiera asistir al auto
Ni conocer a los reos
Sin haber en su parroquia
Cumplidos los sacramentos
Que lavan de toda culpa
Y curan de todo yerro.

Con tan graves prescripciones
Los habitantes de México
Esperaban el instante
En que un castigo tremendo
Iba a cumplirse, llevando
Cien hombres al Quemadero.
No hay plazo que no se cumpla,
Dice un sabido proverbio,
Y al fin llegó la alborada
Que ansioso esperaba el pueblo.
Dentro de las tristes celdas
A los infelices reos
Sus verdugos de rodillas
Estas cosas les dijeron:

«Nosotros, que vuestras vidas
Por mandato cortaremos,
Vuestro perdón demandamos
En nombre del Juez Supremo
A quien también le pedimos
Que os liberte del infierno».

Y esta fórmula cumplida
Visten con hopa a los presos,
Y los disponen y alistan
para caminar al fuego.

Entre todos, allí estaba
Ocupando el primer puesto
Un judaizante muy rico
y de carácter de hierro.

Contaban propios y extraños,
En público y en secreto
Que vino a la Nueva España
A dedicarse al comercio.

Construyó un amplio palacio
Un tanto churrigueresco,
En el barrio más distante
De la capital del reino.

Y arregló en el piso bajo
Una casa de comercio
Con dos puertas, de las cuales
Una tuvo el privilegio

De que si entraba por ella
Un comprador forastero,
Sacaba, sin explicárselo,
Más baratos los efectos.

Así vivió sin zozobras
El mercader mucho tiempo,
Y le debió a una desgracia
Turbar tan dulce sosiego.

Tuvo entre su muchedumbre
A una mujer a quien dieron
Orden de que investigase
De aquel hombre los secretos;
Y ella, astuta y maliciosa,
Y fanática en extremo
Llegaba noche por noche
Junto a la alcoba del dueño,
Y no le vio santiguarse
Ni le escuchó ningún rezo.

Pero sí notó que siempre
Se escucharan raros ecos
De golpes, como si diera
Azotes en algún cuerpo;
Miró por la cerradura
Y vio con asombre inmenso
Que aquel hombre fustigaba
Con un rebenque de cuero
A un Niño Jesús, desnudo
Y tendido sobre el suelo.

Le dio parte a la justicia
Y no pasó mucho tiempo
Sin que al hereje encontrara
El inquisidor Aldeño,
Dando golpes a la imagen
Del Príncipe de los Cielos.

Registrada aquella casa,
Encontraron que el hebreo
En una de las dos puertas
De su casa de comercio
Enterró dos crucifijos
Y formaba su contento
Vender al que los pisaba
Más baratos los efectos.

Por crímenes tan terribles,
Por tan grandes sacrilegios,
Sentenciólo el Santo Oficio
A ser arrojado al fuego,
Con coraza en la cabeza
Y sambenito en el cuerpo,
Conducido con una mula,
Montado en sentido inverso,
Con el rostro hacia la cola,
Custodiado por dos negros.

Y que después de quemado,
Para enseñanza del pueblo,
Se esparcieran las cenizas
En alto a los cuatro vientos,
Confiscándose sus bienes,
Su habitación maldiciendo,
Regando con sal y lumbre
Los muros y los cimientos
Y condenando a sus hijos
A calabozo perpetuo.
Cuentan viejos pergaminos
Que el excomulgado reo,
Cuando al suplicio marchaba
Daba pavor por blasfemo.

Y que la mula elegida
Para conducir su cuerpo
Se encabritó tantas veces
Que dio con él en el suelo;
Y temiéndose que vivo
No llegara al Quemadero,
Ordenaron que subiera
Para sujetarlo un *****,
Que lo estrechó entre sus brazos
En gran parte del trayecto.

El pueblo que contemplaba
Tan espantosos sucesos,
Sin explicarse el motivo,
Dijo para sus adentros:
«Este hereje lleva el diablo
Tan bien metido en el cuerpo,
Que ni la mula aguanta
Para no ofender al cielo».

