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Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Invitación al llanto.  Esto es un llanto,
      ojos, sin fin, llorando,
escombrera adelante, por las ruinas
        de innumerables días.
Ruinas que esparce un cero -autor de nadas,
obra del hombre-, un cero, cuando estalla.
Cayó ciega.  La soltó,
la soltaron, a seis mil
metros de altura, a las cuatro.
¿Hay ojos que le distingan
a la Tierra sus primores
desde tan alto?
¿Mundo feliz? ¿Tramas, vidas,
que se tejen, se destejen,
mariposas, hombres, tigres,
amándose y desamándose?
No. Geometría.  Abstractos
colores sin habitantes,
embuste liso de atlas.
Cientos de dedos del viento
una tras otra pasaban
las hojas
-márgenes de nubes blancas-
de las tierras de la Tierra,
vuelta cuaderno de mapas.
Y a un mapa distante, ¿quién
le tiene lástima? Lástima
de una pompa de jabón
irisada, que se quiebra;
o en la arena de la playa
un crujido, un caracol
roto
sin querer, con la pisada. 
Pero esa altura tan alta
que ya no la quieren pájaros,
le ciega al querer su causa
con mil aires transparentes.
Invisibles se le vuelven
al mundo delgadas gracias:
La azucena y sus estambres,
colibríes y sus alas,
las venas que van y vienen,
en tierno azul dibujadas,
por un pecho de doncella.
¿Quién va a quererlas
si no se las ve de cerca?
Él hizo su obligación:
lo que desde veinte esferas
instrumentos ordenaban,
exactamente: soltarla
al momento justo.                                   Nada.
Al principio
no vio casi nada.  Una
mancha, creciendo despacio,
blanca, más blanca, ya cándida.
¿Arrebañados corderos?
¿Vedijas, copos de lana?
Eso sería...
¡Qué peso se le quitaba!
Eso sería: una imagen
que regresa.
Veinte años, atrás, un niño.
Él era un niño -allá atrás-
que en estíos campesinos
con los corderos jugaba
por el pastizal.  Carreras,
topadas, risas, caídas
de bruces sobre la grama,
tan reciente de rocío
que la alegría del mundo
al verse otra vez tan claro,
le refrescaba la cara.
Sí; esas blancuras de ahora,
allá abajo
en vellones dilatadas,
no pueden ser nada malo:
rebaños y más rebaños
serenísimos que pastan
en ancho mapa de tréboles.
Nada malo.  Ecos redondos
de aquella inocencia doble
veinte años atrás: infancia
triscando con el cordero
y retazos celestiales,
del sol niño con las nubes
que empuja, pastora, el alba.
 
Mientras,
detrás de tanta blancura
en la Tierra -no era mapa-
en donde el cero cayó,
el gran desastre empezaba.Muerto inicial y víctima primera:
lo que va a ser y expira en los umbrales
del ser. ¡Ahogado coro de inminencias!
Heráldicas palabras voladoras
-«¡pronto!», «¡en seguida!», «¡ya!»- nuncios de dichas
colman el aire, lo vuelven promesa.
Pero la anunciación jamás se cumple:
la que aguardaba el éxtasis, doncella,
se quedará en su orilla, para siempre
entre su cuerpo y Dios alma suspensa.
¡Qué de esparcidas ruinas de futuro
por todo alrededor, sin que se vean!
Primer beso de amantes incipientes.
¡Asombro! ¿Es obra humana tanto gozo?
¿Podrán los labios repetirlo?  Vuelan
hacia el segundo beso; más que beso,
claridad quieren, buscan la certeza
alegre de su don de hacer milagros
donde las bocas férvidas se encuentran.
¿ Por qué si ya los hálitos se juntan
los labios a posarse nunca llegan?
Tan al borde del beso, no se besan.
Obediente al ardor de un mediodía
la moza muerde ya la fruta nueva.
La boca anhela el más celado jugo;
del anhelo no pasa.  Se le niega
cuando el labio presiente su dulzura
la condensada dentro, primavera,
pulpas de mayo, azúcares de junio,
día a día sumados a la almendra.
Consumación feliz de tanta ruta,
último paso, amante, pie en el aire,
que trae amor adonde amor espera.
Tiembla Julieta de Romeos próximos,
ya abre el alma a Calixto, Melibea.
Pero el paso final no encuentra suelo.
¿Dónde, si se hunde el mundo en la tiniebla,
si ya es nada Verona, y si no hay huerto?
De imposibles se vuelve la pareja.
¿Y esa mano -¿de quién?-, la mano trunca
blanca, en el suelo, sin su brazo, huérfana,
que buscas en el rosal la única abierta,
y cuando ya la alcanza por el tallo
se desprende, dejándose a la rosa,
sin conocer los ojos de su dueña?
¡Cimeras alegrías tremolantes,
gozo inmediato, pasmo que se acerca:
la frase más difícil, la penúltima,
la que lleva, derecho, hasta el acierto,
perfección vislumbrada, nunca nuestra!
¡Imágenes que inclinan su hermosura
sobre espejos que nunca las reflejan!
¡Qué cadáver ingrávido: una mañana
que muere al filo de su aurora cierta!
Vísperas son capullos. Sí, de dichas;
sí, de tiempo, futuros en capullos.
¡Tan hermosas, las vísperas!
                                                          ¡Y muertas!¿Se puede hacer más daño, allí en la Tierra?
Polvo que se levanta de la ruina,
humo del sacrificio, vaho de escombros
dice que sí se puede.  Que hay más pena.
Vasto ayer que se queda sin presente,
vida inmolada en aparentes piedras.
¡Tanto afinar la gracia de los fustes
contra la selva tenebrosa alzados
de donde el miedo viene al alma, pánico!
Junto a un altar de azul, de ola y espuma,
el pensar y la piedra se desposan;
el mármol, que era blanco, es ya blancura.
Alborean columnas por el mundo,
ofreciéndole un orden a la aurora.
No terror, calma pura da este bosque,
de noble savia pórtico.
Vientos y vientos de dos mil otoños
con hojas de esta selva inmarcesible
quisieran aumentar sus hojarascas.
Rectos embisten, curvas les engañan.
Sin botín huyen. ¿Dónde está su fronda?
No pájaros, sus copas, procesiones
de doncellas mantienen en lo alto,
que atraviesan el tiempo, sin moverse.
Este espacio que no era más que espacio
a nadie dedicado, aire en vacío,
la lenta cantería lo redime
piedras poniendo, de oro, sobre piedras,
de aquella indiferencia sin plegaria.
Fiera luz, la del sumo mediodía,
claridad, toda hueca, de tan clara
va aprendiendo, ceñida entre altos muros
mansedumbres, dulzuras; ya es misterio.
Cantan coral callado las ojivas.
Flechas de alba cruzan por los santos
incorpóreos, no hieren, les traen vida
de colores.  La noche se la quita.
La bóveda, al cerrarse abre más cielo.
Y en la hermosura vasta de estos límites
siente el alma que nada la termina.
Tierra sin forma, pobre arcilla; ahora
el torno la conduce hasta su auge:
suave concavidad, nido de dioses.
Poseidón, Venus, Iris, sus siluetas
en su seno se posan.  A esta crátera
ojos, siempre sedientos, a abrevarse
vienen de agua de mito, inagotable.
Guarda la copa en este fondo oscuro
callado resplandor, eco de Olimpo.
Frágil materia es, mas se acomodan
los dioses, los eternos, en su círculo.
Y así, con lentitud que no descansa,
por las obras del hombre se hace el tiempo
profusión fabulosa.  Cuando rueda
el mundo, tesorero, va sumando
-en cada vuelta gana una hermosura-
a belleza de ayer, belleza inédita.
Sobre sus hombros gráciles las horas
dádivas imprevistas acarrean.
¿Vida?  Invención, hallazgo, lo que es
hoy a las cuatro, y a las tres no era.
Gozo de ver que si se marchan unas
trasponiendo la ceja de la tarde,
por el nocturno alcor otras se acercan.
Tiempo, fila de gracias que no cesa.
¡Qué alegría, saber que en cada hora
algo que está viniendo nos espera!
Ninguna ociosa, cada cual su don;
ninguna avara, todo nos lo entregan.
Por las manos que abren somos ricos
y en el regazo, Tierra, de este mundo
dejando van sin pausa
novísimos presentes: diferencias.
¿Flor?  Flores. ¡Qué sinfín de flores, flor!
Todo, en lo igual, distinto: primavera.
Cuando se ve la Tierra amanecerse
se siente más feliz.  La luz que llega
a estrecharle las obras que este día
la acrece su plural. ¡Es más diversa!El cero cae sobre ellas.
Ya no las veo, a las muchas,
las bellísimas, deshechas,
en esa desgarradora
unidad que las confunde,
en la nada, en la escombrera.
Por el escombro busco yo a mis muertos;
más me duele su ser tan invisibles.
Nadie los ve: lo que se ve son formas
truncas; prodigios eran, singulares,
que retornan, vencidos, a su piedra.
Muertos añosos, muertos a lo lejos,
cadáveres perdidos,
en ignorado osario perfecciona
la Tierra, lentamente, su esqueleto.
Su muerte fue hace mucho.  Esperanzada
en no morir, su muerte. Ánima dieron
a masas que yacían en canteras.
Muchas piedras llenaron de temblores.
Mineral que camina hacia la imagen,
misteriosa tibieza, ya corriendo
por las vetas del mármol,
cuando, curva tras curva, se le empuja
hacia su más, a ser pecho de ninfa.
Piedra que late así con un latido
de carne que no es suya, entra en el juego
-ruleta son las horas y los días-:
el jugarse a la nada, o a lo eterno
el caudal de sus formas confiado:
el alma de los hombres, sus autores.
Si es su bulto de carne fugitivo,
ella queda detrás, la salvadora
roca, hija de sus manos, fidelísima,
que acepta con marmóreo silencio
augusto compromiso: eternizarlos.
Menos morir, morir así: transbordo
de una carne terrena a bajel pétreo
que zarpa, sin más aire que le impulse
que un soplo, al expirar, último aliento.
Travesía que empieza, rumbo a siempre;
la brújula no sirve, hay otro norte
que no confía a mapas su secreto;
misteriosos pilotos invisibles,
desde tumbas los guían, mareantes
por aguja de fe, según luceros.
Balsa de dioses, ánfora.
Naves de salvación con un polícromo
velamen de vidrieras, y sus cuentos
mármol, que flota porque vista de Venus.
Naos prodigiosas, sin cesar hendiendo
inmóviles, con proas tajadoras
auroras y crepúsculos, espumas
del tumbo de los años; años, olas
por los siglos alzándose y rompiendo.
Peripecia suprema día y noche,
navegar tesonero
empujado por racha que no atregua:
negación del morir, ansia de vida,
dando sus velas, piedras, a los vientos.
Armadas extrañísimas de afanes,
galeras, no de vivos, no de muertos,
tripulaciones de querencias puras,
incansables remeros,
cada cual con su remo, lo que hizo,
soñando en recalar en la celeste
ensenada segura, la que está
detrás, salva, del tiempo.¡Y todos, ahora, todos,
qué naufragio total, en este escombro!
No tibios, no despedazados miembros
me piden compasión, desde la ruina:
de carne antigua voz antigua, oigo.
Desgarrada blancura, torso abierto,
aquí, a mis pies, informe.
Fue ninfa geométrica, columna.
El corazón que acaban de matarle,
Leucipo, pitagórico,
calculador de sueños, arquitecto,
de su pecho lo fue pasando a mármoles.
Y así, edad tras edad, en estas cándidas
hijas de su diseño
su vivir se salvó.  Todo invisible,
su pálpito y su fuego.
Y ellas abstractos bultos se fingían,
pura piedra, columnas sin misterio.
Más duelo, más allá: serafín trunco,
ángel a trozos, roto mensajero.
Quebrada en seis pedazos
sonrisa, que anunciaba, por el suelo.
Entre el polvo guedejas
de rubia piedra, pelo tan sedeño
que el sol se lo atusaba a cada aurora
con sus dedos primeros.
Alas yacen usadas a lo altísimo,
en barro acaba su plumaje célico.
(A estas plumas del ángel desalado
encomendó su vuelo
sobre los siglos el hermano Pablo,
dulce monje cantero).
Sigo escombro adelante, solo, solo.
Hollando voy los restos
de tantas perfecciones abolidas.
Años, siglos, por siglos acudieron
aquí, a posarse en ellas; rezumaban
arcillas o granitos,
linajes de humedad, frescor edénico.
No piso la materia; en su pedriza
piso al mayor dolor, tiempo deshecho.
Tiempo divino que llegó a ser tiempo
poco a poco, mañana tras su aurora,
mediodía camino de su véspero,
estío que se junta con otoño,
primaveras sumadas al invierno.
Años que nada saben de sus números,
llegándose, marchándose sin prisa,
sol que sale, sol puesto,
artificio diario, lenta rueda
que va subiendo al hombre hasta su cielo.
Piso añicos de tiempo.
Camino sobre anhelos hechos trizas,
sobre los días lentos
que le costó al cincel llegar al ángel;
sobre ardorosas noches,
con el ardor ardidas del desvelo
que en la alta madrugada da, por fin,
con el contorno exacto de su empeño...
Hollando voy las horas jubilares:
triunfo, toque final, remate, término
cuando ya, por constancia o por milagro,
obra se acaba que empezó proyecto.
Lo que era suma en un instante es polvo.
¡Qué derroche de siglos, un momento!
No se derrumban piedras, no, ni imágenes;
lo que se viene abajo es esa hueste
de tercos defensores de sus sueños.
Tropa que dio batalla a las milicias
mudas, sin rostro, de la nada; ejército
que matando a un olvido cada día
conquistó lentamente los milenios.
Se abre por fin la tumba a que escaparon;
les llega aquí la muerte de que huyeron.
Ya encontré mi cadáver, el que lloro.
Cadáver de los muertos que vivían
salvados de sus cuerpos pasajeros.
Un gran silencio en el vacío oscuro,
un gran polvo de obras, triste incienso,
canto inaudito, funeral sin nadie.
Yo sólo le recuerdo, al impalpable,
al NO dicho a la muerte, sostenido
contra tiempo y marea: ése es el muerto.
Soy la sombra que busca en la escombrera.
Con sus siete dolores cada una
mil soledades vienen a mi encuentro.
Hay un crucificado que agoniza
en desolado Gólgota de escombros,
de su cruz separado, cara al cielo.
Como no tiene cruz parece un hombre.
Pero aúlla un perro, un infinito perro
-inmenso aullar nocturno ¿desde dónde?-,
voz clamante entre ruinas por su Dueño.
Poi che divelta, nella tracia polve
Giacque ruina immensa
L'italica virtute, onde alle valli
D'Esperia verde, e al tiberino lido,
Il calpestio dè barbari cavalli
Prepara il fato, e dalle selve ignude
Cui l'Orsa algida preme,
A spezzar le romane inclite mura
Chiama i gotici brandi;
Sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l'atra notte in erma sede,
Fermo già di morir, gl'inesorandi
Numi e l'averno accusa,
E di feroci note
Invan la sonnolenta aura percote.

