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Anon May 2014
Upon the loss of the dinosaurs, so plentiful,
Back in the land before time when life wasn’t so dull,
Tall trees, blue skies, green grasses, deep dark water,
Nature as it was meant to be, with volcanoes that couldn’t be hotter.

This was the world you lived in before it came to an end.
A meteor? A flood? Maybe. But obviously it was something you could not mend.
Velociraptor, T-Rex, Triceratops, you’re all gone.
A species once so valiant, nobody stood in their way, not one.

Shaping some of the animals we have today, dinosaurs are like, square one.
From a 40ft menace to a lone iguana, isn’t evolution fun?
The highlight of the prehistoric era,
If you think I’m awkward because of my enthusiasm for dinos, then call me Michael Cera.

Like a bad ending to a good movie,
Your demise was something that nobody wanted to see.
The world would be a better place with a dinosaur here and there.
Some people wouldn’t be a fan, but does it sound like I care?

I think every single dinosaur is badass,
Even the herbivores that only eat grass.
If you’re the type of person that’s glad dinosaurs are dead,
Then I wish it was YOU that was hit by the meteor instead.
my first dinosaur sonnet got me in trouble with my then english teacher. it was rough. so i wrote a second one.
¡Oh, Señor! yo en tu Cristo busqué un esposo que me quisiera;
le ofrendé mis quince años, mi **** núbil;
violó mi boca,
y por Él ha quedado mi faz de nácar como la cera,
mostrando palideces de viejo cirio bajo mi toca.

¡Mas Satán me persigue y es muy hermoso! Viene de fuera
y ofreciéndome el cáliz de la ignominia, me vuelve loca...
¡Oh, Señor!, no permitas que bese impío mi faz de cera,
que muestra palideces de viejo cirio bajo mi toca...

Ya en las sombras del coro cantar no puede mi voz austera
los litúrgicos salmos, mi alma está estéril como una roca;
mi virtud agoniza, mi fe sucumbe, Satán espera...
¡Oh, Señor!, no permitas que bese impío mi faz de cera,
que muestra palidez de viejo cirio bajo mi toca!
Tom Sutton Oct 2012
Please excuse my drivel of words as I ascertain my inexcusable lustless love life.
However,
humor me for a second…

But I’m looking for Miss Alabama Worley.
Mississippi Isabel,
**** it, Lady Macbeth would do.
That ***** knows crazy.
Where is the incomprehensible insufferable beast?
That will take my heart in one foul swipe and refuse
Me rest till I’ve given her lust the spearing of a hungry tribesman.
I want the lock and chain around my ***** because my naked vulnerability
Is hers for the taking.

Beat me,
Oh monstrosity of the bedroom
Let the blood drip as I lick your foot.
Indulge me with the endless sweat and tears of the night.
And **** me like a rock star
Till I taste the rubber.


Where is the whirlwind passion?
Love at first sight.
And not the giddy looks of something Michael Cera starred in.
I am talking tattoos on the first date,
Reckless marriage doomed by the 50 pound ring on her finger.
Put me in a ****** east end flat,
Let me starve because ******* is food for the brain,
And her ***** tastes delectable when I’m high.

**** my brother in our bed,
I never liked him anyway.
A best friend is a man who’s shared the same hole.
And trust me, we’re closer than ever.
You’ll be all I’ve got.
I’ll sleep on the couch and crawl back to you,
Because I'm wrong,
I am  always wrong.

Laugh at the scars on my wrists
Pity isn’t there for the taking.
Leave me shaking in the corners of my mind,
Let lust grow like anger and revenge
Let anger and revenge grow
When I go soft on you,
Put those cigarettes out on my chest,
And choke me; asphyxiate me from the inside out.
I want to burn in the hellish rapture
Betwixt your thighs.
******* fire in half an hour,
God knows where you got it from.
But those who care share, right?


But then,

Perhaps I’ll just end up like my parents,
Settle down with a nice girl.
A nice normal girl,
******* isn’t that bad I ‘spose.
tangshunzi Aug 2014
Un giorno zeppo -a - blocco pieno di matrimoni di Erich McVey è una buona giornata nei nostri libri .Il suo lavoro è arte .pura e semplice .Da Londra a New York e ora Southern California .stiamo approfondendo una vicenda che mescola la ariosa .bontà scoperta di mangiare all'aperto con fiori organici di Stacey Fitts e la vera bellezza della vecchia architettura spagnola di La Villa San Juan Capistrano .Tuffati nelle immagini di Erich .poi dare un'occhiata al film realizzato dalla moglie di talento .Amy McVey sotto .

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Da Sposa.Steven e mi è piaciuto molto l'idea di avere una sensazione organica naturale nel cuore antico di architettura California spagnola .La villa in San Juan Capistrano ( una città che ha una missione spagnola dal 1776 ) si adattano perfettamente l'immagine .Dal momento che il locale aveva tante bellezze naturali .( alberi .pietre.legno) ci wasnè ètanto che abiti da sera lunghi abbiamo bisogno di fare per far risplendere locale.La nostra visione finito per essere una sensazione di fresco.pulito e organico con tavoli in legno naturale e lenzuola di tela .

Ci sono una quantità illimitata di fai da te che una coppia può fare per il loro matrimonio .Noi didnè èvogliamo spendere troppo tempo su numerosi progettiècosì abbiamo fatto un paio di piccoli oggetti che hanno avuto pochissimo tempo



.
Le prime voci erano mano stenciled / cuscini dipinti .Abbiamo comprato alcuni grandi cuscini e le coperte in un materiale di tela di lino .Abbiamo poi stampato su varie frasi ( Mr. \u0026 Mrs. .10.12.13 .Amor che significa amore in spagnolo) in uno dei nostri font preferitièBombshell Pro .Questo è stato poi rintracciato sulla carta di cera che viene tagliato con un coltello X - acto .stirato sul cuscino e poi dipinto .Per un tocco in più .il signor cuscino aveva un farfallino messo su di esso e la signora aveva un fiore .

Il secondo reca alcuni dei nostri articoli di carta .Il mio computer marito esperto è in abiti da sera lunghi grado di creare carte di nome .i numeri di tavola .menu e tag coperta che hanno abbinato la nostra suite invito.Tutti gli articoli di carta stampata ha contribuito a mantenere bassi i costi dal momento che didnè èavere il nostro calligrafo loro fare ( 130 + articoli possono essere costosi ) .

Uno dei nostri elementi preferiti del matrimonio erano i fiori.Dato che c'era un sacco di bellezza naturale presso la sede.ci stavaè èbisogno di fare troppo per fiori .Abbiamo finito con verde fresco con i classici fiori bianchi e avorio .Rami di ulivo sono stati collocati sui tavoli come questi legami in stile California spagnola .

Un altro elemento preferito era tutti i pezzi di calligrafia che sono state diffuse in tutto il locale .Avevamo una bellissima Piantina .segni bar .guestbook .Thank You banner.legno segni signore e la signora presidente.e un segno di benvenuto .Ogni pezzo è stato completamente personalizzato per i nostri gustièanche fino alle allori dei font e foglie di olivo .Questi elementi sono quelli che terremo per sempre .Infatti.il nostro bar segno (che ha ciascuno dei nostri consigli cocktail firma ) viene visualizzato nella nostra cucina !Consigli

per le altre coppie : due cose .Primo : Alla fine della giornata .il giorno delle nozze è su di voi e la vostra sarà presto coniugeèuna celebrazione del vostro viaggio insieme attraverso la vita .Dopo la giornata è finita .tutti sono felici e le piccole cose donè èmateria .

Secondo: E ' estremamente importante scegliere un fotografo che siete entrambi a proprio agio.Durante il vostro matrimonio .questo è quello che siete ( probabilmente) trascorrere più tempo con .Poiché questo è un giorno molto nervoso per molti .sanno esattamente cosa fare per contribuire a calmare i nervi .Per noi .Erich McVey e Amy McVey erano marito e moglie team perfetto per noi .Ci siamo conosciuti su Skype ( come sono basate in Oregon) e sapevamo in pochi minuti che erano la nostra squadra .Dopo averli incontrati giù a Santa Barbara per la nostra sessione di fidanzamento solo solidificato che eravamo in ottime mani .

momento più memorabile : Eravamo seduti al nostro tavolo innamorato abiti da sposa stile impero e aveva la vista perfetta di tutti i nostri ospiti di mangiare.ridere e semplicemente divertirsi .Per vedere tutto quello che abbiamo immaginato veniamo insieme così perfettamente e guardare tutto l'amore e il flusso di felicità tutto intorno a noi è stata un'esperienza magica

Fotografia : Erich McVey | Fotografia: . Amy McVey | Planner: Michelle dalla villa di San Juan Capistrano |fiorista : Stacey Fitts | Abito da sposa: Victoria Nicole | Dolci : Jocelyn Jung con I Am The Caker | cancelleria : Alimentazione | Scarpe : Christian Louboutin | Gioielli : Pigment A San Diego | Rosticcerie : Iva Lees Catering | Hair \u0026 Makeup : 10.11 .Trucco | Calligraphy : Mon Voir ( Jenna Rainey ) | Scarpe sposo : Ted Baker | Sposi Abbigliamento: Hugo Boss | Nastro Su Profumo : Frou Frou Chic | Wedding Venue : Villa San Juan CapistranoErich McVey fotografia è un membro del nostro Little Black Book .Scopri come i membri sono scelti visitando la nostra pagina delle FAQ .Erich McVey Fotografia VIEW
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Organic Garden Affair a San Juan Capistrano_abiti da sposa vintage
Noche de cuatro lunas
y un solo árbol,
con una sola sombra
y un solo párajo.

Busco en mi carne las
huellas de tus labios.
El manantial besa al viento
sin tocarlo.

Llevo el No que me diste,
en la palma de la mano,
como un limón de cera
casi blanco.

Noche de cuatro lunas
y un solo árbol,
En la ***** de una aguja,
está mi amor ¡girando!
Cuido mi cuerpo moreno
como a un suntuoso marfil.
Cuido mi cuerpo moreno
para que de gracia lleno
sea del pie hasta el perfil.

Copa con vino de vida,
vaso con miel de pasión.
¡Copa con vino de vida,
y un ascua viva encendida
en lugar del corazón!

¡Oh, mi amante, te lo ofrendo
como un regalo de amor!
¡Oh, mi amante, te lo ofrendo
en el engarce estupendo
de mi chal multicolor!

Sangre-fuego, carne-cera,
olor a sol y a panal.
Sangre-fuego, carne-cera...
Te lo doy como si fuera
un raro bronce oriental!
Era su nombre Betsy y era de Ohio.
                                                       
Un día,
En que al azar vagaba por mi ruta sombría,
Los dos nos encontramos.  Y la quise por bella;
Después amé su alma, porque mi alma en ella
Vio una luz casta y blanca, vio piedad y ternura.