Por ventanas y balcones,
En vez de salmos y rezos,
Le arrojaban anatemas,
Maldiciones y denuestos;
Y como era mes de julio
En que siempre llueve en México,
Y estaba el cielo nublado
Y nada agradable el cierzo,
Las gentes se sospechaban
Que por no ver al blasfemo,
Entre cenicientas nubes
Permaneció el sol envuelto.

Así al horrible suplicio
Llegaron a pasos lentos
Más de cien excomulgados,
Todos firmes y confesos.

Tocó el turno al israelita
Que fue entre todos aquellos
El primer quemado vivo
Por sus grandes sacrilegios.

Y dicen que al verse atado
Al tosco mástil de hierro
Y cuando ya lo envolvían
Las rojas lenguas del fuego,
Les gritaba a los verdugos
Con tosco y rabioso acento
«Echen más leña, infelices,
Que me cuesta mi dinero».
Han transcurrido dos siglos
Y aún está de pie y entero
El palacio en que habitara
El infortunado reo.

Llamóse Tomás Tremiño;
No murió joven ni viejo
Y fue de carácter firme
Y de condición discreto.

No se ha borrado su nombre
De la memoria del pueblo,
Porque siempre el infortunio
Del cristiano y del hebreo
Hace palpitar llorando
A los corazones buenos.