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
Dell'inquiete larve
Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento. A voi, marmorei numi,
(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice
A cui templi chiedeste, e frodolenta
Legge al mortale insulta.
Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando
Il tuon rapido spingi,
Né giusti e pii la sacra fiamma stringi?

Preme il destino invitto e la ferrata
Necessità gl'infermi
Schiavi di morte: e se a cessar non vale
Gli oltraggi lor, dè necessarii danni
Si consola il plebeo. Men duro è il male
Che riparo non ha? dolor non sente
Chi di speranza è nudo?
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia,
Di cedere inesperto; e la tiranna
Tua destra, allor che vincitrice il grava,
Indomito scrollando si pompeggia,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride,
E maligno alle nere ombre sorride.

Spiace agli Dei chi violento irrompe
Nel Tartaro. Non fora
Tanto valor né molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e gl'infelici affetti
Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
Non fra sciagure e colpe,
Ma libera né boschi e pura etade
Natura a noi prescrisse,
Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra
Sparse i regni beati empio costume,
E il viver macro ad altre leggi addisse;
Quando gl'infausti giorni
Virile alma ricusa,
Riede natura, e il non suo dardo accusa?

Di colpa ignare e dè lor proprii danni
Le fortunate belve
Serena adduce al non previsto passo
La tarda età. Ma se spezzar la fronte
Né rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra,
Lor suadesse affanno;
Al misero desio nulla contesa
Legge arcana farebbe
O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
Figli di Prometeo, la vita increbbe;
A voi le morte ripe,
Se il fato ignavo pende,
Soli, o miseri, a voi Giove contende.

E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
Candida luna, sorgi,
E l'inquieta notte e la funesta
All'ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni
Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando né danni
Del servo italo nome,
Sotto barbaro piede
Rintronerà quella solinga sede.

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
E la fera e l'augello,
Del consueto obblio gravido il petto,
L'alta ruina ignora e le mutate
Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre,
Al mattutino canto
Quel desterà le valli, e per le balze
Quella l'inferma plebe
Agiterà delle minori belve.
Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
Siam delle cose; e non le tinte glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura,
Né scolorò le stelle umana cura.

Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi
Regi, o la terra indegna,
E non la notte moribondo appello;
Non te, dell'atra morte ultimo raggio,
Conscia futura età. Sdegnoso avello
Placàr singulti, ornàr parole e doni
Di vil caterva? In peggio
Precipitano i tempi; e mal s'affida
A putridi nepoti
L'onor d'egregie menti e la suprema
Dè miseri vendetta. A me d'intorno
Le penne il bruno augello avido roti;
Prema la fera, e il nembo
Tratti l'ignota spoglia;
E l'aura il nome e la memoria accoglia.
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
En el precio, el favor; y la ventura,
venal; el oro, pálido tirano;
el erario, sacrílego y profano;
con togas, la codicia y la locura;
en delitos, patíbulo la altura;
más suficiente el más soberbio y vano;
en opresión, el sufrimiento humano;
en desprecio, la sciencia y la cordura,
promesas son, ¡oh Roma!, dolorosas
del precipicio y ruina que previenes
a tu imperio y sus fuerzas poderosas.
El laurel que te abraza las dos sienes
llama al rayo que evita, y peligrosas
y coronadas por igual las tienes.
En el alba de callados venenos
amanecemos serpientes.

Amanecemos piedras,
raíces obstinadas,
sed descarnada, labios minerales.

La luz en estas horas es acero,
es el desierto labio del desprecio.
Si yo toco mi cuerpo soy herido
por rencorosas púas.
Fiebre y jadeo de lentas horas áridas,
miserables raíces atadas a las piedras.

Bajo esta luz de llanto congelado
el henequén, inmóvil y rabioso,
en sus índices verdes
hace visible lo que nos remueve,
el callado furor que nos devora.

En su cólera quieta,
en su tenaz verdor ensimismado,
la muerte en que crecemos se hace espada
y lo que crece y vive y muere
se hace lenta venganza de lo inmóvil.

Cuando la luz extiende su dominio
e inundan blancas olas a la tierra,
blancas olas temblantes que nos ciegan,
y el puño del calor nos niega labios,
un fuego verde cerca al henequén,
muralla viva que devora y quema
al otro fuego que en el aire habita.
Invisible cadena, mortal soplo
que aniquila la sed de que renace.

Nada sino la luz. No hay nada, nada
sino la luz contra la luz rabiosa,
donde la luz se rompe, se desangra
en oleaje estéril, sin espuma.

El agua suena. Sueña.
El agua intocable en tu tumba de piedra,
sin salida en su tumba de aire.
El agua ahorcada,
el agua subterránea,
de húmeda lengua humilde, encarcelada.
El agua secreta en su tumba de piedra
sueña invisible en su tumba de agua.

A las seis de la tarde
alza la tierra un vaho blanquecino.
Vuelan pájaros mudos, barro helado.
Arrasen nubes crueles el cielo sin orillas.

Pero en la noche el agua gime.
Un cielo de metal
oprime pecho y venas
y tiembla en el ahogo el horizonte.
El agua gime entre sus negros hierros.
El hombre corre de la muerte al sueño.

El henequén vigila cielo y tierra.
Es la venganza de la tierra,
la mano de los hombres contra el cielo.
¿Qué tierra es ésta?,
¿qué extraña violencia alimenta
en su cáscara pétrea?
¿qué fría obstinación,
años de fuego frío,
petrificada saliva persistente,
acumulando lentamente un jugo,
una fibra, una púa?

Una región que existe
antes que sobre el mundo alzara el aire
su bandera de fuego y el agua sus cristales;
una región de piedra
nacida antes del nacimiento mismo de la muerte,
una región, un párpado de fiebre,
unos labios sin sueño
que recorre sin término la sed,
como el mar a las lajas en las costas desiertas.

La tierra sólo da su flor funesta,
su espada vegetal.
Su crecimiento rige
la vida de los hombres.
Por sus fibras crueles
corre una sed de arena
trepando desde sótanos ciegos,
duras capas de olvido donde el tiempo no existe.

Furiosos años lentos, concentrados,
como no derramada, oculta lágrima,
brotando al fin sombríos
en un verdor ensimismado,
rasgando el aire, pulpa, ahogo,
blanda carne invisible y asfixiada.
Al cabo de veinticinco amargos años
alza una flor sola, roja y quieta.
Una vara ****** la levanta
y queda entre los aires, isla inmóvil,
petrificada espuma silenciosa.

Oh esplendor vengativo,
única llama de este infierno seco,
¿tanta fiebre acallada,
surge en tu llama rígida, desnuda,
para cantar, sólo, tu muerte?
¡Si yo pudiera,
en esta orilla que la sed ilumina,
cantar al hombre que la habita y la puebla,
cantar al hombre que su sed aniquila!

Al hombre húmedo y persistente como lluvia,
al hombre como un árbol hermoso y ultrajado
que arranca su nacimiento al llanto,
al hombre como un río entre las llamas,
como un pájaro semejante a un relámpago.
Al hombre entre sus fines y sus frutos.

Los frutos de la tierra son los fines del hombre.
Mezcla su sal henchida con las sales terrestres
y esa sal es más tierna que la sal de los mares:
le dio Adán, con su sangre, su orgulloso castigo.

¡Si pudiera cantar
al hombre que vive bajo esta piel amarga!
El nacimiento,
el espanto nocturno,
la vasta mano que puebla y despuebla la tierra.

Entre el primer silencio y el postrero,
entre la piedra y la flor,
tú caminas. Te ciñe un pulso aéreo,
un silencio flotante,
como fuga de sangre, como humo,
como agua que olvida.

Llamas petrificadas te sostienen.
Caminas entre espadas,
casi invisible
bajo el temblor del cielo liso,
con un paso, un solo paso tierno,
un leve paso de animal que huye.

Tú caminas. Tú duermes. Tú fornicas.
Tú danzas, bebes, sueñas.
Sueñas en otros labios que prolonguen tu sueño.

Alguien te sueña, solo.
Tu nombre, polvo, piedra,
en el polvo sediento precipita su ruina.

Mas no es el ritmo oscuro del planeta,
el renacer de cada día,
el remorir de cada noche,
lo que te mueve por la tierra.
¡Oh rueda del dinero,
que ni te palpa ni te roza
y te deshace cada día!

Ángel de tierra y sueño,
agua remota que se ignora,
oh condenado,
oh inocente,
oh bestia pura entre las horas del dinero,
entre esas horas que no son nuestras nunca,
por esos pasadizos de tedio devorante
donde el tiempo se para y se desangra.

¡El mágico dinero!
Invisible y vacío,
es la señal y el signo,
la palabra y la sangre,
el misterio y la cifra,
la espada y el anillo.

Es el agua y el polvo,
la lluvia, el sol amargo,
la nube que crea el mar solitario
y el fuego que consume los aires.
Es la noche y el día:
la eternidad sola y adusta
mordiéndose la cola.

El hermoso dinero da el olvido,
abre las puertas de la música,
cierra las puertas al deseo.
La muerte no es la muerte: es una sombra,
un sueño que el dinero no sueña.

¡El mágico dinero!
Sobre los huesos se levanta,
sobre los huesos de los hombres se levanta.

Pasas como una flor por este infierno estéril,
hecho sólo del tiempo encadenado,
carrera maquinal, rueda vacía
que nos exprime y deshabita,
y nos seca la sangre,
y el lugar de las lágrimas nos mata.

Porque el dinero es infinito y crea desiertos infinitos.
Dame, llama invisible, espada fría,
tu persistente cólera,
para acabar con todo,
oh mundo seco,
oh mundo desangrado,
para acabar con todo.

Arde, sombrío, arde sin llamas,
apagado y ardiente,
ceniza y piedra viva,
desierto sin orillas.

Arde en el vasto cielo, laja y nube,
bajo la ciega luz que se desploma
entre estériles peñas.

Arde en la soledad que nos deshace,
tierra de piedra ardiente,
de raíces heladas y sedientas.