Jirón azul de cielo rompió mi noche oscura,
Y la luz de una estrella de fulgores risueños,
Hizo abrir la dormida floración de mis sueños.

¿Qué fuerza misteriosa la puso en mi camino?...
¿Fue una intuición secreta quizá de mi destino
La que a la senda suya llevó mi errante paso?
¿Fue casual ese encuentro?... ¿Fue presentido
acaso?
No lo sé... ni me importa.

                                                 
De raza puritana,
De aquella raza austera que a la costa britana,
Buscando hogar y patria, dijo adiós sin tristeza;
De los lagos del Norte rubia flor de belleza;
Los libros y la música su amada compañía,
Y esquiva a los arranques de ruidosa alegría;
Su flor dilecta, el lirio; mística en sus anhelos,
 -Palomas que sus alas tendían a los cielos;-
En contraste sus hábitos y su elación divina
Con todos los impulsos de mi raza latina;
De regiones distantes dos solitarias palmas,
¿Qué fuerza misteriosa juntó nuestras dos almas?
De su idioma, al principio, pocas frases sabía,
Mas mezclando palabras de su lengua y la mía,
Con versos que copiaba de antiguo Florilegio,
Y dísticos de Byron que aprendí en el Colegio,
Le dije muchas cosas... muchas, en el balneario
Donde por vez primera la vi.
                                              (Del solitario
Poeta fue la Musa desde entonces).

                                      Su gracia
Y atractiva belleza; su aire de aristocracia;
Su cabellera blonda, de un rubio veneciano,
Y su perfil de antiguo camafeo romano;
Sus ojos pensativos y de mirar risueño
Donde flotaba a veces el azul de un ensueño;
Sus mejillas rosadas como un durazno; el breve;
Esbelto busto, en donde tuvo vida la nieve;
Sus veinte años... ¡Qué hermosa primavera florida!
¡Todo en ella era un himno que cantaba la vida!
En bailes, en paseos, en la playa...  doquiera
De todos los galanes la preferida era.

Con su traje de lino, con su blanca sombrilla,
Con sus zapatos grises de reluciente hebilla,
Y el sombrero de paja con una cinta angosta,
Nunca se vio más bella mujer en esa costa.

Quiso aprender mi lengua: cambiábamos lecciones,
Y así fueron frecuentes nuestras conversaciones;
Hasta que al fin un día-mi alma de ella esclava,
-Le dije que era bella... muy bella y que la amaba.

Pasado ya el verano, adiós al mar dijimos,
Y en tren, expreso, todos a la ciudad volvimos.
Rodaban... y rodaban las hojas, desprendidas
En raudos torbellinos, por parques y avenidas;
Del ábrego se oían los resoplidos roncos,
Y entre brumas se alzaban casi escuetos  los troncos;
En las calles formaba la lluvia barrizales
Y eran soplos de invierno las brisas otoñales.
Rodaban... y rodaban las hojas. De ceniza
Parecía el crepúsculo con su niebla plomiza,
Y alzábase doliente la luna, en la gris y ancha
Lámina de los cielos, como amarilla mancha.

Con sombrero de plumas, sobretodo entallado,
Y traje azul oscuro, su rostro sonrosado
Era una nota viva y alegre, era un celaje
En la helada y sombría tristeza del paisaje.

«¡Qué triste es el otoño... qué triste!» me decía;
«Todo se está muriendo... todo está en la agonía,
Mas nuestro amor...»:

                                             
(De pronto cayó. Vivos sonrojos
La hicieron al instante bajar los castos ojos).
«También!» dije riendo, «cual todo lo que vuela».
Y reía... reía como alegre chicuela,
Porque su claro instinto de mujer le decía
Que la amaba y que nunca mi pasión moriría.

En bailes, en conciertos, en salones... doquiera

De todos los galanes la preferida era,
Y aunque su amor, a veces, riendo me negaba,
También reía, porque... sabía que me amaba.
Una tarde de invierno, cuando como un sudario
La nieve en albos copos, el parque solitario
Y las calles desiertas cubría; cuando el cielo
Era blanca mortaja; cuando espectros en duelo
Parecían los árboles quemados por el frío,
En un diván sentados, en el salón sombrío,
Junto a la chimenea que con su alegre y clara
Luz daba un vago tinte sonrosado a su cara,
Enjugando una lágrima silenciosa y furtiva,
«Me siento enferma y triste», me dijo pensativa.

Los aullidos del viento vibraban en la sombra...
Y se alejó. Y el roce de su traje en la alfombra
Me arrancó de mis sueños. Incliné la cabeza,
Y solo, y en silencio, quedé con mi tristeza.
Pasó el invierno.
                                     
El cielo fue todo resplandores;
El bosque, lira inmensa, y el campo, todo flores.
Y una tarde, su alcoba, después de muchos días,
Dejó por vez primera la enferma.
                                               
¡Oh, las sombrías
Noches en vela, noches de indecible martirio,
Noches interminables de fiebre y de delirio,
Cuando todos, henchidos de lágrimas los ojos,
Su vida amada al cielo pedíamos de hinojos,
Mientras que en el silencio de esa calma profunda
Se oía, delirando, su voz de moribunda!

Abierta la ventana que daba al parque, en ondas
De fragancia entró el aura susurrando.  Las frondas
De las viejas encinas sus más gratos rumores
Dieron en el crepúsculo.  Fue el triunfo de las flores
Sobre el verde sombrío de los boscajes.  Era
Una tarde rosada, tarde de primavera.

Envuelta en amplia bata de rojo terciopelo,
Suelta la cabellera, como un dorado velo,
Y en la pálida boca, pálida flor sin vida,
Una sonrisa casta, como estrella dormida,
Tendiéndome la mano, pero baja la frente,
Y esquivando los ojos, avanzó lentamente.

Unidas nuestras manos, a mi lado sentada,
Y un instante en mi hombro su frente reclinada,
Quedamos en silencio...

                                                   
¡Cuántas veces, de noche,
Lloroso, y en los labios el blasfemo reproche,
Desde ese mismo sitio sus quejidos oía,
Los ahogados quejidos de su larga agonía!
¡Cuántas veces a solas, cerca de esa ventana,
Me sorprendió sin sueño la luz de la mañana,
Mientras que de la Muerte, furtiva y en acecho,
Oíanse los pasos en torno de su lecho!...
De pronto alzó los ojos, llenos de honda dulzura,
Donde brillaba siempre su alma blanca y pura,
Y con su voz de arrullo, voz de celeste encanto,
-«Sé que lloraste... Gracias», me dijo, y rompió en llanto.

Por la abierta ventana soplos primaverales
La fragancia traían de los verdes rosales.

Luego al parque salimos.
                                                     
Su palidez de cera;
Sus pasos vacilantes al bajar la escalera,
Al andar, su cansancio; los círculos violados
En torno de las claras pupilas; los holgados
Pliegues de su vestido; la enfermiza blancura
De las manos; los dedos, en donde con holgura
Los anillos giraban; la tos, triste presagio
De que estaba marcada para el final naufragio
En la roca sombría de la Muerte; la lenta,
Triste voz; la dulzura de la faz macilenta,
Sus ahogados suspiros, plegarias de su anhelo,
-Plegarias sin palabras para un remoto cielo,-
Su laxitud... ¡Cuán pura, cuán ideal belleza,
Allí mis ojos vieron con su halo de tristeza!...
Y como presintiendo su eterna despedida
En ese dulce instante reconcentré mi vida
Y fue mi amor más grande, fue más intenso y fuerte
Al pensar que muy pronto sería de la Muerte!

Era música el vago rumor de la arboleda,
Y seguimos callados por la oscura alameda.

Al verla se agitaron en sus tallos las rosas;
Más aromas regaron las auras bulliciosas;
Entre arbustos tupidos y fragantes macetas
Asomaron sus ojos azules las violetas;
Todas las campanillas en el verde boscaje
Como que repicaron al ver su rojo traje;
Los pájaros miraban a la convaleciente,
Del parque solitario tantos días ausente;
Se oyeron en las frondas cual vagos cuchicheos,
Y al fin la alada orquesta preludió sus gorjeos
Los cisnes, como góndolas de alba plata bruñida
Enarcaron sus cuellos en el agua dormida
Y del sol a los tibios fulgures vesperales;
Destellaron las colas de los pavos reales.

«La vida es la tristeza», me dijo. «¡Todo anhelo
Del presente, mañana será amargura y duelo;
La vida es desencanto. Feliz creíme un día,
Y ya ves, cuan traidora la suerte y cuan impía!
Como flor, en mi pecho, se abría la Esperanza,
Y ya la desventura por mi camino avanza.
Lentamente mi vida se extingue. Triste, enferma,
¿A qué traer tus sueños a la sombría y yerma
Soledad de mi alma? ¿Para qué tu alegría
Trocar en amargura con mi lenta agonía?
Del árbol de la Vida fui pálido retoño,
Y me iré con las hojas marchitas del otoño;
Para toda esperanza ya soy despojo inerte...
Tú vas para la Vida... ¡yo voy hacia la Muerte!»

«Tus temores», le dije, «son de niña mimada;
Tú todo lo exageras...»

                                                   
En mi brazo apoyada
El parque abandonamos, y al subir la escalera
Parecía un crepúsculo su rubia cabellera.

Un día, para Ohio, tomó el tren.,.., ¡triste día!
Y alzando la vidriera, cuando el tren ya partía
De la Estación, me dijo:
                                             
«Te escribiré primero,
Pero escribe. Hasta pronto...  No olvides que te espero».
Y después.... en sus cartas decía:
                                                         
«Si vinieras,
¡Qué sorpresa la tuya! ¡Qué cambio...! ¡Si me vieras!
Las brisas de mi lago fueron auras de vida.
Razón tuviste. Ha vuelto la esperanza perdida.
Recuerdas? Tú decías: todo eso pronto pasa,
Y es verdad.  La alegría de nuevo está en mi casa.
Soy otra.... y soy la misma: tú entiendes.  Frescas rosas
Se abren en mis mejillas, que eran dos tuberosas.
(Bien sé que de esta frase burla harás con tu flema,
Mas no importa.  No es mía: la copié de un poema).
Hoy río, canto y juego como chiquilla. El piano,
Cerrado tanto tiempo, ya al roce de mi mano
Es música perenne.  Las viejas Melodías
¡Cómo evocan recuerdos de venturosos días!
Soy otra.... habrás de verlo.  Pasaron mis congojas,
¡Y creí que me iría con las marchitas hojas!».
Sueños de un alma casta... ¡Visión desvanecida!
Creyó en la Vida ... ¡Y pronto la traicionó la Vida!

Para siempre descansa del rigor de la suerte,
Con su velo de novia tejido por la Muerte,
Con todas sus quimeras, con todos sus anhelos,
Junto al nativo lago... bajo brumosos cielos.
Matt Cardinal Sep 2014
Where I'm from multicultural means multicultural and not just “lacking in white people”.