Y se encomia y se bendice
Y se aplaude con anhelo
La dicha de haber nacido
Con la razón y el derecho
Y sin hogueras que forjen
Los grillos del pensamiento.
Alan Eshban Aug 2017
...
Imposible creer ese falso amor y
Poder caer otra vez en tus jugos, es mejor
Olvidarte ya qu tu
Eres un persona que con los sentimientos juega
La vida es una y recuerda que cada
Persona es diferente a ti a si que
Indicada es la hora para partir
Y no dejaré ir la oportunidad de
Dejarte fuera de mi corazón e
Ir en busca de alguien que si cuide de el y
No lo rompa como tú lo hiciste
Podré desearte suerte pero quiero que sepas que
No te guardo rencor ya que no
Importa somos humanos y sabemos
Que todos nos equivocamos, a lo mejor
Tan absurdo té suene esto que me es
Difícil comprender el como te sientes ahorita ya
Sea para bien o para mal.
No importa si lees esto por completo tampoco
Importa si me dejas abandonado
En una banca de la calle como vagabundo
Que trataré ponerme de pie a pesar de las
Situación que me encuentre, espero que
Nos comprendamos el uno al otro y
Situemos los pies en la tierra
Siempre, es mejor que
Te vayas retirando de mi vida ya que
Amaré a una nueva piel que
Mi alma y la de ella si formen una y que mi
Corazón este y
Se sienta en paz y sentir que se
Detiene el tiempo al tener
Por segunda y ultima vez
Un amor similar al tuyo y pasar el
Momento más feliz de mi vida
Al estar abrazándonos,
Estar besándonos, y decirle que  
Contigo solo fue un juego y
Mirar y decir que es real lo que siente como
Tus engaños los llegue a sentir
Hermosos por no saber la verdad ya que
Ojos que no ven corazón que no siente,
Me da curiosidad que será de ti, me
Hipnotizan los engaños que tuve ya que
Cada día me pregunto si alguna
Vez me amaste...
Que me tiene desesperado saber si
Me tenías como objeto.
Ven y te vuelvo a decir que yo era el único que
Me preocupaba por ti, hasta me
Desmaya el saber
Cuando salías con
Tu amante y aún así te perdone, recuerdo el
Aroma de las flores que te regalaba
Queda guardado en mi memoria como se quedo
Impregnado las caricias de amor.
En que momento
Mi suerte cambió? Y ahora el único
Pensamiento que tengo es de soledad.
Si pudiera tirar a la basura asi de fácil
Tus te quieros no escribirá esto, tus
Labios fueron testigos y
Yo solo decía afortunado es quien
Besaría tus labios...
Sería inútil intentar de nuevo,
Lo mejor y
Más conveniente es dejarlo ir.
Dulce fueron los momentos
Que pasamos juntos.
Mi alma se sienta sola y mi
Boca no tenga ahorita a quien besar.
Tocaria a lo mejor nos veamos en un futuro y
Sueño que todo quede en paz entre nosotros y
Con todo respeto el poder saludarnos.
Acariciar tu rostro aceptó que fue hermoso
Tú me hiciste sentir en la luna y tú
Rostro me fascinaba
Y que mejor cuando mirábamos el cielo y
Que me decías que nunca
Nos íbamos a separar y que nos
Amamos hasta que no haya vida.
Quizás haya sido mentirá pero fue bonito
Lo que me hacía sentir.
Que fue difícil darte lo que
Esperabas pero
De mi pude dar lo que podía.
Mi futuro dependerá de mis lecciones y  
No espero que sea al contrario contigo.
Lo que decías a lo mejor no se cumplió pero
Soy y eres humano y de experiencias vivimos,
Pero espero que esto sirva más de lo que duele
Te diré que siempre te amé y te
Prometo...
Que algún día te perdonare
Seré franco no sé si pueda ya que
El perdón es complicado y más si se trata de un
Hombre como yo que fue engañado,
Más intentaré poder hacerlo y
Contento será el mundo otra vez.
Si tuvieras sentimientos me entenderías pero
Te llenas de orgullo.
Sigo un buen camino desde que no estoy
Teniendo nada contigo aunque
A mi no me agrade se que lo llevó y con
Mi cabeza siempre en alto para a
Lado poder tener alguien que si me ame tanto.
Hay un tropel de potros sobre la pampa inmensa.
¿Es Pan que se incorpora? No: es un hombre que piensa,
es un hombre que tiene una lira en la mano:
él viene del azul, del sol, del Océano.
Trae encendida en vida su palabra potente
y concreta el decir de todo un continente...
Tal vez es desigual... (¡El Pegaso da saltos!)
Tal vez es tempestuoso... (¡Los Andes son tan altos!...)
Pero hay en este verso tan vigoroso y terso
una sangre que apenas veréis en otro verso;
una sangre que cuando en la estrofa circula,
como la luz penetra y como la onda ondula...
Pegaso está contento, Pegaso piafa y brinca,
porque Pegaso pace en los prados del inca.
Y este fuerte poeta de alma tan ardorosa
sabe bien lo que cuentan los labios de la rosa,
comprende las dulzuras del panel y comprende
lo que dice la abeja del secreto del duende...
Pero su brazo es para levantar la trompeta
hacia donde se anuncia la aurora del Profeta;
es hecho para dar a la virtud del viento
la expresión del terrible clarín del pensamiento.
Él sabe de Amazonas, Chimborazos y Andes.
Siempre blande su verso para las cosas grandes.
Va como Don Quijote en ideal campaña,
vive de amor de América y de pasión de España;
y envuelto en armonía y en melodía y canto,
tiene rasgos de héroe y actitudes de santo.
«¿Me permites, Chocano, que como amigo fiel,
te ponga en el ojal esta hoja de laurel?»
Tal dije cuando don J. Santos Chocano,
último de los incas, se tornó castellano.
...Eres tan misteriosa como la voz del viento
Eres tan atrayente como un abismo ¡Abismo
lleno de rosas frescas! ...Eres, como el contento,
expresiva y voluble. Ama el romanticismo

tu alma, le dispensa igual recibimiento
a la blanca ilusión que al ***** sensualismo.
Eres tan turbadora como un presentimiento,
y cruel y a la paz piadosa, tal como un espejismo.

Por esas vaguedades que en tu ser adivino,
por saberte dudosa, por saberte imprecisa,
y porque nada esperas de Dios ni del destino.