Arde, furor oculto,
ceniza que enloquece,
arde invisible, arde
como el mar impotente engendra nubes,
olas como el rencor y espumas pétreas.
Entre mis huesos delirantes, arde;
arde dentro del aire hueco,
horno invisible y puro;
arde como arde el tiempo,
como camina el tiempo entre la muerte,
con sus mismas pisadas y su aliento;
arde como la soledad que te devora,
arde en ti mismo, ardor sin llama,
soledad sin imagen, sed sin labios.
Para acabar con todo,
oh mundo seco,
para acabar con todo.
novedad de hoy y ruina de pasado mañana, enterrda y resucitada cada día,
  convivida en calles, plazas, autobuses, taxis, cines, teatros, bares, hoteles, palomares, catacumbas,
    la ciudad enorme que cabe en un cuarto de tres metros cuadrados inacabable como una galaxia,
    la ciudad que nos sueña a todos y que todos hacemos y deshacemos y rehacemos mientras soñamos,
    la ciudad que todos soñamos y que cambia sin cesar mientras la soñamos,
    la ciudad que despierta cada cien años y se mira en el espejo de una palabra y no se reconoce y otra vez se echa a dormir,
    la ciudad que brota de los párpados de la mujer que duerme a mi lado y se convierte,
    con sus monumentos y sus estatuas, sus historias y sus leyendas,
    en un manantial hecho de muchos ojos y cada ojo refleja el mismo paisaje detenido,
    antes de las escuelas y las prisiones, los alfabetos y los números, el altar y la ley:
    el río que es cuatro ríos, el huerto, el árbol, la Varona y el  Varón vestido de viento
    -volver, volver, ser otra vez arcilla, bañarse en esa luz, dormir bajo esas luminarias,
    flotar sobre las aguas del tiempo como la hoja llameante del arce que arrastra la corriente,
    volver, ¿estamos dormidos o despiertos?, estamos, nada más estamos, amanece, es temprano,
    estamos en la ciudad, no podemos salir de ella sin caer en  otra, idéntica aunque sea distinta,
    hablo de la ciudad inmensa, realidad diaria hecha de dos palabras: los otros,
    y en cada uno de ellos hay un yo cercenado de un nosotros, un yo a la deriva,
    hablo de la ciudad construida por los muertos, habitada por sus tercos fantasmas, regida por su despótica memoria,
    la ciudad con la que hablo cuando no hablo con nadie y que ahora me dicta estas palabras insomnes,
    hablo de las torres, los puentes, los subterráneos, los hangares, maravillas y desastres,
    El estado abstracto y sus policías concretos, sus pedagogos, sus carceleros, sus predicadores,
    las tiendas en donde hay de todo y gastamos todo y todo se vuelve humo,
    los mercados y sus pirámides de frutos, rotación de las cuatro estaciones, las reses en canal colgando
de los garfios, las colinas de especias y las torres de frascos y conservas,
    todos los sabores y los colores, todos los olores y todas las materias, la marea de las voces -agua, metal, madera, barro-, el trajín, el regateo y el trapicheo desde el comienzo de los días,
    hablo de los edificios de cantería y de mármol, de cemento, vidrio, hierro, del gentío en los vestíbulos y portales, de los elevadores que suben y bajan como el mercurio en los termómetros,
    de los bancos y sus consejos de administración, de las fábricas y sus gerentes, de los obreros y sus máquinas incestuosas,
    hablo del desfile inmemorial de la prostitución por calles largas como el deseo y como el aburrimiento,
    del ir y venir de los autos, espejo de nuestros afanes, quehaceres y pasiones (¿por qué, para qué, hacia dónde?),
    de los hospitales siempre repletos y en los que siempre morimos solos,
    hablo de la penumbra de ciertas iglesias y de las llamas titubeantes de los cirios en los altares,
    tímidas lenguas con las que los desamparados hablan con los santos y con las vírgenes en un lenguaje ardiente y entrecortado,
    hablo de la cena bajo la luz tuerta en la mesa coja y los platos desportillados,
    de las tribus inocentes que acampan en los baldíos con sus mujeres y sus hijos, sus animales y sus espectros,
    de las ratas en el albañal y de los gorriones valientes que anidan en los alambres, en las cornisas y en los árboles martirizados,
    de los gatos contemplativos y de sus novelas libertinas a la luz de la luna, diosa cruel de las azoteas,
    de los perros errabundos, que son nuestros franciscanos y nuestros bhikkus, los perros que desentierran los huesos del sol,
    hablo del anacoreta y de la fraternidad de los libertarios, de la conjura de los justicieros y de la banda de los ladrones,
    de la conspiración de los iguales y de la sociedad de amigos del Crimen, del club de los suicidas y de Jack el Destripador,
    del Amigo de los Hombres, afilador de la guillotina, y de César, Delicia del Género Humano,
    hablo del barrio paralítico, el muro llagado, la fuente seca, la estatua pintarrajeada,
    hablo de los basureros del tamaño de una montaña y del sol taciturno que se filtra en el polumo,
    de los vidrios rotos y del desierto de chatarra, del crimen de anoche y del banquete del inmortal Trimalción,
    de la luna entre las antenas de la televisión y de una mariposa sobre un bote de inmundicias,
    hablo de madrugadas como vuelo de garzas en la laguna y del sol de alas transparentes que se posa en los follajes de piedra de las iglesias y del gorjeo de la luz en los tallos de vidrio de los palacios,
    hablo de algunos atardeceres al comienzo del otoño, cascadas de oro incorpóreo, transfiguración de este mundo, todo pierde cuerpo, todo se queda suspenso,
    la luz piensa y cada uno de nosotros se siente pensado por esa luz reflexiva, durante un largo instante el tiempo se disipa, somos aire otra vez,
    hablo del verano y de la noche pausada que crece en el horizonte como un monte de humo que poco a poco se desmorona y cae sobre nosotros como una ola,
    reconciliación de los elementos, la noche se ha tendido y su cuerpo es un río poderoso de pronto dormido, nos mecemos en el oleaje de su respiración, la hora es palpable, la podemos tocar como un fruto,
    han encendido las luces, arden las avenidas con el fulgor del deseo, en los parques la luz eléctrica atraviesa los follajes y cae sobre nosotros una llovizna verde y fosforescente que nos ilumina sin mojarnos, los árboles murmuran, nos dicen algo,
    hay calles en penumbra que son una insinuación sonriente, no sabemos adónde van, tal vez al embarcadero de las islas perdidas,
    hablo de las estrellas sobre las altas terrazas y de las frases indescifrables que escriben en la piedra del cielo,
    hablo del chubasco rápido que azota los vidrios y humilla las arboledad, duró veinticinco minutos y ahora allá arriba hay agujeros azules y chorros de luz, el vapor sube del asfalto, los coches relucen, hay charcos donde navegan barcos de reflejos,
    hablo de nubes nómadas y de una música delgada que ilumina una habitación en un quinto piso y de un rumor de risas en mitad de la noche como agua remota que fluye entre raíces y yerbas,
    hablo del encuentro esperado con esa forma inesperada en la que encarna lo desconocido y se manifiesta a cada uno:
    ojos que son la noche que se entreabre y el día que despierta, el mar que se tiende y la llama que habla, pechos valientes: marea lunar,
    labios que dicen sésamo y el tiempo se abra y el pequeño cuarto se vuelve jardín de metamorfosis y el aire y el fuego se enlazan, la tierra y el agua se confunden,
    o es el advenimiento del instante en que allá, en aquel otro lado que es aquí mismo, la llave se cierra y el tiempo cesa de manar;
    instante del hasta aquí, fin del hipo, del quejido y del ansia, el alma pierde cuerpo y se desploma por un agujero del piso, cae en sí misma, el tiempo se ha desfondado, caminamos por un corredor sin fin, jadeamos en un arenal,
    ¿esa música se aleja o se acerca, esas luces pálidas se encienden o apagan?, canta el espacio, el tiempo se disipa: es el boqueo, es la mirada que resbala por la lisa pared, es la pared que se calla, la pared,
    hablo de nuestra historia pública y de nuestra historia secreta, la tuya y la mía,
    hablo de la selva de piedra, el desierto del profeta, el hormigüero de almas, la congregación de tribus, la casa de los espejos, el laberinto de ecos,
    hablo del gran rumor que viene del fondo de los tiempos, murmullo incoherente de naciones que se juntan o dispersan, rodar de multitudes y sus armas como peñascos que se despeñan, sordo sonar de huesos cayendo en el hoyo de la historia,
    hablo de la ciudad, pastora de siglos, madre que nos engendra y nos devora, nos inventa y nos olvida.

CARTA DE CREENCIA
Naciones de la tierra, patrias del mar, hermanos
del mundo y de la nada:
habitantes perdidos y lejanos
más que del corazón, de la mirada.

Aquí tengo una voz enardecida,
aquí tengo un vida combatida y airada,
aquí tengo un rumor, aquí tengo una vida.

Abierto estoy, mirad, como una herida.
Hundido estoy, mirad, estoy hundido
en medio de mi pueblo y de sus males.
Herido voy, herido y malherido,
sangrando por trincheras y hospitales.

Hombres, mundos, naciones,
atended, escuchad mi sangrante sonido,
recoged mis latidos de quebranto
en vuestros espaciosos corazones,
porque yo empuño el alma cuando canto.

Cantando me defiendo
y defiendo mi pueblo cuando en mi pueblo imprimen
su herradura de pólvora y estruendo
los bárbaros del crimen.

Esta es su obra, esta:
pasan, arrasan como torbellinos,
y son ante su cólera funesta
armas los horizontes y muerte los caminos.

El llanto que por valles y balcones se vierte,
en las piedras diluvia y en las piedras trabaja,
y no hay espacio para tanta muerte,
y no hay madera para tanta caja.

Caravanas de cuerpos abatidos.
Todo vendajes, penas y pañuelos:
todo camillas donde a los heridos
se les quiebran las fuerzas y los vuelos.

Sangre, sangre por árboles y suelos,
sangre por aguas, sangre por paredes.
y un temor de que España se desplome
del peso de la sangre que moja entre sus redes
hasta el pan que se come.

Recoged este viento,
naciones, hombres, mundos,
que parte de las bocas de conmovido aliento
y de los hospitales moribundos.

Aplicad las orejas
a mi clamor de pueblo atropellado,
al ¡ay! de tantas madres, a las quejas
de tanto ser luciente que el luto ha devorado.

Los pechos que empujaban y herían las montañas,
vedlos desfallecidos sin leche ni hermosura,
y ved las blancas novias y las negras pestañas
caídas y sumidas en una siesta oscura.

Aplicad la pasión de las entrañas
a este pueblo que muere con un gesto invencible
sembrado por los labios y la frente,
bajo los implacables aeroplanos
que arrebatan terrible,
terrible, ignominiosa, diariamente,
a las madres los hijos de las manos.

Ciudades de trabajo y de inocencia,
juventudes que brotan de la encina,
troncos de bronce, cuerpos de potencia
yacen precipitados en la ruina.

Un porvenir de polvo se avecina,
se avecina un suceso
en que no quedará ninguna cosa:
ni piedra sobre piedra ni hueso sobre hueso.

España no es España, que es una inmensa fosa,
que es un gran cementerio rojo y bombardeado:
los bárbaros la quieren de este modo.

Será la tierra un denso corazón desolado,
si vosotros, naciones, hombres, mundos,
con mi pueblo del todo
y vuestro pueblo encima del costado,
no quebráis los colmillos iracundos.
Pero no lo será: que un mar piafante,
triunfante siempre, siempre decidido,
hecho para la luz, para la hazaña,
agita su cabeza de rebelde diamante,
bate su pie calzado en el sonido
por todos los cadáveres de España.

Es una juventud: recoged este viento.
Su sangre es el cristal que no se empaña,
su sombrero el laurel y su pedernal su aliento.

Donde clava la fuerza de sus dientes
brota un volcán de diáfanas espadas,
y sus hombros batientes,
y sus talones guían llamaradas.

Está compuesta de hombres del trabajo:
de herreros rojos, de albos albañiles,
de yunteros con rostro de cosechas.
Oceánicamente transcurren por debajo
de un fragor de sirenas y herramientas fabriles
y de gigantes arcos alumbrados con flechas.

A pesar de la muerte, estos varones
con metal y relámpagos igual que los escudos,
hacen retroceder a los cañones
acobardados, temblorosos, mudos.

El polvo no los puede y hacen del polvo fuego,
savia, explosión, verdura repentina:
con su poder de abril apasionado
precipitan el alma del espliego,
el parto de la mina,
el fértil movimiento del arado.

Ellos harán de cada ruina un prado,
de cada pena un fruto de alegría,
de España un firmamento de hermosura.
Vedlos agigantar el mediodía
y hermosearlo todo con su joven bravura.

Se merecen la espuma de los truenos,
se merecen la vida y el olor del olivo,
los españoles amplios y serenos
que mueven la mirada como un pájaro altivo.

Naciones, hombres, mundos, esto escribo:
la juventud de España saldrá de las trincheras
de pie, invencible como la semilla,
pues tiene un alma llena de banderas
que jamás se somete ni arrodilla.

Allá van por los yermos de Castilla
los cuerpos que parecen potros batalladores,
toros de victorioso desenlace,
diciéndose en su sangre de generosas flores
que morir es la cosa más grande que se hace.

Quedarán en el tiempo vencedores,
siempre de sol y majestad cubiertos,
los guerreros de huesos tan gallardos
que si son muertos son gallardos muertos:
la juventud que a España salvará, aunque tuviera
que combatir con un fusil de nardos
y una espada de cera.
Cuando me confiscaron la palabra
y me quitaron hasta el horizonte
cuando salí silvando despacito
y hasta hice bromas con el funcionario
de emigración o desintegración
y hubo el adiós de siempre con la mano
a la familia firme en la baranda
a los amigos que sobrevivían
y un motor el derecho tosió fuerte
y movió la azafata sus pestañas
como diciendo a vos yo te conozco
yo tenía estudiada una teoría
del exilio mis pozos del exilio
pero el cursillo no sirvió de nada

cómo saber que las ciudades reservaban
una cuota de su amor más austero
para los que llegábamos
con el odio pisándonos la huella
cómo saber que nos harían sitio
entre sus escaseces más henchidas
y sin averiguarnos los fervores
ni mucho menos el grupo sanguíneo
abrirían de par en par sus gozos
y también sus catástrofes
para que nos sintiéramos
igualito que en casa

cómo saber que yo mismo iba a hallar
sábanas limpias desayunos abrazos
en pueyrredón y french
en canning y las heras
y en lince
y en barranco
y en arequipa al tres mil seiscientos
y en el vedado
y dondequiera

siempre hay calles que olvidan sus balazos
sus silencios de pizarra lunar
y eligen festejarnos recibirnos llorarnos
con sus tiernas ventanas que lo comprenden todo
e inesperados pájaros entre flores y hollines
también plazas con pinos discretísimos
que preguntan señor cómo quedaron
sus acacias sus álamos
y los ojos se nos llenan de láminas
en rigor nuestros árboles están sufriendo como
por otra parte sufren los caballos la gente
los gorriones los paraguas las nubes
en un país que ya no tiene simulacros

es increíble pero no estoy solo
a menudo me trenzo con manos o con voces
o encuentro una muchacha para ir lluvia adentro
y alfabetizarme en su áspera hermosura
quién no sabe a esta altura que el dolor
es también un ilustre apellido

con éste o con aquélla nos miramos de lejos
y nos reconocemos por el rictus paterno
o la herida materna en el espejo
el llanto o la risa como nombres de guerra
ya que el llanto o la risa legales y cabales
son apenas blasones coberturas

estamos desarmados como sueño en andrajos
pero los anfitriones nos rearman de apuro
nos quieren como aliados y no como reliquias
aunque a veces nos pidan la derrota en hilachas
para no repetirla

inermes como sueños así vamos
pero los anfitriones nos formulan preguntas
que incluyen su semilla de respuesta
y ponen sus palomas mensajeras y lemas
a nuestra tímida disposición
y claro sudamos los mismos pánicos
temblamos las mismas preocupaciones

a medida que entramos en el miedo
vamos perdiendo nuestra extranjería
ei enemigo es una niebla espesa
es el común denominador o
denominador plenipotenciario

es bueno reanudar el enemigo
de lo contrario puede acontecer
que uno se ablande al verlo tan odioso
el enemigo es siempre el mismo cráte
todavía no hay volcanes apagados

cuando nos escondemos a regar
la maceta con tréboles venéreos
aceitamos bisagras filosóficas
le ponemos candado a los ex domicilios
y juntamos las viudas militancias
y desobedecemos a los meteorólogos
soñamos con axilas y grupas y caricias
despertamos oliendo a naftalina
todos los campanarios nos conmueven
aunque tan solo duren en la tarde plomiza
y estemos abollados de trabajo

el recuerdo del mar cuando no hay mar
nos desventura la insolencia y la sangre
y cuando hay mar de un verde despiadado
la ola rompe en múltiples agüeros

uno de los problemas de esta vida accesoria
es que en cada noticia emigramos
siempre los pies alados livianísirnos
del que espera la señal de largada
y claro a medida que la señal no llega
nos aplacamos y nos convertimos
en herines apiñados y reumáticos

y bien esa maciza ingravidez
alza sus espirales de huelo en el lenguaje
hablamos ele botijas o gurises
y nos traducen pibe riñe guagua
suena ta o taluego
y es como si cantáramos desvergonzadamente
do jamás se pone el sol se pone el sol

