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Non ti preparerò col mio mostrarmiti
ad una confidenza limitata,
ma perché nel toccarmi la tua mano
non abbia una memoria di presagi,
giacerò all'informe
fusa io stessa, sciolta dentro il buio,
per quanto possa, elaborata e viva,
ridivenire caos...
Orfeo novello, amico dell'assenza,
modulerai di nuovo dalla cetra
la figura nascente di me stessa.
Sarai alle soglie piano e divinante
di un mistero assoluto di silenzio,
ignorando i miei limiti di un tempo,
godrai il possesso della sola essenza.
Allora, concretandomi in un primo
accenno di presenza,
sarò un ramo fiorito di consenso,
e poi, trovato un punto di contatto,
ammetterò una timida coscienza
di vita d'animale
e mi dirò che non andrò più oltre,
mentre già mi sviluppi,
sapienza ineluttabile e sicura,
in un gioco insperato di armonie,
in una conclusione di fanciulla...
Fanciulla: è questo il termine raggiunto?
E per l'addietro non l'** maturato
e non l'** poi distrutto
delusa, offesa in ogni volontà?
Che vuol dire fanciulla
se non superamento di coscienza?
Era questo di me che non volevo:
condurmi, trascurando ogni mia forma,
al vertice mortale della vita...
Ma la presenza d'ogni mia sembianza
quale urgenza incalzante di sviluppo,
quale presto proporsi
e più presto risolversi d'enigmi!
E quando poi, dal mio aderire stesso,
la forma scivolò in un altro tempo
di più rare e più estranee conclusioni,
quando del mio "sentirmi" voluttuoso
rimase un'aderenza di dolore,
allora, allora preferii la morte
che ribadisse in me questo possesso.
Ma ci si può avanzare nella vita
mano che regge e fiaccola portata
e ci si può liberamente dare
alle dimenticanze più serene
quando gli anelli multipli di noi
si sciolgano e riprendano in accordo,
quando la garanzia dell'immanenza
ci fasci di un benessere assoluto.
Così, nelle tue braccia ordinatrici
io mi riverso, minima ed immensa;
dato sereno, dato irrefrenabile,
attività perenne di sviluppo.
Solegrina Jul 2014
I.
Além das árvores, um novo dia:
vejo fractais nos galhos florescentes,
- veias noturnas da ilusão sombria -
ah, deitado nas folhas decadentes...

Tal qual a luz numa caverna fria
faz na água cristais resplandecentes,
tal qual o sol invade uma abadia
por sagrados vitrais iridescentes,

a Aurora, face pálida e iminente
da manhã, é sorvida pelo ouvido
e incendeia o carvão dos meus subsolos.

Meu último suspiro é a nascente
de um brilho mineral recém chovido
nas graminhas que brotam dos tijolos.


II.*
Uma coroa incandescente avisto.
O Sol sobe do ***** mais profundo
aos imponentes edifícios vítreos
preparando a manhã para o seu culto:

brotam seus fogos (dançarinos místicos)
do asfalto e das janelas - nosso mundo
foi abrasado pelo canto rítmico
de um fervor que se expande em absoluto!

Fecho os meus olhos e me entrego às chamas.
Afogam-me as fogueiras e o meu pranto
é abafado entre ressonâncias, raios

e fúnebres azuis. A essência humana
é consumida e ao passar dos anos
sou fuligem em becos solitários.
Poi che divelta, nella tracia polve
Giacque ruina immensa
L'italica virtute, onde alle valli
D'Esperia verde, e al tiberino lido,
Il calpestio dè barbari cavalli
Prepara il fato, e dalle selve ignude
Cui l'Orsa algida preme,
A spezzar le romane inclite mura
Chiama i gotici brandi;
Sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l'atra notte in erma sede,
Fermo già di morir, gl'inesorandi
Numi e l'averno accusa,
E di feroci note
Invan la sonnolenta aura percote.

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
Dell'inquiete larve
Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento. A voi, marmorei numi,
(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice
A cui templi chiedeste, e frodolenta
Legge al mortale insulta.
Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando
Il tuon rapido spingi,
Né giusti e pii la sacra fiamma stringi?

Preme il destino invitto e la ferrata
Necessità gl'infermi
Schiavi di morte: e se a cessar non vale
Gli oltraggi lor, dè necessarii danni
Si consola il plebeo. Men duro è il male
Che riparo non ha? dolor non sente
Chi di speranza è nudo?
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia,
Di cedere inesperto; e la tiranna
Tua destra, allor che vincitrice il grava,
Indomito scrollando si pompeggia,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride,
E maligno alle nere ombre sorride.

Spiace agli Dei chi violento irrompe
Nel Tartaro. Non fora
Tanto valor né molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e gl'infelici affetti
Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
Non fra sciagure e colpe,
Ma libera né boschi e pura etade
Natura a noi prescrisse,
Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra
Sparse i regni beati empio costume,
E il viver macro ad altre leggi addisse;
Quando gl'infausti giorni
Virile alma ricusa,
Riede natura, e il non suo dardo accusa?