Yo amo tu alma, sutil como un jirón de brisa,
y tu cuerpo estatuario, que son la ostia y el vino
con que consagro a Venus esta erótica misa.
Alan Eshban Jun 2017
El lampo que forman sus ojos al momento de apreciar tu mirada, es realmente hermoso, que ocupo algún artefacto para no caer en ceguera a causa de lagrimas, ya que es un brillo divino y Maravilloso, del que nadie puede relegar,
Al tempo de pasar a su lado el aroma que se percibe tan perfecto, que opaca hasta el petricor de los días lluviosos.
Entra en contexto, que antes de todo esto era solo una noche más, una noche más de las que el saber hacer es negativo, de las que se pensaba que fuera acabar igual, con solo un simple deseo, pero sin ningun hecho.
Pero todo cambió, todo cambio al momento de querer dar un giro y poder decirle lo que realemnte siento, fue como un sueño, el tomarla de la mano me demayaba por dentro, que todo parecía no ser real y en mi mente pensar que si fuese un sueño nunca terminar, en donde la platica resultó ser más de lo que se fuese a esperar, donde mis deseos se pudrieron por fin revelar.
Cuenta me doy que dios si escucho mis plegarias, cuenta me doy que todo el dolor por el que ella sufrir haya tenido una recompenza al final, espero que esto no sea un sueño repito y si es así amanecer nunca querre, ya que contento y feliz estoy así, y voy a vivir el momento aúnque tenga que morir.
Delante del Sol venía
Corriendo Dafne, doncella
De extremada gallardía,
Y en ir delante tan bella,
Nueva Aurora parecía.Cansado más de cansalla
Que de cansarse a sí Febo,
A la amorosa batalla
Quiso dar principio nuevo,
Para mejor alcanzalla.Mas viéndola tan cruel,
Dio mil gritos doloridos,
Contento el amante fiel
De que alcancen sus oídos
Las voces, ya que no él.Mas envidioso de ver
Que han de gozar gloria nueva
Las palabras en su ser,
Con el viento que las lleva
Quiso parejas correr.Pero su padre, celoso,
En su curso cristalino
Tras ella corrió furioso,
Y en medio de su camino
Los atajó sonoroso.El Sol corre por seguilla,
Por huir corre la estrella;
Corre el llanto por no vella,
Corre el aire por oílla,
Y el río por socorrella.Atrás los deja arrogante,
Y a su enamorado más,
Que ya, por llevar triunfante
Su honestidad adelante,
A todos los deja atrás.Mas viendo su movimiento,
Dio las razones que canto,
Con dolor y sin aliento,
Primero al correr del llanto
Y luego al volar del viento:«Di, ¿por qué mi dolor creces
Huyendo tanto de mí
En la muerte que me ofreces?
Si el Sol y luz aborreces,
Huye tú misma de ti.»No corras más, Dafne fiera,
Que en verte huir furiosa
De mí, que alumbro la Esfera,
Si no fueras tan hermosa,
Por la noche te tuviera.»Ojos que en esa beldad
Alumbráis con luces bellas
Su rostro y su crueldad,
Pues que Sois los dos estrellas,
Al Sol que os mira, mirad.»¡En mi triste padecer
Y en mi encendido querer,
Dafne bella, no sé cómo
Con tantas flechas de plomo
Puedes tan veloz correr!»Ya todo mi bien perdí;