Where I'm from people say they're from Toronto even though they hate the Jays, Raptors and Leafs and hardly ever go into the city itself.

Where I'm from any day can be cynically mundane enough to read The Catcher In The Rye and mistake it for the Gospel according to Holden Caulfield.

Where I'm from everyone hates the mall, but everyone's a mall rat and if you ever go you see everyone, at least everyone you hate, and buy nothing.

Where I'm from there's signs that say “Flowertown” everywhere and an unremarkable amount of flowers. Unless there is a remarkable amount of flowers and where I'm from everyone's just spoiled.

Probably spoiled.

Where I'm from you could walk to Tim Horton's but you drive to Starbucks anyway.

Where I'm from everyone's considering a career in rap. Even the people who aren't considering a career in rap are considering a career in rap.

Where I'm from every teenager will tell you their Michael Cera encounter story.

Where I'm from is where he's from too, or he went to school there, or near there, or now his parents live near there. He's been there, multiple times, I'm sure.

Where I'm from there's an old quarry that everyone calls a lake now. Swimmers used to circulate the urban myth of a dead body at the bottom, until they found it. Now they just circulate the stale news story.

Where I'm from there used to be trees. Nature put some there until we cut them down to build. Then the  people put some there to accent the houses until Nature piled ice on them and cut them down again.

Where I'm from someone needs to have a good talk with this Nature fellow.

Where I'm from the brand new hospital screams, “good things come to those who wait, and wait and wait, unless you need to see a specialist. Then you're ******.”

Where I'm from there are streets that have so many young kids playing on them that ice cream trucks aren't allowed to go there. They go anyway.

Kids learn early that the law is optional where I'm from.

Where I'm from people don't pronounce the “gua” in “Chinguacousy Park”. Kids used to spend time there splashing around diluted *** in the kiddie pool in summer and tubing down the landfill mountain in winter. Now they just pass it by on the way to the mall.

Where I'm from car insurance costs more than cars because everyone's late, lost and angry, but none of them would call themselves a bad driver, just unlucky.

Where I'm from boys take pretty girls skating at Gage Park. I guess they take ugly girls there too, I just know the one I took was pretty.
Brampton, Ontario
Jason Cirkovic Feb 2014
I knew who you were the right one when you stepped into my life
you had your thick rimmed, non prescription glasses
that were way too big for your face and you secretly knew it
your apparel consisted of Urban outfitters,
your grandmother’s closet or
“cute things you found on amazon”
and the scarf in the middle of august means one thing,

you're a hipster!
You stand out like fireworks on the 3rd of July
No not because you are one of a kind,
It's just that you were 15 minutes late to my History class,
you don't follow time because you go to places when the “vibe is right”
you pulled out your Mac Book Air out of your satchel and you waved at me.

Okay now you are one of a kind
After class We started talking about the music we listen to.
and we listen to the same music
Which is the equivalent of finding the holy grail in your studio apartment in downtown Portland
where the air taste like that Caramel Macchiato that you had this morning.

We talked more out of class
We talked about Michael Cera movies,
and how anything with a filter looks better on instagram
and how she writes poetry with her vintage typewriter,
and the undeniable fact that you will never be proud of what you are.
H
I
P
S
T
E
R
One day after class, I was walking you to you bicycle
(you don't use a car because you like going on your own path)
and I found the courage to ask you out on a date,
you sat there puzzled  for a while and you said yes.

Later that night, I rode in my bicycle to your apartment as you hopped on your bike and we rode to a drive in theater, drank PBR, and loved every second of that moment.
When we stopped at your house
I held your hips and said, “lets fall in hipster love like Matt and Kim, I wanna see your Bright Eyes peer into the Pixels of our lives . I want you to see that
maybe a little Fleet Foxes and Bon Iver will make our lives a little Clearer
You bring the Modest Mouse out of me as it  crawls through my wall of lies
You make me wanna jump in a Passion Pit with The Nationals,”
and then I hugged you like a Grizzly Bear

You kissed me as it gave me wings to fly off to the back of my mind
and that honey is what  makes you one of a kind.
Chisto è 'o ritratto e chiste so' 'e capille:
na ciocca 'e seta nera avvellutata.
E cheste songo 'e llettere: cchiù 'e mille;
lettere 'e 'na guagliona nnammurata.
Ngiulina se chiammava sta figliola
ch'è stata 'a primma nnammurata mia.
Trent'anne sò passate... Mamma mia!

'A tengo nnanze a ll'uocchie, pare aiere:
vocca 'e curallo, 'na faccella 'e cera,
'nu paro d'uocchie verde, 'e cciglie nere,
senza russetto... semplice e sincera.

Teneva sidece anne e io diciotto.
Faceva 'a sartulella a 'o Chiatamone.
Scenneva d' 'a fatica 'mpunto ll'otto,
e mm'aspettava a me sotto 'o purtone.

Senza parlà, subbeto sotto 'o vraccio
nce pigliavemo e ghievemo a ffà ammore.
Vicino 'a casa soia, 'ncoppa Brancaccio,
parole doce e zucchero int' 'o core.

Mettennoce appuiate 'nfaccia 'o muro,
a musso a mmusso, tutt' e dduie abbracciate:
dint' 'a penombra 'e n' angulillo oscuro,
quanta suspire e vvase appassiunate!

'A tengo nnanze a ll'uocchie, pare aiere:
vocca 'e curallo, na faccella 'e cera;
nu paro d'uocchie verde, 'e cciglie nere,
senza russetto... semplice e sincera.
Cassiel Moore May 2012
Hay un dragón cera de mi corazón
There is a dragon by my heart
Quien hizo una noche una obra de arte
Who made one night a work of art
Sus palabras de miel todavía suenan en mis oídos
His words of honey still ring in my ear
Como si estuviera todavía aquí
As if he were near
A pesar de que hay un centenar de kilómetros de distancia
Though he’s a hundred miles away
Parte de el simper permancera
Part of him will always stay
Incrustado en mi piel
Imbeded in my skin
Todavía mi Corazón tiene que ganar
Still my heart he has to win
Este dragón es el guardián de mi luz
This dragon is the keeper of my light
A partir de un simple día que hizo en la noche
From a simple day he made into night
Que era la oportunidad que trajo este portero
It was chance that brought this keeper
En mi mente, esta hermosa criatura
Into my world, this beautiful creature
A mi dragón, tan cerca y tan lejos
My dragon, so close and yet so far
En mi corazón, que le dejo una cicatriz apasionada**
Upon my heart, he left a passionate scar
Hermosa como la estrella
De la alborada de mayo
Fue en Méjico hará dos siglos
Doña Ana María de Castro.

Ninguna logró excederle
En la elegancia y el garbo
Ni en los muchos atractivos
De su afable y fino trato.

Sus maneras insinuantes,
Su genio jovial y franco,
Su lenguaje clara muestra
De su instrucción y su rango:

Su talle esbelto y flexible,
Sus ojos como dos astros
Y las riquísimas joyas,
Con que esmaltó sus encantos.

La hicieron en todo tiempo
La más bella en el teatro,
La mejor por sus hechizos,
La primera en los aplausos.

Los atronadores vivas,
Los gritos del entusiasmo
Siempre oyó, noche por noche,
Al pisar el escenario.

En canciones, en comedias,
En sacramentales autos,
Ninguna le excedió en gracia,
Ni le disputó los lauros.

Doña Ana entre bastidores
Era de orgullo tan alto,
Que a todos sus compañeros
Trató como a sus lacayos.

Las maliciosas hablillas,
Los terribles comentarios,
Los epigramas agudos
Y los rumores más falsos,

Siempre tuvieron origen
Según el vulgo, en su cuarto,
Centro fijo en cada noche
De los jóvenes más guapos.

Allí en torno de una mesa
Se charlaba sin descanso,
Sin escrúpulos ni coto
De lo bueno y de lo malo.

Si la gazmoña chicuela
Del marqués, ama a Fulano,
Y si éste le guiña el ojo
Escondido en algún palco;

Si la esposa de un marino
Mira con afán extraño
Al alabardero Azunza
Que de algún noble está al lado;

Si el Virrey fijó sus ojos
Con interés en el patio,
Como en busca de un amigo
Que subiera a acompañarlo,

Sobre el último alboroto
De tal calle y de tal barrio
Con alguaciles, corchetes
Mujerzuelas y soldados

La actriz, risueña y festiva
Oyendo tales relatos,
A todos daba respuestas
Como experta en cada caso.

Algunos por conquistarse
Su pasión más que su agrado,
Sin lograr sus esperanzas
Grandes sumas se gastaron;

Otros con menos fortuna
Sólo anhelaban su trato
Viviendo como satélites
En derredor de aquel astro.

Ana, radiante de gloria,
Miraba con desenfado
A los opulentos nobles
Que eclipsara con su encanto.

Y en la sociedad más alta
Censuraban su descaro
Creyéndola una perdida,
Foco de vicios y escándalos.

Mas no hay crónica que ponga
Tan duros juicios en claro,
Ni nos diga que a ninguno
Se rindió por los regalos.

Ella protegió conquistas
De sus amigos más francos,
Y quizá empujó al abismo
A los galanes incautos.

Astuta e inteligente
Guardó en su amor tal recato
Que tan valioso secreto
No han descubierto los años.

Se habla de un Virrey
Que estuvo de doña Ana enamorado,
Mas la historia no lo afirma
Ni puedo yo asegurarlo.

Mujer hermosa y ardiente,
De genio y en el teatro,
Por la calumnia y la envidia
Tuvo medidos sus pasos.
Por sabias disposiciones
Dictadas con gran acierto
Las actrices habitaban
Muy cerca del coliseo.

Este se alzó por entonces
Entre el callejón estrecho
Que del Espíritu Santo
Llamamos en nuestro tiempo,

Y la calle de la Acequia,
En los solares extensos
Que hoy las gentes denominan
Calle del Coliseo Viejo.

Y cerca, en vecina calle,
Que por tener un colegio
Destinado a las doncellas
«De las niñas» llama el pueblo,

Las artistas del teatro
Buscaron sus aposentos,
Y de las Damas llamóse
A tal motivo aludiendo.

Una noche gran tumulto
Turbó del barrio el sosiego,
A los más graves vecinos
Levantando de sus lechos;

Los jóvenes elegantes
Formando corrillo inmenso,
Seguidos de gente alegre
Y poco amiga del sueño,

A la puerta de una casa
Su carrera detuvieron
Acompañando sus trovas
Con sonoros instrumentos

-«Serenata a la de Castro»,
Dijo al mirarlos un viejo.
-¿Y por qué así la celebran?
Preguntó un mozo indiscreto.

-¡Cómo por qué! dijo alguno;
El Virrey loco se ha vuelto
Y prendado de la dama
Ordena tales festejos.