Di colpa ignare e dè lor proprii danni
Le fortunate belve
Serena adduce al non previsto passo
La tarda età. Ma se spezzar la fronte
Né rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra,
Lor suadesse affanno;
Al misero desio nulla contesa
Legge arcana farebbe
O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
Figli di Prometeo, la vita increbbe;
A voi le morte ripe,
Se il fato ignavo pende,
Soli, o miseri, a voi Giove contende.

E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
Candida luna, sorgi,
E l'inquieta notte e la funesta
All'ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni
Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando né danni
Del servo italo nome,
Sotto barbaro piede
Rintronerà quella solinga sede.

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
E la fera e l'augello,
Del consueto obblio gravido il petto,
L'alta ruina ignora e le mutate
Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre,
Al mattutino canto
Quel desterà le valli, e per le balze
Quella l'inferma plebe
Agiterà delle minori belve.
Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
Siam delle cose; e non le tinte glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura,
Né scolorò le stelle umana cura.

Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi
Regi, o la terra indegna,
E non la notte moribondo appello;
Non te, dell'atra morte ultimo raggio,
Conscia futura età. Sdegnoso avello
Placàr singulti, ornàr parole e doni
Di vil caterva? In peggio
Precipitano i tempi; e mal s'affida
A putridi nepoti
L'onor d'egregie menti e la suprema
Dè miseri vendetta. A me d'intorno
Le penne il bruno augello avido roti;
Prema la fera, e il nembo
Tratti l'ignota spoglia;
E l'aura il nome e la memoria accoglia.
Improvviso il mille novecento
cinquanta due passa sull'Italia:
solo il popolo ne ha un sentimento
vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
la modernità, benché sempre il più
moderno sia esso, il popolo, spanto
in borghi, in rioni, con gioventù
sempre nuove - nuove al vecchio canto -
a ripetere ingenuo quello che fu.

Scotta il primo sole dolce dell'anno
sopra i portici delle cittadine
di provincia, sui paesi che sanno
ancora di nevi, sulle appenniniche
greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
i nuovi colori delle tele, i nuovi
vestiti come in limpidi roghi
dicono quanto oggi si rinnovi
il mondo, che diverse gioie sfoghi...

Ah, noi che viviamo in una sola
generazione ogni generazione
vissuta qui, in queste terre ora
umiliate, non abbiamo nozione
vera di chi è partecipe alla storia
solo per orale, magica esperienza;
e vive puro, non oltre la memoria
della generazione in cui presenza
della vita è la sua vita perentoria.

Nella vita che è vita perché assunta
nella nostra ragione e costruita
per il nostro passaggio - e ora giunta
a essere altra, oltre il nostro accanito
difenderla - aspetta - cantando supino,
accampato nei nostri quartieri
a lui sconosciuti, e pronto fino
dalle più fresche e inanimate ère -
il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

E se ci rivolgiamo a quel passato
ch'è nostro privilegio, altre fiumane
di popolo ecco cantare: recuperato
è il nostro moto fin dalle cristiane
origini, ma resta indietro, immobile,
quel canto. Si ripete uguale.
Nelle sere non più torce ma globi
di luce, e la periferia non pare
altra, non altri i ragazzi nuovi...

Tra gli orti cupi, al pigro solicello
Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
di Toscana, con strilli di rondinini:
Hor atorno fratt Helya! La santa
violenza sui rozzi cuori il clero
calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
feroce nel feudo provinciale l'Impero
da Iddio imposto: e il popolo canta.

Un grande concerto di scalpelli
sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
suona, giganteggiando il travertino
nel nuovo spazio in cui s'affranca
l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
jersera... ripete con l'anima spanta
nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
resta nel popolo. E il popolo canta.

Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
e trepidi nel vento napoleonico,
all'Inno dell'Albero della Libertà,
tremano i nuovi colori delle nazioni.
Ma, cane affamato, difende il bracciante
i suoi padroni, ne canta la ferocia,
Guagliune 'e mala vita! In branchi
feroci. La libertà non ha voce
per il popolo cane. E il popolo canta.

Ragazzo del popolo che canti,
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
è vero, cantando, l'antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare.

Nella tua incoscienza è la coscienza
che in te la storia vuole, questa storia
il cui Uomo non ha più che la violenza
delle memorie, non la libera memoria...
E ormai, forse, altra scelta non ha
che dare alla sua ansia di giustizia
la forza della tua felicità,
e alla luce di un tempo che inizia
la luce di chi è ciò che non sa.
Mariana Seabra Jun 2022
Ó terra fria e suja,
Com que os vivos me taparam...
Fui acorrentada
       aprisionada
       encaixotada
Cabeça, corpo e alma soterrada,
Quando ainda não tinha idade...
Era bela e tenra a idade para me saber salvar.

A criança que fui, se é que a fui,
Jaz numa campa, jaz lá deitada.
Tornou-se um símbolo de pureza,
Da minha inocência arruinada.
Mal fechou os olhos, soltou-se o último suspiro,
Abriu-se a Terra e ouviu-se em grito:

"És só mais uma pessoa estragada!
Bem-vinda ao mundo real,
Aí em cima, estar partida é requisito.
Desce cá abaixo, atira-te sem medos,
tenho muito para te ensinar!
Aqui somos todos filhos do Diabo,
Dançamos com ele lado a lado,
Aniquilamos o que em nós já estava manchado,
Destruímos a ferro e fogo o ódio e o pecado,
Renascemos livres e prontos para amar.
Anda recuperar a pureza que te tentaram matar!"