y nos aceptan siempre
nos inventan a veces
nos lustran la morriña majadera
con la nostalgia que hubieran tenido
o que tuvieron o que van a tener
pero además nos muestran ayeres y anteayeres
la película entera a fin de que aprendamos
que la tragedia es ave migratoria
que los pueblos irán a contramuerte
y el destino se labra con las uñas

habrá que agradecerlo de por vida
acaso más que el pan y la cama y el techo
y los poros alertas del amo
r habrá que recordar con un exvoto
esa pedagogía solidaria y tangible

por lo pronto se sienten orgullosos
de entender que no vamos a quedarnos
porque claro hay un cielo
que nos gusta tener sobre la crisma
así uno va fundando las patrias interinas
segundas patrias siempre fueron buenas
cuando no nos padecen y no nos compadecen
simplemente nos hacen un lugar junto al fuego
y nos ayudan a mirar las llamas
porque saben que en ellas vemos nombres y bocas

es dulce y prodigiosa esta patria interina
con manos tibias que reciben dando
se aprende todo menos las ausencias
hay certidumbres y caminos rotos
besos rendidos y provisionales
brumas con barcos que parecen barcos
y lunas que reciben nuestra noche
con tangos marineras sones rumbas
y lo importante es que nos acompañan
con su futuro a cuestas y sus huesos

esta patria interina es dulce y honda
tiene la gracia de rememorarnos
de alcanzarnos noticias y dolores
como si recogiera cachorros de añoranza
y los diera a la suerte de los niños

de a poco percibimos los signos del paisaje
y nos vamos midiendo primero con sus nubes
y luego con sus rabias y sus glorias
primero con sus nubes
que unas veces son fibras filamentos
y otras veces tan redondas y plenas
como tetas de madre treinteañera
y luego con sus rabias y sus glorias
que nunca son ambiguas

acostumbrándonos a sus costumbres
llegamos a sentir sus ráfagas de historia
y aunque siempre habrá un nudo inaccesible
un útero de glorias que es propiedad privada
igual nuestra confianza izará sus pendones
y creeremos que un día que también que ojalá

aquí no me segrego
tampoco me segregan
hago de centinela de sus sueños
podemos ir a escote en el error
o nutrirnos de otras melancolías

algunos provenimos del durazno y la uva
otros vienen del mango y el mamey
y sin embargo vamos a encontrarnos
en la indócil naranja universal

el enemigo nos vigila acérrimo
él y sus corruptólogos husmean
nos aprenden milímetro a milímetro
estudian las estelas que deja el corazón
pero no pueden descifrar el rumbo
se les ve la soberbia desde lejos
sus llamas vuelven a lamer el cielo
chamuscando los talones de dios

su averno monopólico ha acabado
con el infierno artesanal de leviatán

es fuerte el enemigo y sin embargo
mientras la bomba eleva sus hipótesis
y todo se asimila al holocausto
una chiva tranquila una chiva de veras
prosigue masticando en el islote

ella solita derrotó al imperio
todos tendríamos que haber volado
a abrazar a esa hermana
ella sí demostró lo indemostrable
y fue excepción y regla todo junto
y gracias a esa chiva de los pueblos
ay nos quedamos sin apocalipsis

cuando sentimos el escalofrío
y los malos olores de la ruina
siempre es bueno saber que en algún meridiano
hay una chiva a lo mejor un puma
un ñandú una jutía una lombriz
un espermatozoide un feto una criatura
un hombre o dos un pueblo
una isla un archipiélago
un continente un mundo
tan firmes y tan dignos de seguir masticando
y destruir al destructor y acaso
desapocalipsarnos para siempre

es germinal y aguda esta patria interina
y nuestro desconsuelo integra su paisaje
pero también lo integra nuestro bálsamo

por supuesto sabemos desenrollar la risa
y madrugar y andar descalzos por la arena
narrar blancos prodigios a los niños
inventar minuciosos borradores de amor
y pasarlos en limpio en la alta noche
juntar pedazos de canciones viejas
decir cuentos de loros y gallegos
y de alemanes y de cocodrilos
y jugar al pingpong y a los actores
bailar el pericón y la milonga
traducir un bolero al alemán
y dos tangos a un vesre casi quechua
claro no somos una pompa fúnebre
usamos el derecho a la alegría

pero cómo ocultarnos los derrumbes
el canto se nos queda en estupor
hasta el amor es de pronto una culpa
nadie se ríe de los basiliscos
he visto a mis hermanos en mis patrias suplentes
postergar su alegría cuando muere la nuestra
y ese sí es un tributo inolvidable

por eso cuando vuelva
                                      y algún día será
a mis tierras mis gentes y mi cielo
ojaló que el ladrillo que a puro riesgo traje
para mostrar al mundo cómo era mi casa
dure como mis duras devociones
a mis patrias suplentes compañeras
viva como un pedazo de mi vida
quede como un ladrillo en otra casa.
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
No es el viento
no son los pasos sonámbulos del agua
entre las casas petrificadas y los árboles
a lo largo de la noche rojiza
no es el mar subiendo las escaleras
Todo está quieto
                                reposa el mundo natural
Es la ciudad en torno de su sombra
buscando siempre buscándose
perdida en su propia inmensidad
sin alcanzarse nunca
                                      ni poder salir de sí misma
Cierro los ojos y veo pasar los autos
se encienden y apagan y encienden
se apagan
                  no sé adónde van
Todos vamos a morir
                                        ¿sabemos algo más?

En una banca un viejo habla solo
¿Con quién hablamos al hablar a solas?
Olvidó su pasado
                                  no tocará el futuro
No sabe quién es
está vivo en mitad de la noche
                                                          habla para oírse
Junto a la verja se abraza una pareja
ella ríe y pregunta algo
su pregunta sube y se abre en lo alto
A esta hora el cielo no tiene una sola arruga
caen tres hojas de un árbol
alguien silba en la esquina
en la casa de enfrente se enciende una ventana
¡Qué extraño es saberse vivo!
Caminar entre la gente
con el secreto a voces de estar vivo

Madrugadas sin nadie en el Zócalo
sólo nuestro delirio
                                    y los tranvías
Tacuba Tacubaya Xochimilco San Ángel Coyoacán
en la plaza más grande que la noche
encendidos
                      listos para llevarnos
en la vastedad de la hora
                                                  al fin del mundo
Rayas negras
las pértigas enhiestas de los troles
                                                                        contra el cielo de piedra
y su moña de chispas su lengüeta de fuego
brasa que perfora la noche
                                                      pájaro
volando silbando volando
entre la sombra enmarañada de los fresnos
desde San Pedro hasta Mixcoac en doble fila
Bóveda verdinegra
                                      masa de húmedo silencio
sobre nuestras cabezas en llamas
mientras hablábamos a gritos
en los tranvías rezagados
atravesando los suburbios
con un fragor de torres desgajadas

Si estoy vivo camino todavía
por esas mismas calles empedradas
charcos lodos de junio a septiembre
zaguanes tapias altas huertas dormidas
en vela sólo
                        blanco morado blanco
el olor de las flores
                                      impalpables racimos
En la tiniebla
                          un farol casi vivo
contra la pared yerta
                                        Un perro ladra
preguntas a la noche
                                        No es nadie
el viento ha entrado en la arboleda
Nubes nubes gestación y ruina y más nubes
templos caídos nuevas dinastías
escollos y desastres en el cielo
                                                                Mar de arriba
nubes del altiplano ¿dónde está el otro mar?

Maestras de los ojos
                                          nubes
arquitectos de silencio
Y de pronto sin más porque sí
llegaba la palabra
                                    alabastro
esbelta transparencia no llamada
Dijiste
              haré música con ella
castillos de sílabas
                                      No hiciste nada
Alabastro
                 
sin flor ni aroma
tallo sin sangre ni savia
blancura cortada
                                  garganta sólo garganta
canto sin pies ni cabeza
Hoy estoy vivo y sin nostalgia
la noche fluye
                          la ciudad fluye
yo escribo sobre la página que fluye
transcurro con las palabras que transcurren
Conmigo no empezó el mundo
no ha de acabar conmigo
                                                  Soy
un latido en el río de latidos
Hace veinte años me dijo Vasconcelos
"Dedíquese a la filosolía
Vida no da
                      defiende de la muerte"
Y Ortega y Gasset
                                    en un bar sobre el Ródano
"Aprenda el alemán
y póngase a pensar
                                    olvide lo demás"

Yo no escribo para matar al tiempo
ni para revivirlo
escribo para que me viva y reviva
Hoy en la tarde desde un puente
vi al sol entrar en las aguas del río
Todo estaba en llamas
ardían las estatuas las casas los pórticos
En los jardines racimos femeninos
lingotes de luz líquida
frescura de vasijas solares
Un follaje de chispas la alameda
el agua horizontal inmóvil
bajo los cielos y los mundos incendiados
Cada gota de agua
                                    un ojo fijo
el peso de la enorme hermosura
sobre cada pupila abierta
Realidad suspendida
                                          en el tallo del tiempo
la belleza no pesa
                                    Reflejo sosegado
tiempo y belleza son lo mismo
                                                              luz y agua

Mirada que sostiene a la hermosura
tiempo que se embelesa en la mirada
mundo sin peso
                              si el hombre pesa
¿no basta la hermosura?
                                                  No sé nada
Sé lo que sobra
                                no lo que basta
La ignorancia es ardua como la belleza
un día sabré menos y abriré los ojos
Tal vez no pasa el tiempo
pasan imágenes de tiempo
si no vuelven las horas vuelven las presencias
En esta vida hay otra vida
la higuera aquella volverá esta noche
esta noche regresan otras noches

Mientras escribo oigo pasar el río
no éste
               
aquel que es éste
Vaivén de momentos y visiones
el mirlo está sobre la piedra gris
en un claro de marzo
                                          *****
centro de claridades
No lo maravilloso presentido
                                                          lo presente sentido
la presencia sin más
                                        nada más pleno colmado
No es la memoria
                                  nada pensado ni querido
No son las mismas horas
                                                    otras
son otras siempre y son la misma
entran y nos expulsan de nosotros
con nuestros ojos ven lo que no ven los ojos
Dentro del tiempo hay otro tiempo
quieto
              sin horas ni peso ni sombra
sin pasado o futuro
                                      sólo vivo
como el viejo del banco
unimismado idéntico perpetuo
Nunca lo vemos
                                  Es la transparencia
Cómo voy a creer / dijo el fulano
que el mundo se quedó sin utopías

cómo voy a creer
que la esperanza es un olvido
o que el placer una tristeza

cómo voy a creer / dijo el fulano
que el universo es una ruina
aunque lo sea
o que la muerte es el silencio
aunque lo sea

cómo voy a creer
que el horizonte es la frontera
que el mar es nadie
que la noche es nada

cómo voy a creer / dijo el fulano
que tu cuerpo / mengana
no es algo más que lo que palpo
o que tu amor

ese remoto amor que me destinas
no es el desnudo de tus ojos
la parsimonia de tus manos

cómo voy a creer / mengana austral
que sos tan sólo lo que miro
acaricio o penetro

cómo voy a creer / dijo el fulano
que la utopía ya no existe
si vos / mengana dulce
osada / eterna
si vos / sois mi utopía.
Poi che divelta, nella tracia polve
Giacque ruina immensa
L'italica virtute, onde alle valli
D'Esperia verde, e al tiberino lido,
Il calpestio dè barbari cavalli
Prepara il fato, e dalle selve ignude
Cui l'Orsa algida preme,
A spezzar le romane inclite mura
Chiama i gotici brandi;
Sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l'atra notte in erma sede,
Fermo già di morir, gl'inesorandi
Numi e l'averno accusa,
E di feroci note
Invan la sonnolenta aura percote.

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
Dell'inquiete larve
Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento. A voi, marmorei numi,
(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice
A cui templi chiedeste, e frodolenta
Legge al mortale insulta.
Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando
Il tuon rapido spingi,
Né giusti e pii la sacra fiamma stringi?

Preme il destino invitto e la ferrata
Necessità gl'infermi
Schiavi di morte: e se a cessar non vale
Gli oltraggi lor, dè necessarii danni
Si consola il plebeo. Men duro è il male
Che riparo non ha? dolor non sente
Chi di speranza è nudo?
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia,
Di cedere inesperto; e la tiranna
Tua destra, allor che vincitrice il grava,
Indomito scrollando si pompeggia,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride,
E maligno alle nere ombre sorride.

Spiace agli Dei chi violento irrompe
Nel Tartaro. Non fora
Tanto valor né molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e gl'infelici affetti
Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
Non fra sciagure e colpe,
Ma libera né boschi e pura etade
Natura a noi prescrisse,
Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra
Sparse i regni beati empio costume,
E il viver macro ad altre leggi addisse;
Quando gl'infausti giorni
Virile alma ricusa,
Riede natura, e il non suo dardo accusa?

Di colpa ignare e dè lor proprii danni
Le fortunate belve
Serena adduce al non previsto passo
La tarda età. Ma se spezzar la fronte
Né rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra,
Lor suadesse affanno;
Al misero desio nulla contesa
Legge arcana farebbe
O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
Figli di Prometeo, la vita increbbe;
A voi le morte ripe,
Se il fato ignavo pende,
Soli, o miseri, a voi Giove contende.

E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
Candida luna, sorgi,
E l'inquieta notte e la funesta
All'ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni
Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando né danni
Del servo italo nome,
Sotto barbaro piede
Rintronerà quella solinga sede.

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
E la fera e l'augello,
Del consueto obblio gravido il petto,
L'alta ruina ignora e le mutate
Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre,
Al mattutino canto
Quel desterà le valli, e per le balze
Quella l'inferma plebe
Agiterà delle minori belve.
Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
Siam delle cose; e non le tinte glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura,
Né scolorò le stelle umana cura.

Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi
Regi, o la terra indegna,
E non la notte moribondo appello;
Non te, dell'atra morte ultimo raggio,
Conscia futura età. Sdegnoso avello
Placàr singulti, ornàr parole e doni
Di vil caterva? In peggio
Precipitano i tempi; e mal s'affida
A putridi nepoti
L'onor d'egregie menti e la suprema
Dè miseri vendetta. A me d'intorno
Le penne il bruno augello avido roti;
Prema la fera, e il nembo
Tratti l'ignota spoglia;
E l'aura il nome e la memoria accoglia.
Poi che divelta, nella tracia polve
Giacque ruina immensa
L'italica virtute, onde alle valli
D'Esperia verde, e al tiberino lido,
Il calpestio dè barbari cavalli
Prepara il fato, e dalle selve ignude
Cui l'Orsa algida preme,
A spezzar le romane inclite mura
Chiama i gotici brandi;
Sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l'atra notte in erma sede,
Fermo già di morir, gl'inesorandi
Numi e l'averno accusa,
E di feroci note
Invan la sonnolenta aura percote.

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
Dell'inquiete larve
Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento. A voi, marmorei numi,
(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice
A cui templi chiedeste, e frodolenta
Legge al mortale insulta.
Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando
Il tuon rapido spingi,
Né giusti e pii la sacra fiamma stringi?

Preme il destino invitto e la ferrata
Necessità gl'infermi
Schiavi di morte: e se a cessar non vale
Gli oltraggi lor, dè necessarii danni
Si consola il plebeo. Men duro è il male
Che riparo non ha? dolor non sente
Chi di speranza è nudo?
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia,
Di cedere inesperto; e la tiranna
Tua destra, allor che vincitrice il grava,
Indomito scrollando si pompeggia,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride,
E maligno alle nere ombre sorride.

Spiace agli Dei chi violento irrompe
Nel Tartaro. Non fora
Tanto valor né molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e gl'infelici affetti
Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
Non fra sciagure e colpe,
Ma libera né boschi e pura etade
Natura a noi prescrisse,
Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra
Sparse i regni beati empio costume,
E il viver macro ad altre leggi addisse;
Quando gl'infausti giorni
Virile alma ricusa,
Riede natura, e il non suo dardo accusa?

Di colpa ignare e dè lor proprii danni
Le fortunate belve
Serena adduce al non previsto passo
La tarda età. Ma se spezzar la fronte
Né rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra,
Lor suadesse affanno;
Al misero desio nulla contesa
Legge arcana farebbe
O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
Figli di Prometeo, la vita increbbe;
A voi le morte ripe,
Se il fato ignavo pende,
Soli, o miseri, a voi Giove contende.

E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
Candida luna, sorgi,
E l'inquieta notte e la funesta
All'ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni
Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando né danni
Del servo italo nome,
Sotto barbaro piede
Rintronerà quella solinga sede.

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
E la fera e l'augello,
Del consueto obblio gravido il petto,
L'alta ruina ignora e le mutate
Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre,
Al mattutino canto
Quel desterà le valli, e per le balze
Quella l'inferma plebe
Agiterà delle minori belve.
Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
Siam delle cose; e non le tinte glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura,
Né scolorò le stelle umana cura.

Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi
Regi, o la terra indegna,
E non la notte moribondo appello;
Non te, dell'atra morte ultimo raggio,
Conscia futura età. Sdegnoso avello
Placàr singulti, ornàr parole e doni
Di vil caterva? In peggio
Precipitano i tempi; e mal s'affida
A putridi nepoti
L'onor d'egregie menti e la suprema
Dè miseri vendetta. A me d'intorno
Le penne il bruno augello avido roti;
Prema la fera, e il nembo
Tratti l'ignota spoglia;
E l'aura il nome e la memoria accoglia.
Amo el campus
universitario,
sin cabras,
con muchachas
que pax
pacem
en latín,
que meriendan
pas pasa pan
con chocolate
en griego,
que saben lenguas vivas
y se dejan besar
en el crepúsculo
(también en las rodillas)
y usan
la cocacola como anticonceptivo.

                Ah las flores marchitas de los libros de texto
finalizando el curso
                            deshojadas
cuando la primavera
se instala
en el culto jardín del rectorado
                            por manos todavía adolescentes
y roza con sus rosas
                            manchadas de bolígrafo y de tiza
el rostro ciego del poeta
                            transustanciándose en un olor agrio
                            a naranjas
Homero

                            o *****

                  Todo eso será un día
                  materia de recuerdo y de nostalgia.
                  Volverá, terca, la memoria
                  una vez y otra vez a estos parajes,
                  lo mismo que una abeja
                  da vueltas al perfume
                  de una flor ya arrancada:

                  inútilmente.

                  Pero esa luz no se extinguirá nunca:
                  llamas que aún no consumen
...ningún presentimiento
puede quebrar ]as risas
                  que iluminan
                  las rosas y ]os cuerpos
y cuando el llanto llegue
                  como un halo
los escombros
la descomposición
                  que los preserva entre las sombras
                  puros
no prevalecerán
serán más ruina
                    absortos en sí mismos
y sólo erguidos quedarán intactos
todavía más brillantes
                    ignorantes de sí
esos gestos de amor...
                    sin ver más nada.
Tengo tu mismo color
Y tu misma procedencia.
Somos aroma y esencia
Y amargo es nuestro sabor.
Tú viajaste a Nueva York
Con visa en Bab-el-Mandeb,
Yo mi Trópico crucé
De Abisinia a las Antillas.
Soy como ustedes semillas.
Son un grano de café.
En los tiempos coloniales
Tú me viste en la espesura
Con mi liana a la cintura
Y mis abóreos timbales.
Compañero de mis males,
Yo mismo te trasplanté.
Surgiste y yo progresé:
En los mejores hoteles
Te dijeron ¡qué bien hueles!
Y yo asentí "¡uí, mesié!".
Tú: de porcelana fina,
Cigarro puro y cognac.
Yo de smoking, yo de frac,
Yo recibiendo propina.
Tú a la Bolsa, yo a la ruina;
Tú subiste, yo bajé...
En los muelles te encontré,
Vi que te echaban al mar
Y ni lo pude evitar
Ni a las aguas me arrojé.
Y conocimos al Peón
Con su "café carretero",
Y hablando con el Obrero
Recorrimos la nación.
Se habló de revolución
Entre sorbos de café:
Cogí el machete... dudé,
¡Tú me infundiste valor
Y a sangre y fuego y sudor
Mi libertad conquisté...!
Después vimos al Poeta:
Lejano, meditabundo,
Queriendo arreglar el mundo
Con una sola cuarteta.
Yo, convertido en peseta,
Hasta sus plantas rodé:
¡Qué ojos los que iluminé,
Que trilogía formamos
Los pobres que limosneamos
El Poeta y su café...!
Tengo tu mismo color
Y tu misma procedencia,
Somos aroma y esencia
Y amargo es nuestro sabor...
¡Vamos hermanos, valor,
El café nos pide fe;
Y Changó y Ochún y Agué
Piden un grito que vibre
Por nuestra América Libre,
Libre como su café!
Diciembre ha congelado su aliento de dos filos,
y lo resopla desde los cielos congelados,
como una llama seca desarrollada en hilos,
como una larga ruina que ataca a los soldados.

Nieve donde el caballo que impone sus pisadas
es una soledad de galopante luto.
Nieve de uñas cernidas, de garras derribadas,
de celeste maldad, de desprecio absoluto.

Muerde, tala, traspasa como un tremendo hachazo,
con un hacha de mármol encarnizado y leve.
Desciende, se derrama como un deshecho abrazo
de precipicios y alas, de soledad y nieve.

Esta agresión que parte del centro del invierno,
hambre cruda, cansada de tener hambre y frío,
amenaza al desnudo con un rencor eterno,
blanco, mortal, hambriento, silencioso, sombrío.

Quiere aplacar las fraguas, los odios, las hogueras,
quiere cegar los mares, sepultar los amores:
y se va elevando lentas y diáfanas barreras,
estatuas silenciosas y vidrios agresores.

Que se derrame a chorros el corazón de lana
de tantos almacenes y talleres textiles,
para cubrir los cuerpos que queman la mañana
con la voz, la mirada, los pies y los fusiles.

Ropa para los cuerpos que pueden ir desnudos,
que pueden ir vestidos de escarchas y de hielos:
de piedra enjuta contra los picotazos rudos,
las mordeduras pálidas y los pálidos vuelos.

Ropa para los cuerpos que rechazan callados
los ataques más blancos con los huesos más rojos.
Porque tienen el hueso solar estos soldados,
y porque son hogueras con pisadas, con ojos.

La frialdad se abalanza, la muerte se deshoja,
el clamor que no suena, pero que escucho, llueve.
Sobre la nieve blanca, la vida roja y roja
hace la nieve cálida, siembra fuego en la nieve.

Tan decididamente son el cristal de roca
que sólo el fuego, sólo la llama cristaliza,
que atacan con el pómulo nevado, con la boca,
y vuelven cuanto atacan recuerdos de ceniza.
Sólo una temporada provisoria,
tatuaje de incontables tradiciones,
oscuro mausoleo donde empieza
a existir el futuro, a hacerse piedra.

Nada aquí, nada allá. Son las palabras
del mago lejanísimo y borroso.

Sin embargo, la infancia se empecina,
comienza a levantar sus inventarios,
a echar sus amplias redes para luego.
Es una isla limpia y sobre todo
fugaz, es un venero de primicias
que se van lentamente resecando.

Queda atrás como un rápido paisaje
del que persistirán sólo unas nubes,
un biombo, dos juguetes, tres racimos,
o apenas un olor, una ceniza.
Con luces queda atrás, a la intemperie,
yacente y aplazada para nunca,
sola con su aptitud irresistible
y un pudor incorpóreo, agazapado.
Para nunca aplazada, fabulosa
infancia entre sus redes extinguida.

Por algo queda atrás. Esa entrañable
cede paso al fervor, al pasmo, al fruto,
el azar hinca el diente en otra bruma,
somos los moribundos que nacemos
a la carne, a la sangre, al entusiasmo,
nos burlamos del sol, de la penumbra,
manejamos la gloria como un lápiz
y en las vírgenes tapias dibujamos
el amor y su viejo colmo, el odio,
el grito que nos pone la vergüenza
en las manos mucho antes que en la boca.

El celaje se enciende. Somos niebla
bajo el cielo compacto, insolidario,
el asombro hace cuentas y no puede
mantenernos serenos, apacibles,
somos el invasor protagonista
que hace trizas el tiempo, que hace ruido
pueril, que hace palabras, que hace pactos,
somos tan poderosos, tan eternos,
que cerramos el puño y el verano
comienza a sollozar entre los árboles.

Mejor dicho: creemos que solloza.
El verano es un.vaho, por lo tanto
no tiene ojos ni párpados ni lágrimas,
en sus tardes de atmósfera más tenue
es calor, es calor, y en las mañanas
de aire pesado, corporal, viscoso,
es calor, es calor. Con eso basta.

De todos modos cambia a las muchachas,
las ilumina, las ondula, y luego
las respira y suspira como acordes,
las envuelve en amor, las hace carne,
les pinta brazos con venitas tenues
en colores y luz complementarios,
les abre escotes para que alguien vierta
cualquier mirada, ese poderhabiente.

La vida, qué región esplendorosa.
¿Quién escruta la muerte, quién la tienta?
A la horca con él. ¿Quién piensa en esa
imposible quietud cuando es la hora
para cada uno de morder su fruta,
de usar su espejo, de gritar su grito,
de escupir a los cielos, de ir subiendo
de dos en dos todas las escaleras?

La muerte no se apura, sin embargo,
ni se aplaca. Tampoco se impacienta.
Hay tantas muertes como negaciones.
La muerte que desgarra, la que expulsa,
la que embruja, la que arde, la que agota,
la que enluta el amor, la que excrementa,
la que siega, la que usa, la que ablanda,
la muerte de arenal, la de pantano,
la de abismo, la de agua, la de almohada.

Hay tantas muertes como teologías,
pero todas se juntan en la espera.
Esa que acecha es una muerte sola.
Escarnecida, rencorosa, hueca,
su insomnio enloquecido se desploma
sobre todos los sueños, su delirio
se parece bastante a la cordura.
Muerte esbelta y rompiente, qué increíble
sirena para el Mar de los Suicidas.

No canta, pero indica, marca, alude,
exhibe sus voraces argumentos,
sus afiches turísticos, explica
por qué es tan milagrosa su inminencia,
por qué es tan atractivo su desastre,
por qué tan confortable su vacío.

No canta, pero es como si cantara.
Su demagogia negra usa palomas,
telegramas y rezos y suspiros,
sonatas para piano, arpas de herrumbre,
vitrinas del amor momificado,
relojes de lujuria que amontonan
segundos y segundos y otras prórrogas.

No canta, pero es como si cantara,
su espanto vendaval silba en la espiga,
su pregunta repica en el silencio,
su loco desparpajo exuda un réquiem
que es prado y es follaje y es almena.

Hay que volverse sordo y mudo y ciego,
sordo de amor, de amor enmudecido,
ciego de amor. Olfato, gusto y tacto
quedan para alejar la muerte y para
hundirse en la mujer, en esa ola
que es tiempo y lengua y brazos y latido,
esa mujer descanso, mujer césped,
que es llanto y rostro y siembra y apetito,
esa mujer cosecha, mujer signo,
que es paz y aliento y cábala y jadeo.

Hay que amar con horror para salvarse,
amanecer cuando los mansos dientes
muerden, para salvarse, o por lo menos
para creerse a salvo, que es bastante.
Hay que amar sentenciado y sin urgencia,
para salvarse, para guarecerse
de esa muerte que llueve hielo o fuego.

Es el cielo común, el alba escándalo,
el goce atroz, el milagroso caos,
la piel abismo, la granada abierta,
la única unidad uniyugada,
la derrota de todas las cautelas.

Hay que amar con valor, para salvarse.
Sin luna, sin nostalgia, sin pretextos,
Hay que despilfarrar en una noche
-que puede ser mil y una- el universo,
sin augurios, sin planes, sin temblores,
sin convenios, sin votos, con olvido,
desnudos cuerpo y alma, disponibles
para ser otro y otra a ras de sueño.

Bendita noche cóncava, delicia
de encontrar un abrazo a la deriva
y entrar en ese enigma, sin astucia,
y volver por el aire al aire libre,
Hay que amar con amor, para salvarse.