-¿El Virrey?-Así lo dicen.
-¡El Virrey! -Ni más ni menos;
Y allí cantan edecanes,
Corchetes y alabarderos.
-¿Será posible ?
-Miradlos...
-¡Qué locuras!
-Y ¡qué tiempos!
-Los oidores están sordos.
-Al menos están durmiendo.
-¡Turbar en tan altas horas
La soledad y el silencio!
¡Y alarmar a los que viven
Con recato en los conventos!

-¡Y por una mujerzuela!
-¡Una farsanta que ha puesto,
Como a Job, a tantos ricos
Que están limosna pidiendo!

-¿Y la Inquisición? -Se calla.
-¿Y la mitra? -¿Y el Gobierno?
-Doña Ana domina a todos
Con su horrible desenfreno.

-¿Y es hermosa? -Cual ninguna.
-¿Joven? -¡Y de gran talento!
-Y con dos ojos que vierten
Las llamas del mismo infierno.

-Con razón con sus hechizos
Vuelve locos a los viejos.
-El Virrey no es un anciano.
-Ni tampoco un arrapiezo.

-Pero escuchad lo que dicen
Cantando esos bullangueros.
-Es el descaro más grande
Tal cosa decir en verso.

Y al compás de la guitarra
Vibraba claro el acento
De un doncel que así decía
En obscura capa envuelto:

-«¡Sal a tu balcón, señora,
Que por mirarte me muero,
Piensa en que por ver tus gracias
El trono y la corte dejo».

-Más claro no canta un gallo.
-Y todos lo estáis oyendo.
El Virrey deja su trono
Por buscar a la... ¡Silencio!

-¡Cómo está la Nueva España!
-¡Pobre colonia! -Me atrevo
A decir que no se ha visto
Cosa igual en todo el reino.

Y los del corro cantaban,
Y al fin todos aplaudieron
Al mirar que la de Castro
A su balcón salió luego.

-«¡Vivan la luz y la gracia,
La sandunga y el salero!»
-«Ya asomó el sol en oriente».
-«¡Ya el alba tiñó los cielos!»

Y doña Ana agradecida
Buscando a todos un premio,
Llevó la mano a los labios
Y al grupo le arrojó un beso.

Creció el escándalo entonces
Rayó en locura el contento
Y volaron por los aires
Las capas y los sombreros,

Cerró su balcón la dama,
Apagáronse los ecos,
Dispersáronse las gentes
Y todo quedó en silencio
Con grande asombro se supo,
Trascurridas dos semanas
Desde aquella escandalosa
Aunque alegre serenata,

Que las glorias de la escena,
Los laureles de la fama,
El brillo y los oropeles
De la carrera dramática,

Por inexplicable cambio,
Por repentina mudanza,
Sin reserva y sin esfuerzo
Todo dejaba doña Ana.

Y alguno de los que saben
Cuanto en los hogares pasa
Y que exploran con cautela
Los secretos de las almas,

Dijo a todos los amigos
De artista tan celebrada
Que un sermón del Viernes Santo
Era de todo la causa.

El padre Matías Conchoso,
Cuya elocuente palabra
Los más duros corazones
Convirtiera en cera blanda,

Al ver entre su auditorio
A tan arrogante dama
Atrayéndose en el templo
De los hombres las miradas,

Habló de lo falso y breves
Que son las glorias mundanas;
De los mortales pecados
De los que viven en farsas;

De los escándalos graves
Que a la sociedad alarma
Cuando una actriz sin recato
Incautos pechos inflama;

Y con tan vivos colores
Pintó la muerte y sus ansias
Y al infierno perdurable
Que al pecador se prepara;

Que la de Castro, temblando,
Cayó al punto desmayada
Con el hechicero rostro
Bañado en ardientes lágrimas.

Sacáronla de aquel templo,
Condujéronla a su casa,
Y temiendo que muriera
Fueron a sacramentarla.

Cuando cesaron sus males,
Y estuvo en su juicio y sana,
En señal de penitencia
Resolvió dejar las tablas;

Y vendió trajes y joyas;
Y las sumas que dejaran
Se las entregó a la Iglesia
De su nuevo voto en aras.

Entró después de novicia
Y su conducta sin mancha
Y su piedad y su empeño
Por vivir estando en gracia,

Abreviaron sus afanes,
La dieron consuelo y calma
Y tomó el hábito y nunca
El mundo volvió a mirarla.

Fueron tales sus virtudes
Y sus hechos de enclaustrada,
Que cuentan los que lo saben
Que murió en olor de santa.

Por muchos años miróse
La celda pequeña y blanca
Que ocupó en Regina Coeli
La memorable doña Ana.

Y aun se conservan los muros
De la antigua estrecha casa
En que vivió aquella artista
En la «Calle de las Damas».

Pasó, dejando animosa
Riqueza, aplausos y fama,
Del escenario a la celda
¡Por la salvación del alma!
Ian Beckett Nov 2012
Yo te amo abiertamente
pero tu no puedes ver esto
por que tu estas buscando
en la dirección equivocada
solo dá la vuelta ahora
y tu verás.


te amo en silencio
pero tu no puedes oir esto
por que tu estas escuchando
en la sordera del silencio
escucha nuestro amor ahora
y tu oirás.


yo te amo completamente
pero tu no puedes sentir esto
por que tú estas tocando
algunas veces la tristeza
sosténme mas cera ahora
y tu  sentirás.
Equivocar el camino
es llegar a la nieve
y llegar a la nieve
es pacer durante veinte siglos las hierbas de los cementerios.

Equivocar el camino
es llegar a la mujer,
la mujer que no teme la luz,
la mujer que no teme a los gallos
y los gallos que no saben cantar sobre la nieve.

Pero si la nieve se equivoca de corazón
puede llegar el viento Austro
y como el aire no hace caso de los gemidos
tendremos que pacer otra vez las hierbas de los cementerios.

Yo vi dos dolorosas espigas de cera
que enterraban un paisaje de volcanes
y vi dos niños locos que empujaban llorando las pupilas de un asesino.

Pero el dos no ha sido nunca un número
porque es una angustia y su sombra,
porque es la guitarra donde el amor se desespera,
porque es la demostración de otro infinito que no es suyo
y es las murallas del muerto
y el castigo de la nueva resurrección sin finales.
Los muertos odian el número dos,
pero el número dos adormece a las mujeres
y como la mujer teme la luz
la luz tiembla delante de los gallos
y los gallos sólo saben votar sobre la nieve
tendremos que pacer sin descanso las hierbas de los cementerios.
Los caballos negros son.
Las herraduras son negras.
Sobre las capas relucen
manchas de tinta y de cera.
Tienen, por eso no lloran,
de plomo las calaveras.
Con el alma de charol
vienen por la carretera.
Jorobados y nocturnos,
por donde animan ordenan
silencios de goma oscura
y miedos de fina arena.
Pasan, si quieren pasar,
y ocultan en la cabeza
una vaga astronomía
de pistolas inconcretas.

¡Oh ciudad de los gitanos!
En las esquinas banderas.
La luna y la calabaza
con las guindas en conserva.
¡Oh ciudad de los gitanos!
¿Quién te vió y no te recuerda?
Ciudad de dolor y almizcle,
con las torres de canela.

Cuando llegaba la noche,
noche que noche nochera,
los gitanos en sus fraguas
forjaban soles y flechas.
Un caballo malherido,
llamaba a todas las puertas.
Gallos de vidrio cantaban
por Jerez de la Frontera.
El viento, vuelve desnudo
la esquina de la sorpresa,
en la noche platinoche
noche, que noche nochera.

La Virgen y San José
perdieron sus castañuelas,
y buscan a los gitanos
para ver si las encuentran.
La Virgen viene vestida
con un traje de alcaldesa,
de papel de chocolate
con los collares de almendras.
San José mueve los brazos
bajo una capa de seda.
Detrás va Pedro Domecq
con tres sultanes de Persia.
La media luna, soñaba
un éxtasis de cigüeña.
Estandartes y faroles
invaden las azoteas.
Por los espejos sollozan
bailarinas sin caderas.
Agua y sombra, sombra y agua
por Jerez de la Frontera.

¡Oh ciudad de los gitanos!
En las esquinas banderas.
Apaga tus verdes luces
que viene la benemérita.
¡Oh ciudad de los gitanos!
¿Quién te vio y no te recuerda?
Dejadla lejos del mar,
sin peines para sus crenchas.

Avanzan de dos en fondo
a la ciudad de la fiesta.
Un rumor de siemprevivas
invade las cartucheras.
Avanzan de dos en fondo.
Doble nocturno de tela.
El cielo, se les antoja,
una vitrina de espuelas.

La ciudad libre de miedo,
multiplicaba sus puertas.
Cuarenta guardias civiles
entran a saco por ellas.
Los relojes se pararon,
y el coñac de las botellas
se disfrazó de noviembre
para no infundir sospechas.
Un vuelo de gritos largos
se levantó en las veletas.
Los sables cortan las brisas
que los cascos atropellan.
Por las calles de penumbra
huyen las gitanas viejas
con los caballos dormidos
y las orzas de monedas.
Por las calles empinadas
suben las capas siniestras,
dejando detrás fugaces
remolinos de tijeras.
En el portal de Belén
los gitanos se congregan.
San José, lleno de heridas,
amortaja a una doncella.
Tercos fusiles agudos
por toda la noche suenan.
La Virgen cura a los niños
con salivilla de estrella.
Pero la Guardia Civil
avanza sembrando hogueras,
donde joven y desnuda
la imaginación se quema.
Rosa la de los Camborios,
gime sentada en su puerta
con sus dos pechos cortados
puestos en una bandeja.
Y otras muchachas corrían
perseguidas por sus trenzas,
en un aire donde estallan
rosas de pólvora negra.
Cuando todos los tejados
eran surcos en la tierra,
el alba meció sus hombros
en largo perfil de piedra.

¡Oh, ciudad de los gitanos!
La Guardia Civil se aleja
por un túnel de silencio
mientras las llamas te cercan.

¡Oh, ciudad de los gitanos!
¿Quién te vio y no te recuerda?
Que te busquen en mi frente.
juego de luna y arena.
Del centro puro que los ruidos nunca
atravesaron, de la intacta cera,
salen claros relámpagos lineales,
palomas con destino de volutas,
hacia tardías calles con olor
a sombra y a pescado.

Son las venas del apio! Son la espuma, la risa,
los sombreros del apio!
Son los signos del apio, su sabor
de luciérnaga, sus mapas
de color inundado,
y cae su cabeza de ángel verde,
y sus delgados rizos se acongojan,
y entran los pies del apio en los mercados
de la mañana herida, entre sollozos,
y se cierran las puertas a su paso.
y los dulces caballos se arrodillan.

Sus pies cortados van, sus ojos verdes
van derramados, para siempre hundidos
en ellos los secretos y las gotas:
los túneles del mar de donde emergen,
las escaleras que el apio aconseja,
las desdichadas sombras sumergidas,
las determinaciones en el centro del aire,
los besos en el fondo de las piedras.