Bichos do solo que devoravam
O meu corpo gélido e petrificado.
Via-os passar por cima do meu olhar desesperado,
Comiam o que restava do meu coração.
Quase, quase adormecido...
Quase, quase devorado...
Quase, quase esquecido....
É bom relembrar-me que estou só de passagem,
Enquanto me entrego ao sonho e a esta última miragem
Da violência, da ganância, da frieza, da ignorância,
Que só os vivos desta Terra conseguem revelar.


Acharam eles que me iam quebrar!

Belo truque de ilusionismo!
Foi o que me tentaram ensinar.
Levei metade da vida para me desapegar
De todos os maus ensinamentos que me tentaram pregar.
Mas não sou Cristo para me pregarem,
Prefiro crucificar-me já.
Nem sou Houdini para me escapar,
Prefiro o prazer que ficar me dá.
A minha maneira é mais barbária,
Abri caminho à machadada,
Incendiei a cruz e a aldeia inteira,
Rebentei com o caixão onde estava enfiada.
Fui à busca da liberdade, para longe.
Bem longe, onde não me pudessem encontrar.
Não encontrei a liberdade, essa já a tinha, já era minha.
Mas reencontrei a inocência que há tanto queria recuperar.

Chamem-me bruxa moderna!
Mulher sensitiva, sonhadora, intuitiva,
Que vê além do que os sentidos mostram,
Que sente além da fronteira que nos separa do invisível.
Neta, bisneta, trisneta, tetraneta,
De mulheres poderosas e ancestrais.
Das chamadas "bruxas originais"
Que os cobardes não conseguiram queimar.
E bem que as tentaram erradicar!
Mas a magia sobrevive à História!
Poder senti-la hoje, poder perpetua-la,
Essa será sempre a nossa vitória, pertence a todas as mulheres.

Que venham agora tentar apanhar-me!

Solto-lhes as chamas do Inferno,
Onde os deuses me escolheram forjar.

Ai, a crueldade que este mundo traz...

Só mesmo as pessoas, essa raça sadia que é capaz
De destruir o seu semelhante, manipular o seu próprio irmão,
Sem um único pingo de compaixão.
Pegam na pá, cavam-lhe o precipício,
São os primeiros a empurrarem-no ao chão.
Reparem bem...Disse "pessoas",
Que é bem diferente de "seres-humanos",
Essa é a questão.
Porque quem sabe ser-humano, sabe bem daquilo que escrevo,
Não é indiferente à sua própria condição,
Limitada, defeituosa, machucada.
Basicamente, não valemos nada! Que alívio, admiti-lo.
Loucos são os que vivem na ilusão
De serem superiores aos bichos do solo.
Os mesmos que vos vão devorar os olhos no caixão.

(...)

Ó terra fria e suja
Com que me taparam...
De lágrimas foste regada,
De ti surgiu o que ninguém sonhava,
Um milagre que veio pela calada.
Um girassol!
Com pétalas de água salgada
Que sai pelo seu caule disparada.
És tudo, simultaneamente!
És nascente do rio e és fonte avariada.
Pura água! onde toda a gente mergulhava,
Apesar de não saberem lá nadar.
Não paravam para a beber, quanto mais para a apreciar.

Talvez tenha sido numa noite de luar,
Que conheci uma ave rara...
Uma beija-flor colorida, com olhos castanhos de encantar,
Formas humanas, magníficas,
E uma voz melódica de fazer arrepiar.
Talvez tenha sido num dia de sol,
Que ela me observara, indecisa sobre a partida ou chegada.
Porque é que em mim pousara?
Não sei. Não a questionei.
Fiquei encantada! Estava tão tranquila
Que quase... quase flutuava, como uma pena soprada,
Enquanto ela penicava a minha água salgada,
Banhava-se na minha corrente agitada,
Sentia os mil sabores enquanto a devorava,
Absorvia-me no seu corpo sem medo de nada.
Não havia presente, passado ou futuro!
Só havia eu, ela e as semelhanças que nos representam,
Os opostos que nos atraem e complementam,
O amor que é arrebatador, ingénuo e puro.

Nessa noite, nesse dia, descobri que a água amava!
Como é que posso dizer isto de uma coisa inanimada?
Vejo vivos que já estão mortos,
Submersos nos seus próprios esgotos mentais.
Vejo coisas que estão vivas,
Como a água que nunca pára,
Não desiste de beijar a costa por mais que ela a mande para trás.
Ela vai! Mas sempre volta.
Se o amor não é isso, então que outro nome lhe dás?

Podia jurar que ouvi a água a falar...
Que sina a minha!
Outra que disse que veio para me ensinar.
Envolveu-me nos seus braços e disse:
"Confia! Sei que é difícil, mas confia, deixa-te levar.
A água cria! A água sabe! A água sabe tudo!
Já se banharam nestes mesmos oceanos
Todas as gerações que habitaram este mundo.
É a água que esconde os segredos da humanidade,
Os seus mistérios mais profundos.
É a água que acalma, é a água que jorra, é a água que afoga,
Dá-te vida ao corpo, mas também a cobra."