Entonces vienen las contradicciones
o sea la razón. El mundo existe
con manchas, sin arar, y no hay conjuro
ni fe que lo desmienta o modifique.

El manantial se seca, el árbol cae,
la sangre fluye, el odio se hace muro,
¿Es mi hermano el verdugo? Ese asesino
y dios padrastro todopoderoso,
ese señor del vómito, ese artífice
de la hecatombe, ¿puede ser mi hermano?
Surtidor de ******, profeta imbécil,
¿ése, mi prójimo?, ¿ése, el
semejante?
Sindico en todo caso de la muerte,
argumento Y proclama de la ruina,
poder y brazo ejecutor. Estiércol.

Por esta vez no he de mirar mis pasos
sino el contorno triste, calcinado.
Miro a mi sombra que está envejeciendo,
la sombra de los míos que envejecen.

El mundo existe. Con o sin sus manes,
con o sin su señal. Existe. Punto.

El mundo existe con mis ex iguales,
con mis amigos-enemigos, esos
que ya olvidé por qué se traicionaron.

Tiendo mi mano a veces y está sola
y está más sola cuando no la tiendo,
pienso en los compradores emboscados
y tengo duelo y tengo rabia y tengo
un reproche que empieza en mis lealtades,
en mis confianzas sin mayor motivo,
en mi invención del prójimo-mi-aliado.
Ni aun ahora me resigno a creerlo.

No todos son así, no todos ceden.
Tendré que repetírmelo a escondidas
y barajar de nuevo el almanaque.

Mi corazón acobardado sigue
inventando valor, abriendo créditos,
tirando cabos sólo a la siniestra,
aprendiendo a aprender, pobre aleluya,
y quién sabe, quién sabe si entre tanta
mentira incandescente, no queda algo
de verdad a la sombra. Y no es metáfora.

Nada aquí, nada allá. Son las palabras
del mago lejanísimo y borroso.

Pero ¿por qué creerle a pie juntillas?
¿En qué galaxia está el certificado?

Algo aquí, nada allá. ¿Es tan distinto?
Lo propongo debajo de mis párpados
y en mi boca cerrada.
                                      ¿Es tan distinto?
Ya sé, hay razones nítidas, famosas,
hay cien teorías sobre la derrota,
hay argumentos para suicidarse,

Pero ¿y si hay un resquicio?
                                               ¿Es
tan distinto,
tan necio, tan ridículo, tan torpe,
tener un espacioso sueño propio
donde el hombre se muera pero actúe
como inmortal?
Cogiome sin prevención
Amor, astuto y tirano:
con capa de cortesano
se me entró en el corazón.
Descuidada la razón
y sin armas los sentidos,
dieron puerta inadvertidos;
y él, por lograr sus enojos,
mientras suspendió los ojos
me salteó los oídos.

Disfrazado entró y mañoso;
mas ya que dentro se vio
del Paladión, salió
de aquel disfraz engañoso;
y, con ánimo furioso,
tomando las armas luego,
se descubrió astuto Griego
que, iras brotando y furores,
matando los defensores,
puso a toda el Alma fuego.

Y buscando sus violencias
en ella al príamo fuerte,
dio al Entendimiento muerte,
que era Rey de las potencias;
y sin hacer diferencias
de real o plebeya grey,
haciendo general ley
murieron a sus puñales
los discursos racionales
porque eran hijos del Rey.

A Casandra su fiereza
buscó, y con modos tiranos,
ató a la Razón las manos,
que era del Alma princesa.
En prisiones su belleza
de soldados atrevidos,
lamenta los no creídos
desastres que adivinó,
pues por más voces que dio
no la oyeron los sentidos.

Todo el palacio abrasado
se ve, todo destruido;
Deifobo allí mal herido,
aquí Paris maltratado.
Prende también su cuidado
la modestia en Polixena;
y en medio de tanta pena,
tanta muerte y confusión,
a la ilícita afición
sólo reserva en Elena.

Ya la Ciudad, que vecina
fue al Cielo, con tanto arder,
sólo guarda de su ser
vestigios, en su ruina.
Todo el amor lo extermina;
y con ardiente furor,
sólo se oye, entre el rumor
con que su crueldad apoya:
«Aquí yace un Alma Troya
¡Victoria por el Amor!»
Es media noche; la luna
Irradia en el firmamento;
Y riza al pasar el viento
Las ondas de la laguna.

En el bosque secular,
Y entre el tupido ramaje,
Turba el pájaro salvaje
La quietud con su cantar.

Y entre los contornos vagos
Del horizonte, a lo lejos
Brillan cual claros espejos,
Al pie del monte, los lagos.

Yace en paz, sola y rendida
De Tenoch la ciudad bella,
Parece que impera en ella
La muerte más que la vida.

Y no es ficción, es verdad;
Que fue tan triste su suerte
Que la orillan a la muerte
El luto y la soledad.
Su esplendor está apagado
De la guerra al terremoto;
El gran huebuetl está roto
Y el teponaxtle callado.

No alumbra el teocal, la luz
Del copal de suave aroma,
Porque el teocal se desploma
Bajo el peso de la cruz.

No cubren mantos de pluma
Los cuerpos de altivos reyes;
Tiene otro Dios y otras leyes
La tierra de Moctezuma.

Y ante este Dios y esta ley
Que transforman su recinto
Sólo al César Carlos Quinto
Reconoce como rey.

¡Cuántos heroicos afanes!
¡Cuántos horribles estragos
Han visto bosques y lagos,
Ventisqueros y volcanes!

Está el palacio vacío
Sin pompas ni ricas galas;
Desiertas se ven sus salas
Su exterior mudo y sombrío.

Y zumba en su derredor
Sel viento la aguda queja,
Como un suspiro que deja
Honda impresión de dolor.

Es el profundo lamento
De una raza sin fortuna:
¡La sangre que en la laguna
Flota y se queja en el viento!

Por eso duerme rendida
De Tenoch la ciudad bella,
Como si imperase en ella
La muerte más que la vida.
Frente a la anchurosa plaza,
Cerca del teocal sagrado
Y del palacio olvidado
Que pronta ruina amenaza,

Donde con riqueza suma
Viviera, en tiempo mejor,
Axayacatl el señor
Y padre de Moctezuma,

En corta y estrecha calle
Desde la cual, el que pasa
Mira fabricar la casa
Del alto marqués del Valle.

Así en la noche sombría
Como en la tarde callada
Y al fulgor de la alborada
Con que nace el nuevo día,

En toscas piedras sentado
Y con harapos vestido,
Entre las manos hundido
El semblante demacrado;

Un hombre de aspecto rudo,
Imagen de desventura,
Siempre en la misma postura,
Y como una estatua muda,

Inclinada la cabeza,
Allí lo encuentra la gente,
como la expresión viviente
De la más honda tristeza.

¿En qué piensa? ¿Qué medita?
¿Qué dolor su alma destroza
Que ni llora, ni solloza,
Ni se queja, ni se agita?

En su conjunto reviste
Tanta tristeza ignorada,
Que la gente acostumbrada
clama al verlo: «¡el indio triste!»

Le conocen por tal nombre
En el pueblo y la nobleza,
Y dicen: es la tristeza
Que tiene formas de hombre.

A nadie llegó a contar
Su tenaz dolor profundo;
Siempre triste lo vio el mundo
En aquel mismo lugar;

Tal vez fue algún descendiente
De los nobles mejicanos,
Que al ver en extrañas manos
Y en poder de extraña gente

La nación que libre un día
Vivió con riqueza y calma
Sintió en el fondo del alma
Horrible melancolía.

Y sin ninguna amenaza,
Viendo a su nación cautiva,
Fue la expresión muda y viva
De la aflicción de su raza.

Muchos años se le vio
En igual sitio sentado,
Y allí pobre y resignado
De su tristeza murió.

Su desconocida historia
Al vulgo pasma y arredra,
Y en tosca estatua de piedra
Honrar quiso su memoria.

La estatua al cabo cayó,
Que al tiempo nada resiste,
Y «Calle del Indio Triste»
Esa calle se llamó,

Sin poder averiguar
Con ciencia ni sutileza
La causa de la tristeza
Del indio de aquel lugar;

Pero en nuestro hermoso valle,
Y en nuestra mejor ciudad,
Pasan de edad en edad
Ese nombre y esa calle.
Jessika Jun 2015
Mi nombre es Jessika Mancera, pero no es mi nombre completo ya que en realidad es compuesto.
Soy una cobarde con nombre de Valiente que de vez en cuando firma con el mismo a forma de alter ego...
He perdido tantas personas que califique como indispensables para mí que al irse, mi visión, mi estructura suma en la que edificaba el mundo cambiaba y yo, no tenia intención de construir sobre ruina. Fue así como en una ocasión alguien me dijo que tenía una belleza rara, que sonreía y los ojos se me iluminaban; pero en ellos se veía melancolía, se divisaba la tristeza.
Con los años, con los cambios, con el fluir reafirmé mi posición desde donde muy poco importa: "Si la humanidad es tan solo un diminuto punto en la historia del universo, ¿por qué mi vida, por qué yo misma habría de importar?"
Sin embargo me encargue de dar un poco de mi a quien cruzaba para no volver jamás; Incluso si con ella yo misma desaparecía.
¿Quién te verá, ciudad de manzanilla,
amorosa ciudad, la ciudad más esbelta,
que encima de una torre llevas puesto: Sevilla?

Dolor a rienda suelta:
la ciudad de cristal se empaña, cruje.
Un tormentoso toro da una vuelta
al horizonte y al silencio, y muge.

Detrás del toro, al borde de su ruina,
la ciudad que viviera
bajo una cabellera de mujer soleada,
sobre una perfumada cabellera,
la ciudad cristalina
yace pisoteada.

Una bota terrible de alemanes poblada
hunde su marca en el jazmín ligero,
pesa sobre el naranjo aleteaste:
y pesa y hunde su talón grosero
un general de vino desgarrado,
de lengua pegajosa y vacilante,
de bigotes de alambre groseramente astado.

Mirad, oíd: mordiscos en las rejas,
cepos contra las manos,
horrores reluciendo por las cejas,
luto en las azoteas, muerte en los sevillanos.

Cólera contenida por los gestos,
carne despedazada ante la soga,
y lágrimas ocultas en los tiestos,
en las roncas guitarras donde un pueblo se ahoga.

Un clamor de oprimidos,
de huesos que exaspera la cadena,
de tendones talados, demolidos
por un cuchillo siervo de una hiena.

Se nubló la azucena,
la airosa maravilla:
patíbulos y cárceles degüellan los gemidos,
la juventud, el aire de Sevilla.


Amordazado el ruiseñor, desierto
el arrayán, el día deshonrado,
tembloroso el cancel, el patio muerto
y el surtidos, en medio, degollado.

¿Qué son las sevillanas
de claridad radiante y penumbrosa?
Mantillas mustias, mustias porcelanas
violadas a la orilla de la fosa.

Con angustia y claveles oprime sus ventanas
la población de abril. La cal se altera
eclipsada con rojo zumo humano.

Guadalquivir, Guadalquivir, espera:
¡no te lleves a tanto sevillano!
Por mi ruina hueca,
anda un pausado viento
esta tarde encendida.
-Alrededor, la tierra seca
refulje, en un ondulamiento
de mieses de otra vida-.

...El rumor corresponde
a aquel rumor... ¿de dónde?;
la esencia a aquélla, ¿a cuál esencia?...
Sí, fue una tarde de esta trasparencia,
en un campo... ¿de dónde?

Y el olor rumoroso y trasparente,
como un verdón trasfigurado,
que va a cantar ya eternamente,
se entra, dorado, por mi vana frente
y sale por mi vano corazón, dorado.
Sólo una temporada provisoria,
tatuaje de incontables tradiciones,
oscuro mausoleo donde empieza
a existir el futuro, a hacerse piedra.

Nada aquí, nada allá. Son las palabras
del mago lejanísimo y borroso.

Sin embargo, la infancia se empecina,
comienza a levantar sus inventarios,
a echar sus amplias redes para luego.
Es una isla limpia y sobre todo
fugaz, es un venero de primicias
que se van lentamente resecando.

Queda atrás como un rápido paisaje
del que persistirán sólo unas nubes,
un biombo, dos juguetes, tres racimos,
o apenas un olor, una ceniza.
Con luces queda atrás, a la intemperie,
yacente y aplazada para nunca,
sola con su aptitud irresistible
y un pudor incorpóreo, agazapado.
Para nunca aplazada, fabulosa
infancia entre sus redes extinguida.

Por algo queda atrás. Esa entrañable
cede paso al fervor, al pasmo, al fruto,
el azar hinca el diente en otra bruma,
somos los moribundos que nacemos
a la carne, a la sangre, al entusiasmo,
nos burlamos del sol, de la penumbra,
manejamos la gloria como un lápiz
y en las vírgenes tapias dibujamos
el amor y su viejo colmo, el odio,
el grito que nos pone la vergüenza
en las manos mucho antes que en la boca.

El celaje se enciende. Somos niebla
bajo el cielo compacto, insolidario,
el asombro hace cuentas y no puede
mantenernos serenos, apacibles,
somos el invasor protagonista
que hace trizas el tiempo, que hace ruido
pueril, que hace palabras, que hace pactos,
somos tan poderosos, tan eternos,
que cerramos el puño y el verano
comienza a sollozar entre los árboles.

Mejor dicho: creemos que solloza.
El verano es un.vaho, por lo tanto
no tiene ojos ni párpados ni lágrimas,
en sus tardes de atmósfera más tenue
es calor, es calor, y en las mañanas
de aire pesado, corporal, viscoso,
es calor, es calor. Con eso basta.

De todos modos cambia a las muchachas,
las ilumina, las ondula, y luego
las respira y suspira como acordes,
las envuelve en amor, las hace carne,
les pinta brazos con venitas tenues
en colores y luz complementarios,
les abre escotes para que alguien vierta
cualquier mirada, ese poderhabiente.

La vida, qué región esplendorosa.
¿Quién escruta la muerte, quién la tienta?
A la horca con él. ¿Quién piensa en esa
imposible quietud cuando es la hora
para cada uno de morder su fruta,
de usar su espejo, de gritar su grito,
de escupir a los cielos, de ir subiendo
de dos en dos todas las escaleras?