Ya se acabaron mis bienes;
Pues hoy corriendo tras ti,
Aun mi corazón, que tienes,
Alas te da contra mí.»A su oreja esta razón,
Y a sus vestidos su mano,
Y de Dafne la oración,
A Júpiter soberano
Llegaron a una sazón.Sus plantas en sola una
De lauro se convirtieron;
Los dos brazos le crecieron,
Quejándose a la Fortuna
Con el ruido que hicieron.Escondióse en la corteza
La nieve del pecho helado,
Y la flor de su belleza
Dejó en la flor un traslado
Que al lauro presta riqueza.De la rubia cabellera
Que floreció tantos mayos,
Antes que se convirtiera,
Hebras tomó el Sol por rayos,
Con que hoy alumbra la esfera.Con mil abrazos ardientes,
Ciñó el tronco el Sol, y luego,
Con las memorias presentes,
Los rayos de luz y fuego
Desató en amargas fuentes.Con un honesto temblor,
Por rehusar sus abrazos,
Se quejó de su rigor,
Y aun quiso inclinar los brazos,
Por estorbarlos mejor.El aire desenvolvía
Sus hojas, y no hallando
Las hebras que ver solía,
Tristemente murmurando
Entre las ramas corría.El río, que esto miró,
Movido a piedad y llanto,
Con sus lágrimas creció,
Y a besar el pie llegó
Del árbol divino y santo.Y viendo caso tan tierno,
Digno de renombre eterno,
La reservó en aquel llano,
De sus rayos el Verano,
Y de su hielo el Invierno.
Ya el sol esconde sus rayos,
el mundo en sombras se vela,
el ave a su nido vuela.
Busca asilo el trovador.
Todo calla: en pobre cama
duerme el pastor venturoso:
en su lecho suntüoso
se agita insomme el señor.
Se agita; mas ¡ay! reposa
al fin en su patrio suelo;
no llora en mísero duelo
la libertad que perdió.
Los campos ve que a su infancia
horas dieron de contento,
su oído halaga el acento
del país donde nació.
No gime ilustre cautivo
entre doradas cadenas,
que si bien de encanto llenas,
al cabo cadenas son.
Si acaso, triste lamenta,
en torno ve a sus amigos,
que, de su pena testigos,
consuelan su corazón.
La arrogante erguida palma
que en el desierto florece,
al viajero sombra ofrece,
descanso y grato manjar.
Y, aunque sola, allí es querida
del árabe errante y fiero,
que siempre va placentero
a su sombra a reposar.
Mas ¡ay triste! yo cautiva,
huérfana y sola suspiro,
el clima extraño respiro,
y amo a un extraño también.
No hallan mis ojos mi patria;
humo han sido mis amores;
nadie calma mis dolores
y en celos me siento arder.
¡Ah! ¿Llorar? ¿Llorar?... no puedo
ni ceder a mi tristura,
ni consuelo en mi amargura
podré jamás encontrar.
Supe amar como ninguna,
supe amar correspondida;
despreciada, aborrecida,
¿no sabré también odiar?
¡Adiós, patria! ¡adiós, amores!
La infeliz Zoraida ahora
sólo venganzas implora,
ya condenada a morir.
No soy ya del castellano
la sumisa enamorada:
soy la cautiva cansada
ya de dejarse oprimir.
Acúsome de haber hecho
por mi vida y por mi arte
poca cosa de mi parte
y que no estoy satisfecho.
Porque si ardía en mi pecho
hoguera de inspiración,
ansia de dominación,
no debí darme vagar...
La corriente fue soñar
y trabajar la excepción.