Não era a água...estava enganada.
Era a minha ave rara quem me falara,
Quem me sussurrava ao ouvido,
Com um tom de voz quase imperceptível mas fluído.
Que animal destemido!
Decidiu partilhar um pouco de si comigo,
Decidiu mostrar-me que pode existir no outro
um porto de abrigo.
Teceu-me asas para que pudesse voar!
E disse "Vai! Voa! Sê livre!",
Mas depois de a encontrar, não havia outro sítio no mundo onde eu preferisse estar.
Ensinou-me a mergulhar, a não resistir à corrente,
A suster a respiração, controlar o batimento do coração,
Desbravar o fundo do mar, sem ter de lá ficar.

Verdade seja dita! Devo ter aprendido bem.
Verdade seja dita! Sempre à tona regressei.

Bem que me tentaram afogar! Eu mesma tentei.

Mas verdade seja dita! Sou teimosa, orgulhosa.
Se tiver de morrer, assim será! Mas serei eu!
Eu e só eu, que irei escolher quando me matar.

Pode parecer sombrio, dito da forma fria que o digo.
Mas verdade seja dita! Sinto um quente cá dentro,
Quando penso na liberdade de poder escolher
A altura certa que quero viver
Ou a altura certa que quero morrer.

(...)

Com as asas que me ofereceu,
Dedico-me à escrita, para que a verdade seja dita.
Da analogia, à hipérbole, à metáfora, à antítese.
Sou uma contradição maldita!
Sou um belo paradoxo emocional!
Prefiro voar só, a não ser quando bem acompanhada.
Porque neste longa jornada,
A que gosto de chamar de "vida" ou "fachada",
Há quem me ajude a caminhar.

Pela dura estrada, às vezes voo de asa dada.
Celebro com a minha ave rara a pureza reconquistada!
Permitimos que as nossas raízes escolham o lugar
Por onde se querem espalhar.
Seja na Terra, no Céu, no Mar.
Somos livres para escolher!
Onde, quando e como desejamos assentar.

(...)

Dizem que em Terra de Cegos,
Quem tem olho é Rei.
Digo-lhes que tinha os dois bem abertos!
Quando ao trono renunciei.

Não quero a Coroa, não ambiciono o bastão,
Não quero dinheiro para esbanjar,
Não quero um povo para controlar.
Quero manter o coração aberto!
E que seja ele a liderar!
Deixo o trono para quem o queira ocupar.
Para quem venha com boas intenções,
Que saiba que há o respeito de todo um povo a reconquistar.
Quem não tenha medo de percorrer todas as ruas da cidade,
Da aldeia, do bairro... desde a riqueza à precaridade.
Para quem trate com equidade todo o seu semelhante,
Seja rico ou pobre, novo ou velho, gordo ou magro,
inteligente ou ignorante.
Vamos mostrar que é possível o respeito pela diversidade!

Governemos juntos! Lado a lado!

(...)

O reflexo na água é conturbado...
Salto entre assuntos, sem terminar os que tinha começado.
Nunca gostei muito de regras e normas, sejam líricas, sociais ou gramaticais.
No entanto, quanto mais tempo me tenho observado,
Mais vejo que há um infinito em mim espelhado.
Sou eterna! Efémera...
Só estou de visita! E, depois desta vida,
Haverá mais lugares para visitar, outras formas para ser.
Só estou de visita! É nisso que escolho acreditar.
Vim para experienciar! Nascer, andar, correr,
Cair, levantar, aprender, amar, sofrer,
Repetir, renascer...

Ah! E, gostava de, pelo menos, uma grande pegada deixar.
Uma pegada bem funda, na alma de um outro alguém,
Como se tivesse sido feita em cimento que estava a secar.
Uma pegada que ninguém conseguirá apagar.

E, se neste mundo eu não me enquadrar?

Não faz mal! É porque vim para um novo mundo criar.
Para ser a mudança que ainda não existe,
Para ter o prazer de vos contrariar.

Sou feita de amor, raiva, luz, escuridão, magia,
Intensidade que vibra e contagia.
Giro, giro e giro-ao-sol, enquanto o sol girar.
Mesmo quando ele desaparece, para que a nossa lua possa brilhar.

Quem, afinal, diria?
Que o amor que me tentaram assassinar,
Cresceu tão forte em agonia
Que tornou-se tóxico, só para os conseguir contaminar.
E inundar, e transbordar, quem sabe, para os mudar.
Como que por rebeldia, estou habituada a ser a que contraria.
Prefiro fazer tudo ao contrário!
Em vez de me deixar ser dominada, prefiro ser eu a dominar.
Mais depressa me mantenho fiel à alma que me guia,
Do que a qualquer pessoa que me venha tentar limitar.
Nunca fui boa a ser o que o outro queria.
Nunca foi boa a reduzir-me, para me certificar que no outro haveria um espaço onde eu caberia.

Uma mente que foi expandida
Jamais voltará a ser comprimida!
Nunca mais será enclausurada! Num espaço fechado
                                                         ­                         pré-programado
                         ­                                                         condicio­nado
Cheio de pessoas com o espírito acorrentado,
Que se recusam a libertar das suas próprias amarras,
Quebrar antigos padrões, olhar para fora da caverna,
Em direção ao mundo que continua por ser explorado.