A medianoche, con manos mojadas,
alguien golpea mi puerta en la niebla,
y oigo la voz del apio, voz profunda,
áspera voz de viento encarcelado,
se queja herido de aguas y raíces,
hunde en mi cama sus amargos rayos,
y sus desordenadas tijeras me pegan en el pecho
buscándome la boca del corazón ahogado.

Qué quieres, huésped de corsé quebradizo,
en mis habitaciones funerales?
Qué ámbito destrozado te rodea?

Fibras de oscuridad y luz llorando,
ribetes ciegos, energías crespas,
río de vida y hebras esenciales,
verdes ramas de sol acariciado,
aquí estoy, en la noche, escuchando secretos,
desvelos, soledades,
y entráis, en medio de la niebla hundida,
hasta crecer en mí, hasta comunicarme
la luz oscura y la rosa de la tierra.
Hoy, este día fue una copa plena,
hoy, este día fue la inmensa ola,
hoy, fue toda la tierra.

Hoy el mar tempestuoso
nos levantó en un beso
tan alto que temblamos
a la luz de un relámpago
y, atados, descendimos
a sumergirnos sin desenlazamos.

Hoy nuestros cuerpos se hicieron extensos,
crecieron hasta el límite del mundo
y rodaron fundiéndose
en una sola gota
de cera o meteoro.

Entre tú y yo se abrió una nueva puerta
y alguien, sin rostro aún,
allí nos esperaba.
A la cálida vida que transcurre canora
con garbo de mujer sin letras ni antifaces,
a la invicta belleza que salva y que enamora,
responde, en la embriaguez de la encantada hora,
un encono de hormigas en mis venas voraces.
Fustigan el desmán del perenne hormigueo
el pozo del silencio y el enjambre del ruido,
la harina rebanada como doble trofeo
en los fértiles bustos, el Infierno en que creo,
el estertor final y el preludio del nido.
Mas luego mis hormigas me negarán su abrazo
y han de huir de mis pobres y trabajados dedos
cual se olvida en la arena un gélido bagazo;
y tu boca, que es cifra de eróticos denuedos,
tu boca, que es mi rúbrica, mi manjar y mi adorno,
tu boca, en que la lengua vibra asomada al mundo
como réproba llama saliéndose de un horno,
en una turbia fecha de cierzo gemebundo
en que ronde la luna porque robarte quiera,
ha de oler a sudario y a hierba machacada,
a droga y a responso, a pabilo y a cera.
Antes de que deserten mis hormigas, Amada,
déjalas caminar camino de tu boca
a que apuren los viáticos del sanguinario fruto
que desde sarracenos oasis me provoca.
Antes de que tus labios mueran, para mi luto,
dámelos en el crítico umbral del cementerio
como perfume y pan y tósigo y cauterio.
Alto soy de mirar a las palmeras,
rudo de convivir con las montañas...
Yo me vi bajo y blando en las aceras
de una ciudad espléndida de arañas.
Difíciles barrancos de escaleras,
calladas cataratas de ascensores,
¡qué impresión de vacío!,
ocupaban el puesto de mis flores,
los aires de mis aires y mi río.

Yo vi lo más notable de lo mío
llevado del demonio, y Dios ausente.
Yo te tuve en el lejos del olvido,
aldea, huerto, fuente
en que me vi al descuido:
huerto, donde me hallé la mejor vida,
aldea, donde al aire y libremente,
en una paz meé larga y tendida.

Pero volví en seguida
mi atención a las puras existencias
de mi retiro hacia mi ausencia atento,
y todas sus ausencias
me llenaron de luz el pensamiento.

Iba mi pie sin tierra, ¡qué tormento!,
vacilando en la cera de los pisos,
con un temor continuo, un sobresalto,
que aumentaban los timbres, los avisos,
las alarmas, los hombres y el asfalto.
¡Alto!, ¡Alto!, ¡Alto!, ¡Alto!
¡Orden!, ¡Orden! ¡Qué altiva
imposición del orden una mano,
un color, un sonido!
Mi cualidad visiva,
¡ay!, perdía el sentido.

Topado por mil senos, embestido
por más de mil peligros, tentaciones,
mecánicas jaurías,
me seguían lujurias y claxones,
deseos y tranvías.

¡Cuánto labio de púrpuras teatrales,
exageradamente pecadores!
¡Cuánto vocabulario de cristales,
al frenesí llevando los colores
en una pugna, en una competencia
de originalidad y de excelencia!
¡Qué confusión! ¡Babel de las babeles!
¡Gran ciudad!: ¡gran demontre!: ¡gran puñeta!
¡el mundo sobre rieles,
y su desequilibrio en bicicleta!

Los vicios desdentados, las ancianas
echándose en las canas rosicleres,
infamia de las canas,
y aun buscando sin tuétano placeres.
Árboles, como locos, enjaulados:
Alamedas, jardines
para destuetanarse el mundo; y lados
de creación ultrajada por orines.

Huele el macho a jazmines,
y menos lo que es todo parece
la hembra oliendo a cuadra y podredumbre.

¡Ay, cómo empequeñece
andar metido en esta muchedumbre!
¡Ay!, ¿dónde está mi cumbre,
mi pureza, y el valle del sesteo
de mi ganado aquel y su pastura?

Y miro, y sólo veo
velocidad de vicio y de locura.
Todo eléctrico: todo de momento.
Nada serenidad, paz recogida.
Eléctrica la luz, la voz, el viento,
y eléctrica la vida.
Todo electricidad: todo presteza
eléctrica: la flor y la sonrisa,
el orden, la belleza,
la canción y la prisa.
Nada es por voluntad de ser, por gana,
por vocación de ser. ¿Qué hacéis las cosas
de Dios aquí: la nube, la manzana,
el borrico, las piedras y las rosas?
¡Rascacielos!: ¡qué risa!: ¡rascaleches!
¡Qué presunción los manda hasta el retiro
de Dios! ¿Cuándo será, Señor, que eches
tanta soberbia abajo de un suspiro?
¡Ascensores!: ¡qué rabia!  A ver, ¿cuál sube
a la talla de un monte y sobrepasa
el perfil de una nube,
o el cardo, que de místico se abrasa
en la serrana gracia de la altura?
¡Metro!: ¡qué noche oscura
para el suicidio del que desespera!:
¡qué subterránea y vasta gusanera,
donde se cata y zumba
la labor y el secreto de la tumba!
¡Asfalto!: ¡qué impiedad para mi planta!
¡Ay, qué de menos echa
el tacto de mi pie mundos de arcilla
cuyo contacto imanta,
paisajes de cosecha,
caricias y tropiezos de semilla!

¡Ay, no encuentro, no encuentro
la plenitud del mundo en este centro!
En los naranjos dulces de mi río,
asombros de oro en estas latitudes,
oh ciudad cojitranca, desvarío,
sólo abarca mi mano plenitudes.
No concuerdo con todas estas cosas
de escaparate y de bisutería:
entre sus variedades procelosas,
es la persona mía,
como el árbol, un triste anacronismo.
Y el triste de mí mismo,
sale por su alegría,
que se quedó en el mayo de mi huerto,
de este urbano bullicio
donde no estoy de mí seguro cierto,
y es pormayor la vida como el vicio.

He medio boquiabierto
la soledad cerrada de mi huerto.
He regado las plantas:
las de mis pies impuras y otras santas,
en la sequía breve de mi ausencia
por nadie reemplazada. Se derrama,
rogándome asistencia,
el limonero al suelo, ya cansino,
de tanto agrio picudo.
En el miembro desnudo de una rama,
se le ve al ave el trino
recóndito, desnudo.

Aquí la vida es pormenor: hormiga,
muerte, cariño, pena,
piedra, horizonte, río, luz, espiga,
vidrio, surco y arena.
Aquí está la basura
en las calles, y no en los corazones.
Aquí todo se sabe y se murmura:
No puede haber oculta la criatura
mala, y menos las malas intenciones.

Nace un niño, y entera
la madre a todo el mundo del contorno.
Hay pimentón tendido en la ladera,
hay pan dentro del horno,
y el olor llena el ámbito, rebasa
los límites del marco de las puertas,
penetra en toda la casa
y panifica el aire de las huertas.

Con una paz de aceite derramado,
enciende el río un lado y otro lado
de su imposible, por eterna, huida.
Como una miel muy lenta destilada,
por la serenidad de su caída
sube la luz a las palmeras: cada
palmera se disputa
la soledad suprema de los vientos,
la delicada gloria de la fruta
y la supremacía
de la elegancia de los movimientos
en la más venturosa geografía.

Está el agua que trina de tan fría
en la pila y la alberca
donde aprendí a nadar. Están los pavos,
la Navidad se acerca,
explotando de broma en los tapiales,
con los desplantes y los gestos bravos
y las barbas con ramos de corales.
Las venas manantiales
de mi pozo serrano
me dan, en el pozal que les envío,
pureza y lustración para la mano,
para la tierra seca amor y frío.

Haciendo el hortelano,
hoy en este solaz de regadío
de mi huerto me quedo.
No quiero más ciudad, que me reduce
su visión, y su mundo me da miedo.

¡Cómo el limón reluce
encima de mi frente y la descansa!
¡Cómo apunta en el cruce
de la luz y la tierra el lilio puro!
Se combate la pita, y se remansa
el perejil en un aparte oscuro.
Hay az'har, ¡qué osadía de la nieve!
y estamos en diciembre, que hasta enero,
a oler, lucir y porfiar se atreve
en el alrededor del limonero.

Lo que haya de venir, aquí lo espero
cultivando el romero y la pobreza.
Aquí de nuevo empieza
el orden, se reanuda
el reposo, por yerros alterado,
mi vida humilde, y por humilde, muda.
Y Dios dirá, que está siempre callado.
saige Aug 2019
Thanks to that velveteen tone he
saves for me
And his turpentine diction,
The cliches that made my eyes roll
Now make my heart rush

Nonetheless, my thoughts riot as follows...

(When urged to call him something cheery
something no smile can wane at
like that fleck of gold in his left iris)
Well, "sunshine" should suffice
And Latin for that equals
"Apricitas"
Which phoneticized equals
"Opry cheetahs"
So the obvious endearment here is
Opry

(When urged to call him something pure
perhaps upon watching him blink
or blush
or blow
cigarette ringlets away from babies)
"Snowflake"?
No, that's a slang for ***** these days
So, "raindrop"
Yes
If Latin is dead,
It sure knows how to haunt me
"Gutta imbrium"
Ember
My little ember
The only glow in all this charcoal

(When urged to call him something pretty
when he's brushing his hair
or allowing me to arrange red clovers
in his sideburns)
Hm, let's testdrive "moonlight"
Let's shift into Latin, "luna lumen"
Thus the nickname I bite back is
Lulu

/Lulu/
While I hear darlings and dearies
on the daily
Why must I fail to mirror him?