La muerte no se apura, sin embargo,
ni se aplaca. Tampoco se impacienta.
Hay tantas muertes como negaciones.
La muerte que desgarra, la que expulsa,
la que embruja, la que arde, la que agota,
la que enluta el amor, la que excrementa,
la que siega, la que usa, la que ablanda,
la muerte de arenal, la de pantano,
la de abismo, la de agua, la de almohada.

Hay tantas muertes como teologías,
pero todas se juntan en la espera.
Esa que acecha es una muerte sola.
Escarnecida, rencorosa, hueca,
su insomnio enloquecido se desploma
sobre todos los sueños, su delirio
se parece bastante a la cordura.
Muerte esbelta y rompiente, qué increíble
sirena para el Mar de los Suicidas.

No canta, pero indica, marca, alude,
exhibe sus voraces argumentos,
sus afiches turísticos, explica
por qué es tan milagrosa su inminencia,
por qué es tan atractivo su desastre,
por qué tan confortable su vacío.

No canta, pero es como si cantara.
Su demagogia negra usa palomas,
telegramas y rezos y suspiros,
sonatas para piano, arpas de herrumbre,
vitrinas del amor momificado,
relojes de lujuria que amontonan
segundos y segundos y otras prórrogas.

No canta, pero es como si cantara,
su espanto vendaval silba en la espiga,
su pregunta repica en el silencio,
su loco desparpajo exuda un réquiem
que es prado y es follaje y es almena.

Hay que volverse sordo y mudo y ciego,
sordo de amor, de amor enmudecido,
ciego de amor. Olfato, gusto y tacto
quedan para alejar la muerte y para
hundirse en la mujer, en esa ola
que es tiempo y lengua y brazos y latido,
esa mujer descanso, mujer césped,
que es llanto y rostro y siembra y apetito,
esa mujer cosecha, mujer signo,
que es paz y aliento y cábala y jadeo.

Hay que amar con horror para salvarse,
amanecer cuando los mansos dientes
muerden, para salvarse, o por lo menos
para creerse a salvo, que es bastante.
Hay que amar sentenciado y sin urgencia,
para salvarse, para guarecerse
de esa muerte que llueve hielo o fuego.

Es el cielo común, el alba escándalo,
el goce atroz, el milagroso caos,
la piel abismo, la granada abierta,
la única unidad uniyugada,
la derrota de todas las cautelas.

Hay que amar con valor, para salvarse.
Sin luna, sin nostalgia, sin pretextos,
Hay que despilfarrar en una noche
-que puede ser mil y una- el universo,
sin augurios, sin planes, sin temblores,
sin convenios, sin votos, con olvido,
desnudos cuerpo y alma, disponibles
para ser otro y otra a ras de sueño.

Bendita noche cóncava, delicia
de encontrar un abrazo a la deriva
y entrar en ese enigma, sin astucia,
y volver por el aire al aire libre,
Hay que amar con amor, para salvarse.

Entonces vienen las contradicciones
o sea la razón. El mundo existe
con manchas, sin arar, y no hay conjuro
ni fe que lo desmienta o modifique.

El manantial se seca, el árbol cae,
la sangre fluye, el odio se hace muro,
¿Es mi hermano el verdugo? Ese asesino
y dios padrastro todopoderoso,
ese señor del vómito, ese artífice
de la hecatombe, ¿puede ser mi hermano?
Surtidor de ******, profeta imbécil,
¿ése, mi prójimo?, ¿ése, el
semejante?
Sindico en todo caso de la muerte,
argumento Y proclama de la ruina,
poder y brazo ejecutor. Estiércol.

Por esta vez no he de mirar mis pasos
sino el contorno triste, calcinado.
Miro a mi sombra que está envejeciendo,
la sombra de los míos que envejecen.

El mundo existe. Con o sin sus manes,
con o sin su señal. Existe. Punto.

El mundo existe con mis ex iguales,
con mis amigos-enemigos, esos
que ya olvidé por qué se traicionaron.

Tiendo mi mano a veces y está sola
y está más sola cuando no la tiendo,
pienso en los compradores emboscados
y tengo duelo y tengo rabia y tengo
un reproche que empieza en mis lealtades,
en mis confianzas sin mayor motivo,
en mi invención del prójimo-mi-aliado.
Ni aun ahora me resigno a creerlo.

No todos son así, no todos ceden.
Tendré que repetírmelo a escondidas
y barajar de nuevo el almanaque.

Mi corazón acobardado sigue
inventando valor, abriendo créditos,
tirando cabos sólo a la siniestra,
aprendiendo a aprender, pobre aleluya,
y quién sabe, quién sabe si entre tanta
mentira incandescente, no queda algo
de verdad a la sombra. Y no es metáfora.

Nada aquí, nada allá. Son las palabras
del mago lejanísimo y borroso.

Pero ¿por qué creerle a pie juntillas?
¿En qué galaxia está el certificado?

Algo aquí, nada allá. ¿Es tan distinto?
Lo propongo debajo de mis párpados
y en mi boca cerrada.
                                      ¿Es tan distinto?
Ya sé, hay razones nítidas, famosas,
hay cien teorías sobre la derrota,
hay argumentos para suicidarse,

Pero ¿y si hay un resquicio?
                                               ¿Es
tan distinto,
tan necio, tan ridículo, tan torpe,
tener un espacioso sueño propio
donde el hombre se muera pero actúe
como inmortal?
Allá del revuelto mar
Tras los secos arenales,
Donde sus limpios cristales
Las ondas van a estrellar,
Donde en lucha singular
Disputando a la Fortuna
Las ciudades una a una,
De sus guerreros el brío,
Mostraron su poderío
La cruz y la media luna;

En esa tierra encantada,
Que esconde, en perpetuo Abril,
Las lágrimas de Boabdil
En las vegas de Granada;
Donde el ave enamorada
Repite entre los vergeles
El canto de los gomeles,
Y cuelga su frágil nido
Del minarete prendido
Entre ojivas y caireles;

Donde soñados ultrajes
Vengaron fieros zegríes,
Regando los alelíes,
Con sangre de abencerrajes;
donde entre muros de encajes
Y torres de filigrana,
Lloró la hermosa sultana
Amorosos sentimientos
A los rítmicos acentos
De una trova castellana;

Allá donde nueva luz
Alumbró, limpia y serena,
Sobre la morisca almena
Al símbolo de la cruz;
En ese suelo andaluz,
Cuyos cármenes hollando,
Y en otro mundo soñando,
Cruzaron en su corcel
La magnánima Isabel
Y el católico Fernando.

En esa región que encierra
Tantos recuerdos de gloria;
En ese altar de la Historia;
En ese edén de la tierra;
No el azote de la guerra
Infunde duelo y pavor,
Ni causa fiero dolor
Que mira asombrado el mundo
El ***** contagio inmundo;
Allí otra plaga mayor.

Surgen allí tempestades
Del suelo entre las entrañas,
Y vacilan las montañas,
Y se arrasan las ciudades
Escombros y soledades
Son el cortijo y la aldea;
La muerte se enseñorea,
Y, en medio a tanta ruina,
Se ve cual llama divina
La Caridad que flamea.

Con sordo bramido el duelo
Todo lo enluta y recorre;
Yace la maciza torre
En pedazos sobre el suelo.
Salvarse forma el anhelo
De los espantados seres,
Y hombres, niños y mujeres
Las crispadas manos juntan,
Y viendo al cielo preguntan.
«Dinos Dios, ¿por qué nos hieres?»

Recordando en sus delitos
las bíblicas amenazas,
Van por las calles y plazas
Confesándolos a gritos.
Los corazones precitos
Se niegan a palpitar
Y todos ven transformar
Al golpe del terremoto,
El abismo el verde soto,
Y en escombros el hogar.

Se abate el pesado muro
Que adornó silvestre yedra
Y brotan de cada piedra
Una oración y un conjuro.
No hay un asilo seguro;
Ciérnese el ángel del mal;
Cada fosa sepulcral
Ábrese ante fuerza extraña,
Y parece que en España
Comienza el juicio final.

Y entre la nube sombría
Que el denso polvo levanta,
El coro terrible espanta
De los gritos de agonía.
Y entre aquella vocería,
Con rostro desencajado,
El padre busca espantado,
Con ayes desgarradores
El nido de sus amores,
Entre escombros sepultado.

Convulsa, pálida errante,
Sobre el suelo que se agita
La madre se precipita
Por la angustia delirante;
Vuela en pos del hijo amante;
El rostro al abismo asoma
Lo llama llorando, y toma
Por voz del hijo querido,
La que acompaña al crujido
De un techo que se desploma.

En repentina orfandad,
Trémulas las manos tienden
Los niños, que no comprenden
Su espantosa soledad.
Tan sólo la caridad
Velará después por ellos,
Curando con sus destellos
su miseria y su aflicción:
¡Cómo no amarlos, si son
Tan inocentes, tan bellos!

¿Qué pecho no se conmueve
Ante cuadro tan sombrío,
Que al corazón más bravío
A contemplar no se atreve?
Ante el infortunio aleve
¿Quién no es noble? ¿quién no es bueno?
¿Quién de piedad no está lleno,
Cuando es la virtud mayor,
Aun más que el propio dolor,
Sentir el dolor ajeno?

Manda ¡oh, noble patria mía!
La ofrenda de tus piedades
A las hoy tristes ciudades
De la hermosa Andalucía.
No es favor, es hidalguía;
Es deber, no vanidad.
Llamen otros Caridad
Estos óbolos del hombre,
Tienen nombre, sólo un nombre;
Se llama Fraternidad.

Con tierno entusiasmo santo,
Mezcla ¡oh patria amante y buena!
Esa pena con tu pena,
Ese llanto con tu llanto.
Si al mirar ese quebranto,
Tu triste historia repasas,
Verás que angustias no escasas
Pasó, entre llantos prolijos,
Por amparar a tus hijos
Bartolomé de las Casas.
Volando del vértice
del mal y del bien,
es independiente
la saltapared.
Y su principado,
la ermita que fue
granero después.
Sobre los tableros
de la ruina fiel,
la saltapared
juega su ajedrez,
sin tumbar la reina,
sin tumbar al rey...
Ave matemática,
nivelada es
como una ruleta
que baja y que sube
feliz, a cordel.
Su voz vergonzante
llora la doblez
con que el mercader
se llevó al canario
y al gorrión también
a la plaza pública,
a sacar la suerte
del señor burgués.
Del tejado bebe
agua olvidadiza
de los aguaceros,
porque transparente
su cuerpo albañil
gratuito nivel.
Y al ángel que quiere
reconstruir la ermita
del eterno Rey,
sirve de plomada
la saltapared.
Para que yo me llame Ángel González,
para que mi ser pese sobre el suelo,
fue necesario un ancho espacio
y un largo tiempo:
hombres de todo el mar y toda tierra,
fértiles vientres de mujer, y cuerpos
y más cuerpos, fundiéndose incesantes
en otro cuerpo nuevo.
Solsticios y equinoccios alumbraron
con su cambiante luz, su vario cielo,
el viaje milenario de mi carne
trepando por los siglos y los huesos.
De su pasaje lento y doloroso
de su huida hasta el fin, sobreviviendo
naufragios, aferrándose
al último suspiro de los muertos,
yo no soy más que el resultado, el fruto,
lo que queda, podrido, entre los restos;
esto que veis aquí,
tan sólo esto:
un escombro tenaz, que se resiste
a su ruina, que lucha contra el viento,
que avanza por caminos que no llevan
a ningún sitio. El éxito
de todos los fracasos. La enloquecida
fuerza del desaliento...
Esta cotidiana no se apoya en ninguna mutación trascendente
hoy es tan sólo un viernes de poca monta
sin noticias o trazos demasiado malos
ni tampoco demasiado buenos funcionan normalmente
las endocrinas y los semáforos
las pompas fúnebres y las de jabón
unos llegan berreando otros parten silentes
otros más se aprontan a llegar o a partir
en líneas generales el pronóstico del tiempo
acierta por fin con las turbonadas
y es justo subrayar que hoy ha logrado
truenos corroborantes
esta cotidiana es tan sólo costumbr
apenas un viernes de pobre vestimenta
pero aquí se levantan las casas del hombre
a veces existen con un ruido infernal
y otras veces duermen en silencio amoroso
sólo interrumpido por crujiditos
que pueden ser jadeos conyugales
o también calambres de la madera
sin embargo allí crecen el trabajo y la muerte
el vientre rebosante de futuro
y el viejo que no puede con sus huesos
entran por las persianas tataguas y mosquitos
y hay un latido general que es la vida
sólo rutina y sin embargo
las manos besan
los ojos palpan
los labios ven
nosotros
es decir nuestros otros
venimos
vienen
a explorar la memoria milagrosa y austera
no hay tiempo que perder
más bien hay mucho tiempo que ganar
mientras atisbo con audacia y cautela
por entre mis dedos más o menos fogueados
y veo que entre vestigios tristes y rutinarios
nacen flores de rutinario regocijo
tan sólo hábito y querencia
el enjambre adolescente se encamina a sus clásicos manantiales
pero antes de llegar se cruza con los veteranos que regresan
y los árboles ya no saben qué hacer con las preguntas
tan sólo práctica y costumbre
y de vez en cuando un salto de prodigio
en el que algunos se desnucan y otros cambian el mundo
y con las nucas rotas y las glorias que alumbran
con mártires de un día y visionarios de medio siglo
se va armando la historia como un sueño portátil
la rutina es después de todo una crisálida
una comarca de posibilidades e imposibles
de la costumbre puede estallar lo insólito
del hábito el deshábito
por eso este viernes de opaca textura
es casi un campamento de recuerdos
un filtro de presagios
uno de los confines del futuro
tallo ritual de lo ordinario
y también bulbo de lo extraordinario
sabemos algo de lo que está muriendo
pero muy poco de lo que empieza a ser
este viernes turbio durante el cual se gestan
sórdidas guerras frías y escaramuzas ígneas
mientras el consumismo se dedica a llenar
nuestras necesidades más innecesarias
el lujo escupe dádivas sobre la miseria
y a veces la miseria escupe metralla
esta jornada sin toque de campanas
sin titulares a ocho columnas
ni aguaceros radioactivos
sin naufragios ideológicos
ni exorcismos generacionales
lleva en sí misma el triunfo y el desastre
y la infinitesimal responsabilidad que nos toca
de una disyuntiva a nivel de universo
resulta sin embargo abrumadora
así de esta rutina vulnerable
de esta costumbre de inclemencia y cielo
de este hábito propenso a la aventura
de esta querencia con señales de humo
debemos elegir o tan sólo inventar
un largo paso desacostumbrado
una limpia e intrépida zancada
una rampa que no lleve al abismo
un envión que tumbe las derrotas
un trampolín que nos lance a mañana
aunque allí nos espere otra ruina
otra vida común
otra crisálida.
Ya la provincia toda
reconcentra a sus sanas hijas en las caducas
avenidas, y Rut y Rebeca proclaman
la novedad campestre de sus nucas.
Las pobres desterradas
de Morelia y Toluca, de Durango y San Luis,
aroman la Metrópoli como granos de anís.
La parvada maltrecha
de alondras, cae aquí con el esfuerzo
fragante de las gotas de un arbusto
batido por el cierzo.
Improvisan su tienda
para medir, cuadrantes pesarosos,
la ruina de su paz y de su hacienda.
Ellas, las que soñaban
perdidas en los vastos aposentos,
duermen en hospedajes avarientos.
Propietarios de huertos y de huertas copiosas,
regatean las frutas y las rosas.
Con sus modas pasadas
y sus luengos zarcillos
y su mirar somero,
inmútanse a los brillos
de los escaparates de un joyero.
Y después, a evocar la sandía tropa
de pavos, y su susto manifiesto
cuando bajaban por aquel recuesto...
¡Oh siestas regalonas,
melindre ante la jícara que humea,
soponcio ante la recua intempestiva
que tumba las macetas de las pardas casonas;
lotería de nueces,
y Tenorio que flecha el historiado
postigo de las rejas antañonas!
Paso junto a las lentas fugitivas: no saben
en su desgarbo airoso y en su activo quietismo,
la derretida y pura
compensación que logra su ostracismo
sobre mi pecho, para ellas holgadamente
hospitalario, aprensivo y munificente.
Yo os acojo, anónimas y lentas desterradas,
como si a mí viniese
la lúcida familia de las hadas,
porque oléis al opíparo destino
y al exaltado fuero
de los calabazates que sazona
el resol del Adviento, en la cornisa
recoleta y poltrona.
Vincent Salomon Jul 2017
Ojos apagados de brillos efímeros
De labios carmesí entre el delirio más ínfimo,
De brillos angelicales; ropajes monárquicos
Besos cardinales, de encuentros íntimos.