"Então é aqui a Terra? O tal Inferno que me tinham falado!"

Sejam livres de prisões!
Revoltem-se, unam-se, libertem-se!
A vocês e aos vossos irmãos!
Vão ao passo do mais lento!
Certifiquem-se que ninguém fica para trás!
Sejam fortes e valentes!
Mostrem que, com todos juntos,
A mudança será revolucionária e eficaz!
Apoiem-se uns aos outros!
Não confiem no Estado!
Dêem a mão uns aos outros, sejam o apoio que vos tem faltado!

(...)

Carrego a luz que dei à vida e, reclamo-a para mim.
Não me importo de a partilhar,
Faço-o de boa vontade!
Este mundo precisa de menos pessoas e mais humanidade.
Esta humildade, esta forte fragilidade,
Brotou das mortes que sofri, de todos os horrores que já vi.
Brotou força, de todas as lutas que sobrevivi.
Brotou sabedoria, de todos os erros que cometi,
De todos aqueles que corrigi, e dos que ainda não me apercebi.

Criei-me do nada.
Resisti!
Como uma fénix sagrada e abençoada,
Moldei-me sem fim, nem começo...
Queimei o passado, sem o ter apagado.
Ensinei-me a manter os olhos para a frente.
Permiti-me à libertação!
De enterrar o que me tentou destruir anteriormente.

Moro no topo da montanha.
Amarela, azul, verde e castanha.
A tal montanha que só por mim é avistada,
No novo mundo que criei para a minha alma cansada.

Moro no topo de céu.
Numa casa feita de girassóis sem fim, nem começo...
Que plantei para oferecer à minha ave rara,
Ao meu beija-flor colorido. O meu beija-flor preferido!
Que me veio ensinar que o amor existe.
Afinal ele existe!
E é bruto. Intoxicante. Recíproco.
Mas nem sempre é bonito.
Seja como for, aceito o seu amor!

Este dedico-te a ti, minha beija-flor encantada.
Tu! Que me vieste manter viva e apaixonada.
Porque quando estás presente,
A Terra não é fria, nem enclausura. Ao pé de ti, posso ser suja!
Acendes a chama e fico quente!
Porque quando estás presente,
Iluminas-me a cabeça, o corpo, a alma e a mente.
Porque quando estás presente,
Sinto que giro-ao-sol e ele gira cá.
E, se existe frio, não é da Terra.
É o frio na barriga!
Por sentir tanto amor! é isso que me dá.
Improvviso il mille novecento
cinquanta due passa sull'Italia:
solo il popolo ne ha un sentimento
vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
la modernità, benché sempre il più
moderno sia esso, il popolo, spanto
in borghi, in rioni, con gioventù
sempre nuove - nuove al vecchio canto -
a ripetere ingenuo quello che fu.

Scotta il primo sole dolce dell'anno
sopra i portici delle cittadine
di provincia, sui paesi che sanno
ancora di nevi, sulle appenniniche
greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
i nuovi colori delle tele, i nuovi
vestiti come in limpidi roghi
dicono quanto oggi si rinnovi
il mondo, che diverse gioie sfoghi...

Ah, noi che viviamo in una sola
generazione ogni generazione
vissuta qui, in queste terre ora
umiliate, non abbiamo nozione
vera di chi è partecipe alla storia
solo per orale, magica esperienza;
e vive puro, non oltre la memoria
della generazione in cui presenza
della vita è la sua vita perentoria.

Nella vita che è vita perché assunta
nella nostra ragione e costruita
per il nostro passaggio - e ora giunta
a essere altra, oltre il nostro accanito
difenderla - aspetta - cantando supino,
accampato nei nostri quartieri
a lui sconosciuti, e pronto fino
dalle più fresche e inanimate ère -
il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

E se ci rivolgiamo a quel passato
ch'è nostro privilegio, altre fiumane
di popolo ecco cantare: recuperato
è il nostro moto fin dalle cristiane
origini, ma resta indietro, immobile,
quel canto. Si ripete uguale.
Nelle sere non più torce ma globi
di luce, e la periferia non pare
altra, non altri i ragazzi nuovi...

Tra gli orti cupi, al pigro solicello
Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
di Toscana, con strilli di rondinini:
Hor atorno fratt Helya! La santa
violenza sui rozzi cuori il clero
calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
feroce nel feudo provinciale l'Impero
da Iddio imposto: e il popolo canta.

Un grande concerto di scalpelli
sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
suona, giganteggiando il travertino
nel nuovo spazio in cui s'affranca
l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
jersera... ripete con l'anima spanta
nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
resta nel popolo. E il popolo canta.

Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
e trepidi nel vento napoleonico,
all'Inno dell'Albero della Libertà,
tremano i nuovi colori delle nazioni.
Ma, cane affamato, difende il bracciante
i suoi padroni, ne canta la ferocia,
Guagliune 'e mala vita! In branchi
feroci. La libertà non ha voce
per il popolo cane. E il popolo canta.

Ragazzo del popolo che canti,
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
è vero, cantando, l'antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare.