(When urged to call him something sweet
like the butterscotch kisses he whispers
into my knuckles)
Like a honeycomb
Or as Ceasar would say, "cera mel"
Close enough?
Caramel?
Carousel?
Dizzy, then

We spin
In silence

(When urged to call him something cute
with his cap on sideways
and his head in my lap
and the world at my heels)
Kitten
Catalus
Catapult
Half of that backwards might as well be
Tulip
Two lips
Two tongues
Too much, yet never enough of his
Smoke bomb pomegranate mouth

For heaven's sake, see?
That's why I kiss instead of speak
Los últimos vencejos revolean
en torno al campanario;
los niños gritan, saltan, se pelean.
En su rincón, Martín el solitario.

¡La tarde, casi noche, polvorienta,
la algazara infantil, y el vocerío,
a la par de sus doce en sus cincuenta!   ¡Oh alma plena y espíritu vacío,
ante la turbia hoguera
con llama restallante de raíces,
fogata de frontera
que ilumina las hondas cicatrices!   Quien se vive se pierde, Abel decía.
¡Oh distancia, distancia!, que la estrella
que nadie toca, guía.
¿Quién navegó sin ella?
Distancia para el ojo -¡oh lueñe nave!-,
ausencia al corazón empedernido,
y bálsamo suave
con la miel del amor, sagrado olvido.
¡Oh gran saber del cero, del maduro
fruto sabor que sólo el hombre gusta,
agua de sueño, manantial oscuro,
sombra divina de la mano augusta!
Antes me llegue, si me llega, el Día,
la luz que ve, increada,
ahógame esta mala gritería,
Señor, con las esencias de tu Nada.   El ángel que sabía
su secreto salió a Martín al paso.
Martín le dio el dinero que tenía.
¿Piedad?  Tal vez. ¿Miedo al chantaje?  Acaso.
Aquella noche fría
supo Martín de soledad; pensaba
que Dios no le veía,
y en su mundo desierto caminaba.   Y vio la musa esquiva,
de pie junto a su lecho, la enlutada,
la dama de sus calles, fugitiva,
la imposible al amor y siempre amada.
Díjole Abel: Señora,
por ansia de tu cara descubierta,
he pensado vivir hacia la aurora
hasta sentir mi sangre casi yerta.
Hoy sé que no eres tú quien yo creía;
mas te quiero mirar y agradecerte
lo mucho que me hiciste compañía
con tu frío desdén.
                  Quiso la muerte
sonreír a Martín, y no sabía.   Viví, dormí, soñé y hasta he creado
-pensó Martín, ya turbia la pupila-
un hombre que vigila
el sueño, algo mejor que lo soñado.
Mas si un igual destino
aguarda al soñador y al vigilante,
a quien trazó caminos,
y a quien siguió caminos, jadeante,
al fin, sólo es creación tu pura nada,
tu sombra de gigante,
el divino cegar de tu mirada.   Y sucedió a la angustia la fatiga,
que siente su esperar desesperado,
la sed que el agua clara no mitiga,
la amargura del tiempo envenenado.
¡Esta lira de muerte!
                      Abel palpaba
su cuerpo enflaquecido.
¿El que todo lo ve no le miraba?
¡Y esta pereza, sangre del olvido!
¡Oh, sálvame Señor!
                    Su vida entera,
su historia irremediable aparecía
escrita en blanda cera.
¿Y ha de borrarte el sol del nuevo día?
Abel tendió su mano
hacia la luz bermeja
de una caliente aurora de verano,
ya en el balcón de su morada vieja.
Ciego, pidió la luz que no veía.
Luego llevó, sereno,
el limpio vaso, hasta su boca fría,
de pura sombra -¡oh pura sombra!- lleno.
No he podido dormir. Esta noche
            Me ha sido negada
            La gracia sencilla
            Del sueño habitual.
En un zumo de lirios morados
Se anegan mis ojos sombríos y largos
Y en un zumo amarillo de cera,
O de vara de nardo marchita,
Se han ahogado las llamas rosadas
Que coloran la piel de mis labios.

Si me pongo recta, cruzadas las manos,
            La boca estrujada,
Abrochados los párpados lacios,
            Parezco una muerta.
El insomnio taladra mis sienes
Con sus siete clavos de vigilia ácida.
Y retoñan, retoñan deseos.
¿Dónde se halla, Señor, el amante
Que mis finos cabellos peinaba,
Con sus manos morenas que olían
A mazos de trigo y a ramo de dalias?
En mi lecho, que es nata de linos,
Su vacío lugar mana angustia.
Y en el blanco mantel de las sábanas.

            Me agito intranquila
Como un haz de culebras trenzadas
            Que el látigo rojo
Del insomnio implacable fustiga.

No sentir... No pensar... Mas ahora,
¿Qué imprevista dulzura ha llegado
A sentarse a los pies de mi cama?
A mis párpados largos parece
Que una venda de bronce desciende
Y mis manos nerviosas se aquietan
En cruzado ademán de reposo.
No sentir... No pensar... ¿Es el sueño,
O eres tú, monja,negra, que llaman
            Los hombres, la Muerte?
B E Cults Nov 2018
the things you write
are so sappy.

that is not to say I do not
mind drowning in their
stickiness.

you should leave them in the sun
and see what happens.

remember when you played
that role in that one movie
about the end of the world?

that is how I feel when I
stay up drinking and reading
poetry by people who I will
never meet.

call it what you want.

I'll be reading in the
poetry section.
this is by no means a critique of this man's poetry. it is good. really ******* good. this is just the ramblings of drunk magician without a stage...
Al fin, una pulmonía
mató a don *****, y están
las campanas todo el día
doblando por él: ¡din-dan!Murió don *****, un señor
de mozo muy jaranero,
muy galán y algo torero;
de viejo, gran rezador.Dicen que tuvo un serrallo
este señor de Sevilla;
que era diestro
en manejar el caballo
y un maestro
en refrescar manzanilla.Cuando mermó su riqueza,
era su monomanía
pensar que pensar debía
en asentar la cabeza.Y asentóla
de una manera española,
que fue casarse con una
doncella de gran fortuna;
y repintar sus blasones,
hablar de las tradiciones
de su casa,
escándalos y amoríos
poner tasa,
sordina a sus desvaríos.Gran pagano,
se hizo hermano
de una santa cofradía;
el Jueves Santo salía,
llevando un cirio en la mano
-¡aquel trueno!-,
vestido de nazareno.
Hoy nos dice la campana
que han de llevarse mañana
al buen don *****, muy serio,
camino del cementerio.Buen don *****, ya eres ido
y para siempre jamás...
Alguien dirá: ¿Qué dejaste?
Yo pregunto: ¿Qué llevaste
al mundo donde hoy estás?¿Tu amor a los alamares
y a las sedas y a los oros,
y a la sangre de los toros
y al humo de los altares?Buen don ***** y equipaje,
¡buen viaje!...
El acá
y el allá,
caballero,
se ve en tu rostro marchito,
lo infinito:
cero, cero.¡Oh las enjutas mejillas,
amarillas,
y los párpados de cera,
y la fina calavera
en la almohada del lecho!
¡Oh fin de una aristocracia!
La barba canosa y lacia
sobre el pecho; 
metido en tosco sayal,
las yertas manos en cruz,
¡tan formal!
el caballero andaluz.
Naciones de la tierra, patrias del mar, hermanos
del mundo y de la nada:
habitantes perdidos y lejanos
más que del corazón, de la mirada.

Aquí tengo una voz enardecida,
aquí tengo un vida combatida y airada,
aquí tengo un rumor, aquí tengo una vida.

Abierto estoy, mirad, como una herida.
Hundido estoy, mirad, estoy hundido
en medio de mi pueblo y de sus males.
Herido voy, herido y malherido,
sangrando por trincheras y hospitales.

Hombres, mundos, naciones,
atended, escuchad mi sangrante sonido,
recoged mis latidos de quebranto
en vuestros espaciosos corazones,
porque yo empuño el alma cuando canto.

Cantando me defiendo
y defiendo mi pueblo cuando en mi pueblo imprimen
su herradura de pólvora y estruendo
los bárbaros del crimen.

Esta es su obra, esta:
pasan, arrasan como torbellinos,
y son ante su cólera funesta
armas los horizontes y muerte los caminos.

El llanto que por valles y balcones se vierte,
en las piedras diluvia y en las piedras trabaja,
y no hay espacio para tanta muerte,
y no hay madera para tanta caja.

Caravanas de cuerpos abatidos.
Todo vendajes, penas y pañuelos:
todo camillas donde a los heridos
se les quiebran las fuerzas y los vuelos.

Sangre, sangre por árboles y suelos,
sangre por aguas, sangre por paredes.
y un temor de que España se desplome
del peso de la sangre que moja entre sus redes
hasta el pan que se come.

Recoged este viento,
naciones, hombres, mundos,
que parte de las bocas de conmovido aliento
y de los hospitales moribundos.

Aplicad las orejas
a mi clamor de pueblo atropellado,
al ¡ay! de tantas madres, a las quejas
de tanto ser luciente que el luto ha devorado.

Los pechos que empujaban y herían las montañas,
vedlos desfallecidos sin leche ni hermosura,
y ved las blancas novias y las negras pestañas
caídas y sumidas en una siesta oscura.

Aplicad la pasión de las entrañas
a este pueblo que muere con un gesto invencible
sembrado por los labios y la frente,
bajo los implacables aeroplanos
que arrebatan terrible,
terrible, ignominiosa, diariamente,
a las madres los hijos de las manos.

Ciudades de trabajo y de inocencia,
juventudes que brotan de la encina,
troncos de bronce, cuerpos de potencia
yacen precipitados en la ruina.

Un porvenir de polvo se avecina,
se avecina un suceso
en que no quedará ninguna cosa:
ni piedra sobre piedra ni hueso sobre hueso.

España no es España, que es una inmensa fosa,
que es un gran cementerio rojo y bombardeado:
los bárbaros la quieren de este modo.

Será la tierra un denso corazón desolado,
si vosotros, naciones, hombres, mundos,
con mi pueblo del todo
y vuestro pueblo encima del costado,
no quebráis los colmillos iracundos.
Pero no lo será: que un mar piafante,
triunfante siempre, siempre decidido,
hecho para la luz, para la hazaña,
agita su cabeza de rebelde diamante,
bate su pie calzado en el sonido
por todos los cadáveres de España.

Es una juventud: recoged este viento.
Su sangre es el cristal que no se empaña,
su sombrero el laurel y su pedernal su aliento.

Donde clava la fuerza de sus dientes
brota un volcán de diáfanas espadas,
y sus hombros batientes,
y sus talones guían llamaradas.