La conciencia despiadada
cada vez que acomete
me enrostra mucho tapete,
mucho beso y mucha almohada.
Mucha hora disipada
en nervioso caminar
so pretexto de tomar
ora la luna, ora el sol;
mucho café, a lo español,
mucho reír, mucho hablar.

Sin embargo, estoy contento;
esta vida a la ventura
me ha dejado una frescura
de niño desnudo al viento.
Sólo yo sé cómo siento
la belleza universal:
el oro, rosa y cristal
que arma la aurora al nacer,
y el talle de una mujer,
todo el bien y todo el mal.
¡Ea! apretad esas cinchas
y apercibid los overos;
y que ya tasquen los potros
el bocado de los frenos.
Preparad las jabalinas,
poned traílla a los perros;
sonad las trompas de caza
y azores llevad dispuestos.
¿Ya estáis listos? Pues aprisa,
vamos al bosque siniestro.-Quien tal dice es un altivo,
noble y alto caballero
que, con sus alrededores,
tiene la comarca en feudo.
Es Don Pedro de Almendares,
el infanzón altanero
a quien, por lo valeroso,
ninguno venció en el duelo.
El que ha astillado sus lanzas
en las justas y torneos,
siempre sereno y triunfante,
sin temores ni recelos.Es Violante una doncella
con unos ojos muy negros,
con unos oscuros rizos
que cuando le caen sueltos
por la garganta blanquísima,
por la espalda y por el seno,
fingen en fondo de mármol
mallas finísimas de ébano.
Don Pedro adora a Violante
y Violante ama a Don Pedro;
y ambos gozan en deliquios
de ardorosos embelesos.Pero Violante, la hermosa,
se enciende en llamas de celos,
sin que nada de sus ansias
pueda aminorar el fuego.
La linda Violante busca
para sus males remedio,
y a un nigromante interroga
contándole sus secretos.
El nigromante medita;
y luego, fruncido el ceño,
busca en yerbas misteriosas
filtros; y ve los luceros;
y en caballísticos signos
quiere hallar el verdadero
modo de que sus retortas
puedan curar aquel pecho.
Por fin, después de lograr
descifrar aquel misterio,
y ya encontrada la clave
del enigma, dijo luego
a Violante: -Que el que os ama
os traiga el ala de un cuervo;
y con el oscuro copo
del suave plumaje *****,
podréis curar la dolencia,
llevándole junto al pecho.Por eso va en su corcel
el valeroso Don Pedro,
y con sus gentes al bosque,
con jaurías y pertrechos.
Ese es el bosque maldito,
ese es el bosque siniestro,
del que mil supersticiones
andan en boca del pueblo.
Con temor van caminando
ojeadores y monteros,
que a ese bosque nunca llegan
porque les ataja el miedo.
-Don Pedro, el bosque es terrible-.
...Don Pedro se ríe de eso;
que no teme ese hijodalgo
ni a los vivos ni a los muertos.
-Ese bosque está maldito.
-No importa-dice Don Pedro.
Y siguen andando, andando;
y ya están del bosque dentro;
y ya los toques de caza
repiten sonoros cuernos,
y van los genios del aire
desparramando los ecos.
Don Pedro no busca fieras
ni sigue la pista a ciervos,
ni a cerdosos jabalíes;
él busca un nido de cuervos.Iba la noche empezando;
el día iba oscureciendo;
cuando en un árbol robusto
medio destroncado y seco,
graznó un cuervo enorme echado
en unos grietosos huecos;
sus ojos fosforescentes,
su corvo pico entreabierto.Don Pedro fuese hacia él
afanoso ya y contento;
puso en comba un arco entonces,
y disparó... cuando el cuervo
como una flecha veloz
voló donde el caballero;
hincó en los hombros robustos
sus largas uñas de acero,
y con picotazos rápidos
le sacó los ojos negros...
Don Pedro dio un hondo grito,
mas mató al pájaro; y luego
le sacaron aterrados
servidores y pecheros
de aquel lugar tenebroso,
de en medio el bosque siniestro.
Fue al castillo de Violante,
con un ala entre sus dedos
del pájaro, y a la hermosa
le dijo: -Mira, estoy ciego;
por ti he perdido mis ojos
ángel de mis dulces sueños...
Yo llegué al bosque maldito
y me castigó el infierno.La niña miróle entonces