Nella tua incoscienza è la coscienza
che in te la storia vuole, questa storia
il cui Uomo non ha più che la violenza
delle memorie, non la libera memoria...
E ormai, forse, altra scelta non ha
che dare alla sua ansia di giustizia
la forza della tua felicità,
e alla luce di un tempo che inizia
la luce di chi è ciò che non sa.
Improvviso il mille novecento
cinquanta due passa sull'Italia:
solo il popolo ne ha un sentimento
vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
la modernità, benché sempre il più
moderno sia esso, il popolo, spanto
in borghi, in rioni, con gioventù
sempre nuove - nuove al vecchio canto -
a ripetere ingenuo quello che fu.

Scotta il primo sole dolce dell'anno
sopra i portici delle cittadine
di provincia, sui paesi che sanno
ancora di nevi, sulle appenniniche
greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
i nuovi colori delle tele, i nuovi
vestiti come in limpidi roghi
dicono quanto oggi si rinnovi
il mondo, che diverse gioie sfoghi...

Ah, noi che viviamo in una sola
generazione ogni generazione
vissuta qui, in queste terre ora
umiliate, non abbiamo nozione
vera di chi è partecipe alla storia
solo per orale, magica esperienza;
e vive puro, non oltre la memoria
della generazione in cui presenza
della vita è la sua vita perentoria.

Nella vita che è vita perché assunta
nella nostra ragione e costruita
per il nostro passaggio - e ora giunta
a essere altra, oltre il nostro accanito
difenderla - aspetta - cantando supino,
accampato nei nostri quartieri
a lui sconosciuti, e pronto fino
dalle più fresche e inanimate ère -
il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

E se ci rivolgiamo a quel passato
ch'è nostro privilegio, altre fiumane
di popolo ecco cantare: recuperato
è il nostro moto fin dalle cristiane
origini, ma resta indietro, immobile,
quel canto. Si ripete uguale.
Nelle sere non più torce ma globi
di luce, e la periferia non pare
altra, non altri i ragazzi nuovi...

Tra gli orti cupi, al pigro solicello
Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
di Toscana, con strilli di rondinini:
Hor atorno fratt Helya! La santa
violenza sui rozzi cuori il clero
calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
feroce nel feudo provinciale l'Impero
da Iddio imposto: e il popolo canta.

Un grande concerto di scalpelli
sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
suona, giganteggiando il travertino
nel nuovo spazio in cui s'affranca
l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
jersera... ripete con l'anima spanta
nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
resta nel popolo. E il popolo canta.

Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
e trepidi nel vento napoleonico,
all'Inno dell'Albero della Libertà,
tremano i nuovi colori delle nazioni.
Ma, cane affamato, difende il bracciante
i suoi padroni, ne canta la ferocia,
Guagliune 'e mala vita! In branchi
feroci. La libertà non ha voce
per il popolo cane. E il popolo canta.

Ragazzo del popolo che canti,
qui a Rebibbia sulla misera riva
dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
è vero, cantando, l'antica, la festiva
leggerezza dei semplici. Ma quale
dura certezza tu sollevi insieme
d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
tuguri e grattacieli, allegro seme
in cuore al triste mondo popolare.

Nella tua incoscienza è la coscienza
che in te la storia vuole, questa storia
il cui Uomo non ha più che la violenza
delle memorie, non la libera memoria...
E ormai, forse, altra scelta non ha
che dare alla sua ansia di giustizia
la forza della tua felicità,
e alla luce di un tempo che inizia
la luce di chi è ciò che non sa.
Poi che divelta, nella tracia polve
Giacque ruina immensa
L'italica virtute, onde alle valli
D'Esperia verde, e al tiberino lido,
Il calpestio dè barbari cavalli
Prepara il fato, e dalle selve ignude
Cui l'Orsa algida preme,
A spezzar le romane inclite mura
Chiama i gotici brandi;
Sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l'atra notte in erma sede,
Fermo già di morir, gl'inesorandi
Numi e l'averno accusa,
E di feroci note
Invan la sonnolenta aura percote.

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
Dell'inquiete larve
Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento. A voi, marmorei numi,
(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice
A cui templi chiedeste, e frodolenta
Legge al mortale insulta.
Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando
Il tuon rapido spingi,
Né giusti e pii la sacra fiamma stringi?

Preme il destino invitto e la ferrata
Necessità gl'infermi
Schiavi di morte: e se a cessar non vale
Gli oltraggi lor, dè necessarii danni
Si consola il plebeo. Men duro è il male
Che riparo non ha? dolor non sente
Chi di speranza è nudo?
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia,
Di cedere inesperto; e la tiranna
Tua destra, allor che vincitrice il grava,
Indomito scrollando si pompeggia,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride,
E maligno alle nere ombre sorride.

Spiace agli Dei chi violento irrompe
Nel Tartaro. Non fora
Tanto valor né molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e gl'infelici affetti
Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
Non fra sciagure e colpe,
Ma libera né boschi e pura etade
Natura a noi prescrisse,
Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra
Sparse i regni beati empio costume,
E il viver macro ad altre leggi addisse;
Quando gl'infausti giorni
Virile alma ricusa,
Riede natura, e il non suo dardo accusa?