Está compuesta de hombres del trabajo:
de herreros rojos, de albos albañiles,
de yunteros con rostro de cosechas.
Oceánicamente transcurren por debajo
de un fragor de sirenas y herramientas fabriles
y de gigantes arcos alumbrados con flechas.

A pesar de la muerte, estos varones
con metal y relámpagos igual que los escudos,
hacen retroceder a los cañones
acobardados, temblorosos, mudos.

El polvo no los puede y hacen del polvo fuego,
savia, explosión, verdura repentina:
con su poder de abril apasionado
precipitan el alma del espliego,
el parto de la mina,
el fértil movimiento del arado.

Ellos harán de cada ruina un prado,
de cada pena un fruto de alegría,
de España un firmamento de hermosura.
Vedlos agigantar el mediodía
y hermosearlo todo con su joven bravura.

Se merecen la espuma de los truenos,
se merecen la vida y el olor del olivo,
los españoles amplios y serenos
que mueven la mirada como un pájaro altivo.

Naciones, hombres, mundos, esto escribo:
la juventud de España saldrá de las trincheras
de pie, invencible como la semilla,
pues tiene un alma llena de banderas
que jamás se somete ni arrodilla.

Allá van por los yermos de Castilla
los cuerpos que parecen potros batalladores,
toros de victorioso desenlace,
diciéndose en su sangre de generosas flores
que morir es la cosa más grande que se hace.

Quedarán en el tiempo vencedores,
siempre de sol y majestad cubiertos,
los guerreros de huesos tan gallardos
que si son muertos son gallardos muertos:
la juventud que a España salvará, aunque tuviera
que combatir con un fusil de nardos
y una espada de cera.
O mamma, o mammina, hai stirato
la nuova camicia di lino?
Non c'era laggiù tra il bucato,
sul bossolo o sul biancospino.
Su gli occhi tu tieni le mani...
Perché? Non lo sai che domani...?
din don dan, din don dan.
Si parlano i bianchi villaggi
cantando in un lume di rosa:
dell'ombra dè monti selvaggi
si sente una romba festosa.
Tu tieni a gli orecchi le mani...
tu piangi; ed è festa domani...
din don dan, din don dan.
Tu pensi... Oh! Ricordo: la pieve...
quanti anni ora sono? Una sera...
il ***** era freddo, di neve;
il ***** era bianco, di cera:
allora sonò la campana
(perché non pareva lontana? )
din don dan, din don dan.
Sonavano a festa, come ora,
per l'angiolo; il nuovo angioletto
nel cielo volava a quell'ora;
ma tu lo volevi al tuo petto,
con noi, nella piccola zana:
gridavi; e lassù la campana...
din don dan, din don dan.
Suetonio en este campo, risueño y florecido,
vivió. Vecina a Tíbar, su quinta sólo un muro
conserva aún, en medio de las viñas, y oscuro
y cubierto de pámpanos un arco derruido.

Aquí, lejos de Roma, de sus pompas y ruido,
cada otoño, del cielo al último azul puro,
a vendimiar venía su viñedo maduro.
Monótona, tranquila, su vida aquí ha corrido.

Fueron en esta calma, de pastoril encanto,
Nerón, Claudio y Calígula obsesión de su mente,
y errando Mesalina bajo purpúreo manto;

y aquí, con férrea ***** que la pasión caldea,
en la cera implacable arañando paciente,
grabó los negros ocios del viejo de Caprea.
Naranjo en maceta, ¡qué triste es tu suerte!
Medrosas tiritan tus hojas menguadas.
Naranjo en la corte, ¡qué pena da verte
con tus naranjitas secas y arrugadas!       Pobre limonero de fruto amarillo
cual pomo pulido de pálida cera,
¡qué pena mirarte, mísero arbolillo
criado en mezquino tonel de madera!       De los claros bosques de la Andalucía,
¿quién os trajo a esta castellana tierra
que barren los vientos de la adusta sierra,
hijos de los campos de la tierra mía?       ¡Gloria de los huertos, árbol limonero,
que enciendes los frutos de pálido oro,
y alumbras del ***** cipresal austero
las quietas plegarias erguidas en coro;       y fresco naranjo del patio querido,
del campo risueño y el huerto soñado,
siempre en mi recuerdo maduro o florido
de frondas y aromas y frutos cargado!
Bob Wax Dec 2019
sleeping in til nine
put contacts in the wrong eye
outside getting rained in
listeing to micheal cera palin

different cold the wet and dark
the body and soul drift apart
coworker said "running late"
no need to worry, there is no hate

o how happy i am again
o so happy my friends
im doing just fine
on my daily grind

feeling out my insides
there's been a lot to realize
just trying to figure this soul out
acting like a **** fool, no doubt

always check the left
never been right i guess
born not normal in the right place
been left to find out, im a disgrace

all because my hands are southpaw
it's become my greatest flaw
not something i can change
not something i want to change
first four, setting, first point of conflict. second four, the body and mind separate. (rest follows the pattern set in second four.) third four, body is talking about delights in my current physical grind, for which i draw a lot of pleasure. fourth four, mind is talking learning about myself, and recalling previous embarrassments (growth). fifth four, body is talking about how i get confused and check for the L made on my left hand, pattern goes LRRL, sometimes i feel like the earth is made to easy for right handed people, and i therefore do not belong. sixth four, mind is talking, (realization and resolution. please reread once or twice and give me some feedback!
O dolce usignolo che ascolto
(non sai dove), in questa gran pace
cantare cantare tra il folto,
là, dei sanguini e delle acace;
t'** presa - perdona, usignolo -
una dolce nota, sol una,
ch'io canto tra me, solo solo,
nella sera, al lume di luna.
E pare una tremula bolla
tra l'odore acuto del fieno,
un molle gorgoglio di polla,
un lontano fischio di treno...
Chi passa, al morire del giorno,
ch'ode un fischio lungo laggiù
riprende nel cuore il ritorno
verso quello che non è più.
Si trova al nativo villaggio,
vi ritrova quello che c'era:
l'odore di mesi-di-maggio
buon odor di rose e di cera.
Ne ronzano le litanie,
come l'api intorno una culla:
ci sono due voci sì pie!
Di sua madre e d'una fanciulla.
Poi fatto silenzio, pian piano,
nella nota mia, che t'** presa,
risente squillare il lontano
campanello della sua chiesa.
Riprende l'antica preghiera,
ch'ora ora non ha perché;
si trova con quello che c'era,
ch'ora ora ora non c'è...
Chi sono? Non chiederlo. Io piango,
ma di notte, perch'** vergogna.
O alato, io qui vivo nel fango.
Sono un gramo rospo che sogna.
Tengo na 'nnammurata
ca è tutt' 'a vita mia.
Mo tene sittant'anne, povera mamma mia!
Cu chella faccia 'e cera,
sotto 'e capille janche,
me pare na sant'Anna
cu ll'uocchie triste e stanche.
Me legge dint' 'o penziero,
me guarda e m'anduvina
si tengo nu dulore
si tengo quacche spina...
Memoria soy del más famoso pecho
Que el Tiempo de sí mismo vio triunfante;
En mí podrás, oh amigo caminante,
Un rato descansar del largo trecho.

Lluvias de ojos mortales me han deshecho,
Que la lástima pudo en un instante
Volverme cera, yo que fui diamante,
De tales prendas monumento estrecho.

Estas armas, vïudas de su dueño,
Que visten con funesta valentía
Este, si humilde, venturoso leño,

De Virïato son; él las vestía,
Hasta que aquí durmió el postrero sueño
En que privado fue del blanco día.
Los últimos vencejos revolean
en torno al campanario;
los niños gritan, saltan, se pelean.
En su rincón, Martín el solitario.