y le dijo: -Buen mancebo,
yo ya no puedo quererte:
primero, porque eres ciego;
y después, porque el de Alcántara,
noble señor extranjero,
pidió a mi padre mi mano
y nos casamos hoy mesmo.Dio un grito de horror terrible,
y tornado loco el ciego,
en carrera desatada,
fue tropezando y cayendo
por los bosques; y apretando
contra el dolorido pecho,
entre los puños crispados,
la espantosa ala del cuervo.
Estas que veis aquí pobres y escuras
ruinas desconocidas,
pues aun no dan señal de lo que fueron;
estas piadosas piedras más que duras,
pues del tiempo vencidas,
borradas de la edad, enmudecieron
letras en donde el caminante, junto,
leyó y pisó soberbias del difunto;
estos güesos, sin orden derramados,
que en polvo hazañas de la muerte escriben,
ellos fueron un tiempo venerados
en todo el cerco que los hombres viven.
Tuvo cetro temido
la mano, que aun no muestra haberlo sido;
sentidos y potencias habitaron
la cavidad que ves sola y desierta;
su seso altos negocios fatigaron;
¡y verla agora abierta,
palacio, cuando mucho, ciego y vano
para la ociosidad de vil gusano!
Y si tan bajo huésped no tuviere,
horror tendrá que dar al que la viere.
¡Oh muerte, cuánto mengua en tu medida
la gloria mentirosa de la vida!
Quien no cupo en la tierra al habitalla,
se busca en siete pies y no se halla.
Y hoy, al que pisó el oro por perderle,
mal agüero es pisarle, miedo verle.
Tú confiesas, severa, solamente
cuánto los reyes son, cuánto la gente.
No hay grandeza, hermosura, fuerza o arte
que se atreva a engañarte.
Mira esta majestad, que persuadida
tuvo a la eternidad la breve vida,
cómo aquí, en tu presencia,
hace en su confesión la penitencia.
Muere en ti todo cuanto se recibe,
y solamente en ti la verdad vive:
que el oro lisonjero siempre engaña,
alevoso tirano, al que acompaña.
¡Cuántos que en este mundo dieron leyes,
perdidos de sus altos monumentos,
entre surcos arados de los bueyes
se ven, y aquellas púrpuras que fueron!
Mirad aquí el terror a quien sirvieron:
respetó el mundo necio
lo que cubre la tierra con desprecio.
Ved el rincón estrecho que vivía
la alma en prisión obscura, y de la muerte
la piedad, si se advierte,
pues es merced la libertad que envía.
Id, pues, hombres mortales;
id, y dejaos llevar de la grandeza;
y émulos a los tronos celestiales,
vuestra naturaleza
desconoced, dad crédito al tesoro,
fundad vuestras soberbias en el oro;
cuéstele vuestra gula desbocada
su pueblo al mar, su habitación al viento.
Para vuestro contento
no críe el cielo cosa reservada,
y las armas continuas, por hacerlas
famosas y por gloria de vestirlas,
os maten más soldados con sufrirlas,
que enemigos después con padecerlas.
Solicitad los mares
para que no os escondan los lugares,
en donde, procelosos,
amparan la inocencia
de vuestra peregrina diligencia,
en parte religiosos.
Tierra que oro posea,
sin más razón, vuestra enemiga sea.
No sepan los dos polos playa alguna
que no os parle por ruegos la Fortuna.
Sirva la libertad de las naciones
al título ambicioso en los blasones;
que la muerte, advertida y veladora,
y recordada en el mayor olvido,
traída de la hora,
presta vendrá con paso enmudecido
y, herencia de gusanos,
hará la posesión de los tiranos.
Vivo en muerte lo muestra
este que frenó el mundo con la diestra;
acuérdase de todos su memoria;
ni por respeto dejará la gloria
de los reyes tiranos,
ni menos por desprecio a los villanos.
¡Qué no está predicando
aquel que tanto fue, y agora apenas
defiende la memoria de haber sido,
y en nuevas formas va peregrinando
del alta majestad que tuvo ajenas!
Reina en ti propio, tú que reinar quieres,
pues provincia mayor que el mundo eres.
Victor Marques Oct 2018
As estrelas brilham....