Di colpa ignare e dè lor proprii danni
Le fortunate belve
Serena adduce al non previsto passo
La tarda età. Ma se spezzar la fronte
Né rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra,
Lor suadesse affanno;
Al misero desio nulla contesa
Legge arcana farebbe
O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
Figli di Prometeo, la vita increbbe;
A voi le morte ripe,
Se il fato ignavo pende,
Soli, o miseri, a voi Giove contende.

E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
Candida luna, sorgi,
E l'inquieta notte e la funesta
All'ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni
Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando né danni
Del servo italo nome,
Sotto barbaro piede
Rintronerà quella solinga sede.

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
E la fera e l'augello,
Del consueto obblio gravido il petto,
L'alta ruina ignora e le mutate
Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre,
Al mattutino canto
Quel desterà le valli, e per le balze
Quella l'inferma plebe
Agiterà delle minori belve.
Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
Siam delle cose; e non le tinte glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura,
Né scolorò le stelle umana cura.

Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi
Regi, o la terra indegna,
E non la notte moribondo appello;
Non te, dell'atra morte ultimo raggio,
Conscia futura età. Sdegnoso avello
Placàr singulti, ornàr parole e doni
Di vil caterva? In peggio
Precipitano i tempi; e mal s'affida
A putridi nepoti
L'onor d'egregie menti e la suprema
Dè miseri vendetta. A me d'intorno
Le penne il bruno augello avido roti;
Prema la fera, e il nembo
Tratti l'ignota spoglia;
E l'aura il nome e la memoria accoglia.
Poi che divelta, nella tracia polve
Giacque ruina immensa
L'italica virtute, onde alle valli
D'Esperia verde, e al tiberino lido,
Il calpestio dè barbari cavalli
Prepara il fato, e dalle selve ignude
Cui l'Orsa algida preme,
A spezzar le romane inclite mura
Chiama i gotici brandi;
Sudato, e molle di fraterno sangue,
Bruto per l'atra notte in erma sede,
Fermo già di morir, gl'inesorandi
Numi e l'averno accusa,
E di feroci note
Invan la sonnolenta aura percote.

Stolta virtù, le cave nebbie, i campi
Dell'inquiete larve
Son le tue scole, e ti si volge a tergo
Il pentimento. A voi, marmorei numi,
(Se numi avete in Flegetonte albergo
O su le nubi) a voi ludibrio e scherno
È la prole infelice
A cui templi chiedeste, e frodolenta
Legge al mortale insulta.
Dunque tanto i celesti odii commove
La terrena pietà? dunque degli empi
Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta
Per l'aere il nembo, e quando
Il tuon rapido spingi,
Né giusti e pii la sacra fiamma stringi?

Preme il destino invitto e la ferrata
Necessità gl'infermi
Schiavi di morte: e se a cessar non vale
Gli oltraggi lor, dè necessarii danni
Si consola il plebeo. Men duro è il male
Che riparo non ha? dolor non sente
Chi di speranza è nudo?
Guerra mortale, eterna, o fato indegno,
Teco il prode guerreggia,
Di cedere inesperto; e la tiranna
Tua destra, allor che vincitrice il grava,
Indomito scrollando si pompeggia,
Quando nell'alto lato
L'amaro ferro intride,
E maligno alle nere ombre sorride.

Spiace agli Dei chi violento irrompe
Nel Tartaro. Non fora
Tanto valor né molli eterni petti.
Forse i travagli nostri, e forse il cielo
I casi acerbi e gl'infelici affetti
Giocondo agli ozi suoi spettacol pose?
Non fra sciagure e colpe,
Ma libera né boschi e pura etade
Natura a noi prescrisse,
Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra
Sparse i regni beati empio costume,
E il viver macro ad altre leggi addisse;
Quando gl'infausti giorni
Virile alma ricusa,
Riede natura, e il non suo dardo accusa?

Di colpa ignare e dè lor proprii danni
Le fortunate belve
Serena adduce al non previsto passo
La tarda età. Ma se spezzar la fronte
Né rudi tronchi, o da montano sasso
Dare al vento precipiti le membra,
Lor suadesse affanno;
Al misero desio nulla contesa
Legge arcana farebbe
O tenebroso ingegno. A voi, fra quante
Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte,
Figli di Prometeo, la vita increbbe;
A voi le morte ripe,
Se il fato ignavo pende,
Soli, o miseri, a voi Giove contende.

E tu dal mar cui nostro sangue irriga,
Candida luna, sorgi,
E l'inquieta notte e la funesta
All'ausonio valor campagna esplori.
Cognati petti il vincitor calpesta,
Fremono i poggi, dalle somme vette
Roma antica ruina;
Tu sì placida sei? Tu la nascente
Lavinia prole, e gli anni
Lieti vedesti, e i memorandi allori;
E tu su l'alpe l'immutato raggio
Tacita verserai quando né danni
Del servo italo nome,
Sotto barbaro piede
Rintronerà quella solinga sede.