¡La tarde, casi noche, polvorienta,
la algazara infantil, y el vocerío,
a la par de sus doce en sus cincuenta!   ¡Oh alma plena y espíritu vacío,
ante la turbia hoguera
con llama restallante de raíces,
fogata de frontera
que ilumina las hondas cicatrices!   Quien se vive se pierde, Abel decía.
¡Oh distancia, distancia!, que la estrella
que nadie toca, guía.
¿Quién navegó sin ella?
Distancia para el ojo -¡oh lueñe nave!-,
ausencia al corazón empedernido,
y bálsamo suave
con la miel del amor, sagrado olvido.
¡Oh gran saber del cero, del maduro
fruto sabor que sólo el hombre gusta,
agua de sueño, manantial oscuro,
sombra divina de la mano augusta!
Antes me llegue, si me llega, el Día,
la luz que ve, increada,
ahógame esta mala gritería,
Señor, con las esencias de tu Nada.   El ángel que sabía
su secreto salió a Martín al paso.
Martín le dio el dinero que tenía.
¿Piedad?  Tal vez. ¿Miedo al chantaje?  Acaso.
Aquella noche fría
supo Martín de soledad; pensaba
que Dios no le veía,
y en su mundo desierto caminaba.   Y vio la musa esquiva,
de pie junto a su lecho, la enlutada,
la dama de sus calles, fugitiva,
la imposible al amor y siempre amada.
Díjole Abel: Señora,
por ansia de tu cara descubierta,
he pensado vivir hacia la aurora
hasta sentir mi sangre casi yerta.
Hoy sé que no eres tú quien yo creía;
mas te quiero mirar y agradecerte
lo mucho que me hiciste compañía
con tu frío desdén.
                  Quiso la muerte
sonreír a Martín, y no sabía.   Viví, dormí, soñé y hasta he creado
-pensó Martín, ya turbia la pupila-
un hombre que vigila
el sueño, algo mejor que lo soñado.
Mas si un igual destino
aguarda al soñador y al vigilante,
a quien trazó caminos,
y a quien siguió caminos, jadeante,
al fin, sólo es creación tu pura nada,
tu sombra de gigante,
el divino cegar de tu mirada.   Y sucedió a la angustia la fatiga,
que siente su esperar desesperado,
la sed que el agua clara no mitiga,
la amargura del tiempo envenenado.
¡Esta lira de muerte!
                      Abel palpaba
su cuerpo enflaquecido.
¿El que todo lo ve no le miraba?
¡Y esta pereza, sangre del olvido!
¡Oh, sálvame Señor!
                    Su vida entera,
su historia irremediable aparecía
escrita en blanda cera.
¿Y ha de borrarte el sol del nuevo día?
Abel tendió su mano
hacia la luz bermeja
de una caliente aurora de verano,
ya en el balcón de su morada vieja.
Ciego, pidió la luz que no veía.
Luego llevó, sereno,
el limpio vaso, hasta su boca fría,
de pura sombra -¡oh pura sombra!- lleno.
En estos hiperbólicos minutos
en que la vida sube por mi pecho
como una marea de tributos
onerosos, la plétora de vida
se resuelve en renuncia capital
y en miedo se liquida.
Mi sufrimiento es como un gravamen
de rencor, y mi dicha como cera
que se derrite siempre en jubileos,
y hasta mi mismo amor es como un tósigo
que en la raíz del corazón prospera.
Cobardemente clamo, desde el centro
de mis intensidades corrosivas,
a mi parroquia, el ave moderada,
a la flor quieta y a las aguas vivas.
Yo quisiera acogerme a la mesura,
a la estricta conciencia y al recato
de aquellas cosas que me hicieron bien...
Anticuados relojes del Curato
cuyas pesas de cobre
se retardaban, con intención pura,
por aplazarme indefinidamente
la primera amargura.
Obesidad de aquellas lunas que iban
rodando, dormilonas y coquetas,
por un absorto azul
sobre los árboles de las banquetas.
Fatiga incierta de un incierto piano
en que un tema llorón se decantaba,
con insomnio y desgano,
en favor del obtuso centinela
y contra la salud del hortelano.
Santos de piedra que en el atrio exponen
su casulla de piedra a la herejía
del recio temporal.
Garganta criolla de Carmen García
que mandaba su canto hasta las calles
envueltas en perfume vegetal.
Cromos bobalicones,
colgados por estímulo a la mesa,
y que muestran sandías y viandas
con exageraciones
pictóricas; exánimes gallinas,
y conejos en quienes no hizo sangre
lo comedido de los perdigones.
Canteras cuyo vértice poroso
destila el agua, con paciente escrúpulo,
en el monjil reposo
del comedor, a cada golpe neto
con que las gotas, simples y tardías,
acrecen el caudal noches y días.
Acudo a la justicia original
de todas estas cosas;
mas en mi pecho siguen germinando
las plantas venenosas,
y mi violento espíritu se halla
nostálgico de sus jaculatorias
y del pío metal de su medalla.
Era una noche
De primavera,
Azul el cielo,
La luna en llena,
Abajo flores,
Arriba estrellas,
Mi hogar completo,
Yo, muy contenta,
Y tú, mi amante,
Junto a mi puerta,
De pie esperaste
La cita aquella;
Cita en que hiciste
Tantas promesas,
Y en que, rendida
De pasión ciega,
Te di en un beso
Mi vida entera.
Lo que dijimos
Dicho se queda:
Amor sin nube,
Constancia eterna.
Unir las almas,
Callar las penas,
Y al fin juntarnos
Sobre la tierra,
Sin romper nunca
Nuestras cadenas...
Una casita
Blanca y modesta,
Único adorno
De una pradera;
Con fuentes claras,
Con flores nuevas,
Con dulces nidos
De aves parleras;
Y allí jugando
Las horas muertas
Dos angelitos
Que hermanos fueran:
Frente muy blanca,
Rubias cabezas,
Labios de rosa,
Pupilas negras...
-Calla y no sigas,
Que me atormentas.
Alma del alma,
¡Qué bien te acuerdas!
Era una noche
De enero, eterna:
El aire helado,
Las aves yertas,
Las fuentes mudas.
Las flores secas,
Mi nogar muy triste,
Mi madre muerta,
Y en torno suyo
La blanca cera
Lanzando débil
Su luz siniestra;
Y yo, velando
Con honda pena,
Oí en la torre
Sonar muy lentas
Las campanadas,
Que un tiempo fueran
Las escogidas
Con dicha inmensa
Para cumplirnos
La cita aquella;
Cita en que hiciste
Tantas promesas,
Y en que, rendida
De pasión trémula,
Te di en un beso
La vida entera...
¿Por qué olvidaste
Mi pasión ciega?
¿Por qué no vuelves?
¿Por qué te ausentas?
¿Por qué borraste
Dichas tan tiernas,
Cual borra el viento
Sobre la arena
Del caminante
La débil huella?
¡Viví tan sola!
¡Sola y enferma!
Con negros duelos,
Con horas negras,
Sin más familia
Que mis tristezas...
¡Ay! recordando
La noche aquella
En que dijiste
Cosas tan tiernas:
Que me adorabas,
Que en tu conciencia
Era mi imagen
La sola reina;
Y la casita
Con flores nuevas,
Con fuentes claras,
Y aves parleras;
Y aquellos niños
De faz serena,
Con frentes blancas,
Rubias cabezas,
Labios de rosa,
Pupilas negras...
-Calla y no sigas,
Que me atormentas.
Alma del alma,
¡Qué bien te acuerdas!
Un niño muerto en la cuna
La madre llorando al pie;
Por la ventana se ve
Llegar a ocaso la luna.

En la pobre habitación
Brilla escasa y tenue luz
Debajo de negra cruz,
Emblema de redención.

La madre se desespera,
Y junta, besando al niño,
A lo blanco del armiño
La palidez de la cera.

A un tiempo se queja y ora
A un tiempo duda y suspira;
Le habla, lo toca, lo mira,
Pronuncia su nombre y llora.

A veces, «¿Por qué te vas?»
Pregunta con hondo empeño,
Y a veces dice: «¡Es un sueño!
Ya pronto despertarás».

Y mirando al niño yerto,
Exclama en su desvarío:
«¡Qué sosegado y que frío!
¡Si parece que está muerto!»

Y con esta ilusión vana,
Que encarna allí su fortuna,
Parece junto a la cuna
Un ángel en forma humana.

Oye un coro resonar
Que dulces voces derrama:
«¡Son los ángeles», exclama;
»Se lo vienen a llevar!»

Y al ver los rojos destellos
Que bajan del niño en pos,
Agrega: «Te alumbra Dios
El camino: ¡ve con ellos!»

«Sí, Dios te llama, alma mía»...
Y el rostro al del niño junta,
Y se desmaya; y despunta
Allá por Oriente el día.

¡Todo es luz, vida y belleza
En torno de aquel dolor!
¡Y hay quien llame con amor
Madre a la naturaleza!
Éramos aturdidos mozalbetes:
blanco listón al codo, ayes agónicos,
rimas atolondradas y juguetes.
Sin la virtud frenética de Orfeo,
fiados en la campánula y el cirio,
fuimos a embelesar las alimañas
cual neófitos que buscan el martirio.
En la misma espesura se extraviaba
la primeriza luz de nuestra frente,
y ante la misma fiera, reacia y sorda,
cesaba nuestro cántico inocente.
De aquella planta que regamos juntos
eran cofrades la senil vihuela,
los pupitres manchados de la escuela,
la bíblica muchacha que adoraste,
los días uniformes, el contraste
de un volumen de Bécquer y Fabiola,
la soprano indeleble que aún nos mima
con el ahínco de su voz pretérita,
y el prístino lucero que te indujo
al apurado trance de la rima.

¿Qué hicimos, camarada, del tanteo
feliz y de los ripios venturosos,
y de aquel entusiasta deletreo?

Hoy la armonía adulta va de viaje
a reclamar a una centuria prófuga
el vellón de su casto aprendizaje.

Mi maquinal dolencia es una caja
de música falible que en lo gris
de un tácito aposento se desgaja.

Y el alma, cera ayer, se petrifica
como los rosetones coloniales
de una iglesia con lama, que complica
su fachada borrosa con el humo
inveterado de los temporales.
Cuando estés vieja, niña (Ronsard ya te lo dijo),
te acordarás de aquellos versos que yo decía.
Tendrás los senos tristes de amamantar tus hijos,
los últimos retoños de tu vida vacía...

Yo estaré tan lejano que tus manos de cera
ararán el recuerdo de mis ruinas desnudas.
Comprenderás que puede nevar en primavera
y que en la primavera las nieves son más crudas.

Yo estaré tan lejano que el amor y la pena
que antes vacié en tu vida como un ánfora plena
estarán condenados a morir en mis manos...

Y será tarde porque se fue mi adolescencia,
tarde porque las flores una vez dan esencia
y porque aunque me llames yo estaré tan lejano...
Esta noche estoy solo, es primavera, y llueve,
y barajo el recuerdo como un viejo tahúr...
Loco rey de una noche predominante y breve,
sólo he sido la sombra de una nube en la nieve
o el temblor de una espiga bajo el viento del sur.

Amar era mi anhelo, pero amé demasiado,
sin que me engrandeciera jamás un gran amor...
Y ahora están resurgiendo las mujeres que he amado,
melancólicamente, del fondo del pasado,
y yo cierro los ojos, para verlas mejor.

Ellas supieron darme la eternidad de un día,
la gloria de una noche llena de amanecer;
y eran ofrendas vanas que yo no agradecía,
evaporados vinos de una copa vacía
que iba de mano en mano, de mujer en mujer.

Todas fueron princesas en la magia de un cuento;
todas fueron mendigas de un agrio despertar...
Y ahora ya nadie escucha mi acento descontento,
porque soy como un buque batido por el viento,
que se quedó sin velas en la orilla del mar.


Queriendo amar a tantas, quizás no amé a ninguna,
o amaba solamente mi propia juventud;
pues eran, al reclamo de una buena fortuna,
propicio todo instante; toda cita, oportuna;
toda puerta, accesible; frágil toda virtud...

Mi corazón cantaba sobre la primavera,
cuando hasta en las espinas quiere abrirse la flor...
Después se fue apagando mi bujía de cera,
pero tan lentamente como si no supiera
si empezaba una sombra o acababa un fulgor.

Ellas, las que me amaron, supieron de mi olvido;
y ellas, las olvidadas, me olvidaron también.
Y hoy, a veces, me miran como a un desconocido,
como si me miraran buscando un parecido
que les recuerda a alguien, sin recordar a quién.

Usurpador furtivo de caricias ajenas,
ejercité mis besos para la ingratitud.
Y hoy, mercader de espumas, agricultor de arenas,
prófugo delirante que añora sus cadenas,
soy un hombre sin sueños entre la multitud.

Pero sí por las gracias de un Dios caritativo
renaciera de pronto la juventud en mí,
yo, esclavo de mi sombra, libertador cautivo,
olvidaría entonces la vida que ahora vivo,
para vivir de nuevo la vida que viví...
Buscad, buscadlos:
en el insomnio de las cañerías olvidadas,
en los cauces interrumpidos por el silencio de las basuras.
No lejos de los charcos incapaces de guardar una nube,
unos ojos perdidos,
una sortija rota
o una estrella pisoteada.
  Porque yo los he visto:
en esos escombros momentáneos que aparecen en las neblinas.
Porque yo los he tocado:
en el destierro de un ladrillo difunto,
venido a la nada desde una torre o un carro.
Nunca más allá de las chimeneas que se derrumban,
ni de esas hojas tenaces que se estampan en los zapatos.
  En todo esto.
Más en esas astillas vagabundas que se consumen sin fuego,
en esas ausencias hundidas que sufren los muebles desvencijados,
no a mucha distancia de los nombres y signos que se enfrían en las paredes.
  Buscad, buscadlos:
debajo de la gota de cera que sepulta la palabra de un libro
o la firma de uno de esos rincones de cartas
que trae rodando el polvo.
Cerca del casco perdido de una botella,
de una suela extraviada en la nieve,
de una navaja de afeitar abandonada al borde de un precipicio.

— The End —