Já estou á procura de um novo dia,
Pelas as estrelas eu espero,
Sintonia eu vejo porque quero,
Sentinela do sul em eterna vigia...

Me perco nos zumbidos da noite apavorado,
Olho para o céu estrelado!
Me contento com tudo sem pedir nada,
Natureza morta e quase ofuscada....

As estrelas brilham na noite de quem quer,
Até parecem ser e ao mesmo tempo não ser,
Com olhos que até parecem nem querer dormir,
As observo com desejos de quem quer se redimir.

Elas estão todas entretidas e sempre cintilantes
Na noite são solidárias e muito brilhantes,
Parecem feitas para dar amor ao universo distante,
Mas beijando o mundo e suas gentes.


Victor Marques
Estrelas brilham
¡Oh qué gratas las horas de los tiempos lejanos
en que quiso la infancia regalarnos un cuento!
Dormida por centurias en un bosque opulento,
despertaste a la blanda caricia de mis manos.
Y después, sin que fueran los barbudos enanos
o las almas en pena a turbar el contento
del señorial palacio, en dulce arrobamiento
unimos nuestras vidas como buenos hermanos.
Hoy se ha roto el encanto: ya la Bella Durmiente
no eres tú; la ilusión de trinos musicales
se fue para otros climas, y pacíficamente
celebraré contigo mis regios esponsales,
al rendir el espíritu, de rostro hacia el poniente,
en la paz evangélica de los campos natales.
¡Quítenme aquesta puente que me mata,
señores regidores de la villa,
miren que me ha quebrado una costilla,
que aunque me viene grande me maltrata!De bola en bola tanto se dilata,
que no la alcanza a ver mi verde orilla;
mejor es que la lleven a Sevilla,
si cabe en el camino de la Plata.Pereciendo de sed en el estío,
es falsa la causal y el argumento
de que en las tempestades tengo brío.Pues yo con la mitad estoy contento,
tráiganle sus mercedes otro río
que le sirva de huésped de aposento.
un niño hunde la mano en su fiebre y saca astros que tira
al aire / y ninguno ve
yo tampoco los veo /
yo sólo veo un niño con fiebre que tiene los ojos
cerrados
y ve
animalitos que pasan por el cielo pacen en su temblor
yo no veo esos animalitos /
yo veo al niño que ve animalitos
y me pregunto por qué esto pasa hoy
¿pasaría otra cosa ayer? /
¿se sacaría el niño mucha pena
del alma ayer? / yo sólo sé que el niño tiene
fiebre
tiene el alma cerrada y la hunde
en las cenizas que dejará porque ardió
pero ¿es así? / ¿hunde su alma en las cenizas de
sí / un
árbol
mira detrás de la ventana al sol
hay sol /
detrás de la ventana hay un árbol en la calle
ahora por la calle pasa un niño con una mano en el bolsillo
del pantalón
está contento y saca la mano del bolsillo
abre la mano y suelta fiebres que ninguno ve
yo tampoco las veo /
yo sólo veo su palma abierta a la luz
y él / ¿qué ve?
¿ve bueyes que tiran del sol?
yo no sé nada /
no sé qué ve el niño de la mano en el
pantalón
ni el niño que tiene fiebre y ve los huesos del Atlántico
y los huesos de todos los mares revueltos en su corazón
yo no veo nada / no sé nada
ni sé en qué día nací /
conozco la fecha pero no el día en que nací
¿o ese día es este día en que muero por
enésima vez?
¿es este día en que todos los que han muerto
se vuelven a morir conmigo? / ¿o yo con ellos?
¿en esta luz dulcísima y abierta? /
¿y qué hace el niño con esta luz en su palma?
¿mientras todos trabajan para hacer dinero fuera de esta
luz?
¿encerrados afuera de esta luz que es imposible mirar sin
una luz adentro? /
¿sin un amor con pena adentro?
ahora pasan las cartas que nunca me escribiste
hijo / vos / que tanto nacés de esta luz /
tus cartas tienen fiebres de las que no sé nada
y nunca sabré nada /
parecen pajaritos que vuelan con su serenidad
astros que tiraste al aire y ninguno ve /
yo no los veo ni los ve mi dolor inseguro
pensabas en una vida más limpia que ésta
una vida que se podía lavar
tender al sol de tu bondad /
una vida llena de rostros como viajes
¿dónde están esos rostros / esos viajes?
la vida está desnuda como un mar sin orillas
y no puedo volver la vida atrás
llevarla hasta tu cuna
ni llevarla adelante /
yo soy menos real que la mesa donde como
yo como para ser real como el árbol detrás de la ventana
ahora un niño se le paró al lado /
saca la mano del bolsillo del pantalón
abre su palma a la luz
y piensa que la muerte es la muerte
y no más que eso
Lágrimas alquiladas del Contento
Lloran difunto al padre y al marido;
Y el perdido caudal ha merecido
Solamente verdad en el lamento.
Codicia, no razón ni entendimiento,
Gobierna los afectos del sentido:
Quien pierde hacienda dice que ha perdido,
No el que convierte en logro el monumento.
Los sacrosantos bultos adorados
Ven sus muslos raídos por el oro,
Sus barbas y cabellos arrancados.
Y el ser los Dioses masa de tesoro,
Los tiene al fuego y cuño condenados,
Y al Tonante fundido en Cisne y Toro.
Aquí, solo en la noche, ya es posible la muerte.
Morir es poca cosa si tu amor está lejos.
Puedo cerrar los ojos y apagar las estrellas.
Puedo cerrar los ojos y pensar que ya he muerto.
Puedo matar tu nombre pensando que no existes.
Ahora, solo en la noche, sé que todo lo puedo.
Puedo extender los brazos y morir en la sombra,
y sentir el tamaño del mundo en mi silencio.
Puedo cruzar los brazos mirándote desnuda,
y navegar por ríos que nacen en tu sueño.
Sé que todo lo puedo porque la noche es mía,
la gran noche que tiembla de un extraño deseo.
Sé que todo lo puedo, porque puedo olvidarte:
Sí. En esta sombra, solo, sé que todo lo puedo.
Y ya ves: me contento con cerrar bien los ojos
y apagar las estrellas y pensar que me he muerto.

— The End —