Ecco tra nudi sassi o in verde ramo
E la fera e l'augello,
Del consueto obblio gravido il petto,
L'alta ruina ignora e le mutate
Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre,
Al mattutino canto
Quel desterà le valli, e per le balze
Quella l'inferma plebe
Agiterà delle minori belve.
Oh casi! oh gener vano! abbietta parte
Siam delle cose; e non le tinte glebe,
Non gli ululati spechi
Turbò nostra sciagura,
Né scolorò le stelle umana cura.

Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi
Regi, o la terra indegna,
E non la notte moribondo appello;
Non te, dell'atra morte ultimo raggio,
Conscia futura età. Sdegnoso avello
Placàr singulti, ornàr parole e doni
Di vil caterva? In peggio
Precipitano i tempi; e mal s'affida
A putridi nepoti
L'onor d'egregie menti e la suprema
Dè miseri vendetta. A me d'intorno
Le penne il bruno augello avido roti;
Prema la fera, e il nembo
Tratti l'ignota spoglia;
E l'aura il nome e la memoria accoglia.
Non ti preparerò col mio mostrarmiti
ad una confidenza limitata,
ma perché nel toccarmi la tua mano
non abbia una memoria di presagi,
giacerò all'informe
fusa io stessa, sciolta dentro il buio,
per quanto possa, elaborata e viva,
ridivenire caos...
Orfeo novello, amico dell'assenza,
modulerai di nuovo dalla cetra
la figura nascente di me stessa.
Sarai alle soglie piano e divinante
di un mistero assoluto di silenzio,
ignorando i miei limiti di un tempo,
godrai il possesso della sola essenza.
Allora, concretandomi in un primo
accenno di presenza,
sarò un ramo fiorito di consenso,
e poi, trovato un punto di contatto,
ammetterò una timida coscienza
di vita d'animale
e mi dirò che non andrò più oltre,
mentre già mi sviluppi,
sapienza ineluttabile e sicura,
in un gioco insperato di armonie,
in una conclusione di fanciulla...
Fanciulla: è questo il termine raggiunto?
E per l'addietro non l'** maturato
e non l'** poi distrutto
delusa, offesa in ogni volontà?
Che vuol dire fanciulla
se non superamento di coscienza?
Era questo di me che non volevo:
condurmi, trascurando ogni mia forma,
al vertice mortale della vita...
Ma la presenza d'ogni mia sembianza
quale urgenza incalzante di sviluppo,
quale presto proporsi
e più presto risolversi d'enigmi!
E quando poi, dal mio aderire stesso,
la forma scivolò in un altro tempo
di più rare e più estranee conclusioni,
quando del mio "sentirmi" voluttuoso
rimase un'aderenza di dolore,
allora, allora preferii la morte
che ribadisse in me questo possesso.
Ma ci si può avanzare nella vita
mano che regge e fiaccola portata
e ci si può liberamente dare
alle dimenticanze più serene
quando gli anelli multipli di noi
si sciolgano e riprendano in accordo,
quando la garanzia dell'immanenza
ci fasci di un benessere assoluto.
Così, nelle tue braccia ordinatrici
io mi riverso, minima ed immensa;
dato sereno, dato irrefrenabile,
attività perenne di sviluppo.
Non ti preparerò col mio mostrarmiti
ad una confidenza limitata,
ma perché nel toccarmi la tua mano
non abbia una memoria di presagi,
giacerò all'informe
fusa io stessa, sciolta dentro il buio,
per quanto possa, elaborata e viva,
ridivenire caos...
Orfeo novello, amico dell'assenza,
modulerai di nuovo dalla cetra
la figura nascente di me stessa.
Sarai alle soglie piano e divinante
di un mistero assoluto di silenzio,
ignorando i miei limiti di un tempo,
godrai il possesso della sola essenza.
Allora, concretandomi in un primo
accenno di presenza,
sarò un ramo fiorito di consenso,
e poi, trovato un punto di contatto,
ammetterò una timida coscienza
di vita d'animale
e mi dirò che non andrò più oltre,
mentre già mi sviluppi,
sapienza ineluttabile e sicura,
in un gioco insperato di armonie,
in una conclusione di fanciulla...
Fanciulla: è questo il termine raggiunto?
E per l'addietro non l'** maturato
e non l'** poi distrutto
delusa, offesa in ogni volontà?
Che vuol dire fanciulla
se non superamento di coscienza?
Era questo di me che non volevo:
condurmi, trascurando ogni mia forma,
al vertice mortale della vita...
Ma la presenza d'ogni mia sembianza
quale urgenza incalzante di sviluppo,
quale presto proporsi
e più presto risolversi d'enigmi!
E quando poi, dal mio aderire stesso,
la forma scivolò in un altro tempo
di più rare e più estranee conclusioni,
quando del mio "sentirmi" voluttuoso
rimase un'aderenza di dolore,
allora, allora preferii la morte
che ribadisse in me questo possesso.
Ma ci si può avanzare nella vita
mano che regge e fiaccola portata
e ci si può liberamente dare
alle dimenticanze più serene
quando gli anelli multipli di noi
si sciolgano e riprendano in accordo,
quando la garanzia dell'immanenza
ci fasci di un benessere assoluto.
Così, nelle tue braccia ordinatrici
io mi riverso, minima ed immensa;
dato sereno, dato irrefrenabile,
attività perenne di sviluppo.

— The End —