Hija del rey, diosa de diosas; linaje élfico
Cantares de coloquios, en runas remotas
De lenguas perdidas, de zares absurdos
Mi madrigal por nombre, lleva el suyo.

En la ciénaga hueca, de las laderas altas
Bajo la falda de las montañas, dónde la luz es baja.
Sobre rocas, sobre ruina, sobre ti
Cantan en tierras lejanas, de la reina y sobre mí.

Oh, sin el rey que canto ama.
Porque acá sólo hay delito,
¡Ay! ¡Sin ese rey, que tanto aclaman!
Porque este amor es finito.

Un errante peregrino; ambulante de compañía
Señor de nada que se e haya perdido,
Pero de extraña joyería
La reina cabellos de oro, y un mercader vendido.
en región asolada por la sequía
en año que se pierde la cosecha
son ricos ¡oh querida! los que
no presencian la ruina de su país
la destrucción de su familia
la pérdida del vuelo hacia adelante
del vuelo tortuoso del vuelo de través
la desaparición del vuelo en compañía y
del vuelo ligero que es el octavo

son ricos son riquísimos los que
no han conocido las sobras del sacrificio
o cómo los dolores con el tiempo
se van secando apagando y se los pisa
y crujen como padecimientos y
después se los come el olvido

¡oh querida! mal alimento es
el dolor la vejez el mal de amores
no se soporta mucho en realidad
y cada vez se está más solo

he pensado en la cosecha perdida y
eres como el otoño
donde los soles doran
pasada claridad
William Jun 2017
Me la he pasado pensando en ti estos días
Quisiera que me regalaras tu autoría
Porque me encantaría que
Esa obra de arte fuese mía
Y aunque no me pertenezcas
Créeme, yo por ti moriría

He estado deprimido hoy
No me siento vivo, estoy en la ruina
He cenado sangre anoche
Pero quisiera probar algo hoy
Algo mucho más eficaz
Tragaré una bala hueca, tal vez eso funcionará.
Un quieto resplandor me inunda y ciega,
un deslumbrado círculo vacío,
porque a la misma luz su luz la niega.

Cierro los ojos y a mi sombra fío
esta inasible gloria, este minuto,
y a su voraz eternidad me alío.

Dentro de mí palpita, flor y fruto,
la aprisionada luz, ruina quemante,
vivo carbón, pues lo encendido enluto.

Ya entraña temblorosa su diamante,
en mí se funde el día calcinado,
brasa interior, coral agonizante.

En mi párpado late, traspasado,
el resplandor del mundo y sus espinas
me ciegan, paraíso clausurado.

Sombras del mundo, cálidas rüinas,
sueñan bajo mi piel y su latido
anega, sordo, mis desiertas minas.

Lento y tenaz, el día sumergido
es una sombra trémula y caliente,
un ***** mar que avanza sin sonido,

ojo que gira ciego y que presiente
formas que ya no ve y a las que llega
por mi tacto, disuelto en mi corriente.

Cuerpo adentro la sangre nos anega
y ya no hay cuerpo más, sino un deshielo,
una onda, vibración que se disgrega.

Medianoche del cuerpo, toda cielo,
bosque de pulsaciones y espesura,
nocturno mediodía del subsuelo,

¿este caer en una entraña obscura
es de la misma luz del mediodía
que erige lo que toca en escultura?

-El cuerpo es infinito y melodía.
Leydis Jan 2018
Creo conocerlo

Un guerrero indomable
con un corazón inquieto,
un niño travieso extraviado
en los intentos del que tiene
que florecer con apresura.

Un hombre incansable
con una coraza dura,
con una mirada llena de complicidad,
de ternura, de lujuria,
de un pasado que quiere entregarse a su futuro
sin tener que revivir las heridas de su presente.

Un hombre insaciable,
que ensombrece los débiles rayos del sol
ante la intensidad que él transfiere.
Con una luz que ofusca, con la cara lacerada
evidenciando todas la batallas avaluadas en su cara.

La anarquía su guía de vida,
algunos les llaman El Bohemio,
otros bisoño, yo le llamo El Solitario.

Él ante nadie se rinde, o, completamente se entrega,
a nadie le pertenece, pero su mirada su soledad despliega;
ese deseo de tener la dicha de quien mire más allá de su armadura,
de quien reconozca su alma, de quien no quisiese blanquear sus manchas.

Él quiere en una mirada encontrar calma,
caminar juntos el trayecto sin fechas de ruina
pero entregarse paz en cada prueba, sin perder .  

No sé por qué se tanto de él,
porque siento tanta afinación por su ser,
porque siento sus heridas en mi piel,
y, sus manchas las he visto en algún
espejo donde alguna vez me mire.

No sé por qué me estremece su mirada,
porque siento conocerlo,
porque siento necesidad de protegerlo,
él no es mío y nunca le he pertenecido,
No sé………………………………………………….
talvez lo recuerda mi alma de alguna otra vida.

LeydisProse
1/31/2018
https://m.facebook.com/LeydisProse/
Por desplumar arcángeles glaciales,
la nevada lilial de esbeltos dientes
es condenada al llanto de las fuentes
y al desconsuelo de los manantiales.

Por difundir su alma en los metales,
por dar el fuego al hierro sus orientes,
al dolor de los yunques inclementes
lo arrastran los herreros torrenciales.

Al doloroso trato de la espina,
al fatal desaliento de la rosa
y a la acción corrosiva de la muerte

arrojado me veo, y tanta ruina
no es por otra desgracia ni por otra cosa
que por quererte y sólo por quererte.
Faltar pudo a Scipión Roma opulenta,
Mas a Roma Scipíón faltar no pudo;
Sea Blasón de su envidia, que mi escudo,
Que del Mundo triunfó, cede a su afrenta.
Si el mérito Africano la amedrenta,
De hazañas y laureles me desnudo;
Muera en destierro en este baño rudo,
Y Roma de mi ultraje esté contenta.
Que no escarmiente alguno en mí quisiera,
Viendo la ofensa que me da por pago,
Porque no falte quien servirla quiera.
Nadie llore mi ruina ni mi estrago,
Pues será a mi Ceniza cuando muera,
Epitafio Aníbal, Urna Cartago.
La venta de Cidones está en la carretera
que va de Soria a Burgos. Leonarda, la ventera,
que llaman la Ruipérez, es una viejecita
que aviva el fuego donde borbolla la marmita.Ruipérez, el ventero, un viejo diminuto
-bajo las cejas grises, dos ojos de hombre astuto-,
contempla silencioso la lumbre del hogar.Se oye la marmita al fuego borbollar.Sentado ante una mesa de pino, un caballero
escribe. Cuando moja la pluma en el tintero,
dos ojos tristes lucen en un semblante enjuto.El caballero es joven, vestido va de luto.El viento frío azota los chopos del camino.
Se ve pasar de polvo un blanco remolino.La tarde se va haciendo sombría. El enlutado,
la mano en la mejilla, medita ensimismado.Cuando el correo llegue, que el caballero aguarda,
la tarde habrá caído sobre la tierra parda
de Soria. Todavía los grises serrijones,
con ruina de encinares y mellas de aluviones,
las lomas azuladas, las agrias barranqueras,
picotas y colinas, ribazos y laderas
del páramo sombrío por donde cruza el Duero,
darán al sol de ocaso su resplandor de acero.La venta se oscurece. El rojo lar humea.
La mecha de un mohoso candil arde y chispea.El enlutado tiene clavado en el fuego
los ojos largo rato; se los enjuga luego
con un pañuelo blanco. ¿Por qué le hará llorar
el son de la marmita, el ascua del hogar?Cerró la noche. Lejos se escucha el traqueteo
y el galopar de un coche que avanza. Es el correo.
¿Qué les queda por probar a los jóvenes
en este mundo de paciencia y asco?
¿sólo grafitti? ¿rock? ¿escepticismo?
también les queda no decir amén
no dejar que les maten el amor
recuperar el habla y la utopía
ser jóvenes sin prisa y con memoria
situarse en una historia que es la suya
no convertirse en viejos prematuros

¿qué les queda por probar a los jóvenes
en este mundo de rutina y ruina?
¿cocaína? ¿cerveza? ¿barras bravas?
les queda respirar / abrir los ojos
descubrir las raíces del horror
inventar paz así sea a ponchazos
entenderse con la naturaleza
y con la lluvia y los relámpagos
y con el sentimiento y con la muerte
esa loca de atar y desatar

¿qué les queda por probar a los jóvenes
en este mundo de consumo y humo?
¿vértigo? ¿asaltos? ¿discotecas?
también les queda discutir con dios
tanto si existe como si no existe
tender manos que ayudan / abrir puertas
entre el corazón propio y el ajeno /
sobre todo les queda hacer futuro
a pesar de los ruines del pasado
y los sabios granujas del presente
Sí, tu niñez ya fábula de fuentes.
El tren y la mujer que llena el cielo.
Tu soledad esquiva en los hoteles
y tu máscara pura de otro signo.
Es la niñez del mar y tu silencio
donde los sabios vidrios se quebraban.
Es tu yerta ignorancia donde estuvo
mi torso limitado por el fuego.
Norma de amor te di, hombre de Apolo,
llanto con ruiseñor enajenado,
pero, pasto de ruina, te afilabas
para los breves sueños indecisos.
Pensamiento de enfrente, luz de ayer,
índices y señales del acaso.
Tu cintura de arena sin sosiego
atiende sólo rastros que no escalan.
Pero yo he de buscar por los rincones
tu alma tibia sin ti que no te entiende,
con el dolor de Apolo detenido
con que he roto la máscara que llevas.
Allí, león, allí, furia del cielo,
te dejaré pacer en mis mejillas;
allí, caballo azul de mi locura,
pulso de nebulosa y minutero,
he de buscar las piedras de alacranes
y los vestidos de tu madre niña,
llanto de medianoche y paño roto
que quitó luna de la sien del muerto.
Sí, tu niñez ya fábula de fuentes.
Alma extraña de mi hueco de venas,
te he de buscar pequeña y sin raíces.
¡Amor de siempre, amor, amor de nunca!
¡Oh, sí! Yo quiero. ¡Amor, amor! Dejadme.
No me tapen la boca los que buscan
espigas de Saturno por la nieve
o castran animales por un cielo,
clínica y selva de la anatomía.
Amor, amor, amor. Niñez del mar.
Tu alma tibia sin ti que no te entiende.
Amor, amor, un vuelo de la corza
por el pecho sin fin de la blancura.
Y tu niñez, amor, y tu niñez.
El tren y la mujer que llena el cielo.
Ni tú, ni yo, ni el aire, ni las hojas.
Sí, tu niñez ya fábula de fuentes.
Tirano de Adria el Euro, acompañada
De invierno y noche la rugosa frente,
Sañudo se arrojó e inobediente,
La cárcel rota y la prisión burlada.
Bien presumida y mal aconsejada,
Pomposa Nave sus enojos siente.
Gime el Mar ronco temerosamente,
Líquida muerte bebe gente osada,
Cuando en maligno escollo inadvertida,
De escarmientos la playa procelosa
Infamó, en mil naufragios dividida.
Y nunca faltará Vela animosa
-¡Tal es la presunción de nuestra vida!-
Que repita su ruina lastimosa.
Bajo el frescor, bajo la dulce dulzura
de este día de mayo
como un cálido tiro reviviendo al revés
viejos recuerdos de pésimas mujeres
magníficas humanas y todo el hospital,
el infeliz sorbe los vientos que estallan en su pulso
y aprende aprende aprende
que toda ruina sobrevive.

— The End —