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Sei comparsa al portone
in un vestito rosso
per dirmi che sei fuoco
che consuma e riaccende.

Una spina mi ha punto
delle tue rose rosse
perché succhiassi al dito,
come già tuo, il mio sangue.

Percorremmo la strada
che lacera il rigoglio
della selvaggia altura,
ma già da molto tempo
sapevo che soffrendo con temeraria fede,
l'età per vincere non conta.

Era di lunedì,
per stringerci le mani
e parlare felici
non si trovò rifugio
che in un giardino triste
della città convulsa.
Le mani con un tremito
del telefono stringevano il filo;
mi aveva poco prima
recato la tua voce
che mi diceva addio.

Un vagante raggio ebbe la luce,
tenue filo dell'anima
del mio bacio donato
solo dal desiderio.

Ma dall'esilio ci libererà
l'ostinato mio amore.
Morire come le allodole assetate
sul miraggio
O come la quaglia
passato il mare
nei primi cespugli
perché di volare
non ha più voglia
Ma non vivere di lamento
come un cardellino accecato.
E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare.
E il cuore quando d'un ultimo battito
avrà fatto cadere il muro d'ombra
per condurmi, Madre, sino al Signore,
come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua davanti all'eterno,
come già ti vedeva
quando eri ancora in vita.

Alzerai tremante le vecchie braccia,
come quando spirasti
dicendo: Mio Dio, eccomi.

E solo quando m'avrà perdonato,
ti verrà desiderio di guardarmi.

Ricorderai d'avermi atteso tanto,
e avrai negli occhi un rapido sospiro.
Chiuso tra cose mortali
(anche il cielo stellato finirà)
perché bramo Dio?
Dopo tanta
nebbia
a una
a una
si svelano
le stelle.
Respiro
il fresco
che mi lascia
il colore
del cielo.
Santa Maria La Longa, 26 gennaio 1916

Vorrei imitare
questo paese
adagiato
nel suo camice
di neve.
Come allodola ondosa
Nel vento lieto sui giovani prati,
Le braccia ti sanno leggera, vieni.
Ci scorderemo di quaggiù,
E del mare e del cielo,
E del mio sangue rapido alla guerra,
Di passi d'ombre memori
Entro rossori di mattine nuove.
Dove non muove foglia più la luce,
Sogni e crucci passati ad altre rive,
Dov'è posata sera,
Vieni ti porterò
Alle colline d'oro.
L'ora costante, liberi d'età,
Nel suo perduto nimbo
Sarà nostro lenzuolo.
Eco
Eco
Scalza varcando da sabbie lunari,
Aurora, amore festoso, d'un eco
Popoli l'esule universo e lasci
Nella carne dei giorni,
Perenne scia, una piaga velata.
Di che reggimento siete
fratelli?

Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata

Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
del'uomo presente alla sua
fragilità

Fratelli
Nasce una notte
piena di finte buche,
di suoni morti
come di sugheri
di reti calate nell'acqua.

Le tue mani si fanno come un soffio
d'inviolabili lontananze,
inafferrabili come le idee.

E l'equivoco della luna
e il dondolio, dolcissimi,
se vuoi posarmele sugli occhi,
toccano l'anima.

Sei la donna che passa
come una foglia.

E lasci agli alberi un fuoco d'autunno.
Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
a li disperde.

Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d'inesauribile segreto.
Conosco una città
che ogni giorno s'empie di sole
e tutto è rapito in quel momento

Me ne sono andato una sera

Nel cuore durava il limio
delle cicale

Dal bastimento
verniciato di bianco
** visto
la mia città sparire
lasciando
un poco
un abbraccio di lumi nell'aria torbida
sospesi.
Sono un poeta
un grido unanime
sono un grumo di sogni
Sono un frutto
D'innumerevoli contrasti d'innesti
maturato in una serra
Ma il tuo popolo è portato
dalla stessa terra
che mi porta
Italia
E in questa uniforme
di tuo soldato
mi riposo
come fosse la culla
di mio padre.
Non ** voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

** tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
Qui
non si sente
altro
che il caldo buono
******>con le quattro
capriole
di fumo
del focolare.
Anche questa notte passerà

Questa solitudine in giro
titubante ombra dei fili tranviari
sull'umido asfalto

Guardo le ***** dei brumisti
nel mezzo sonno
tentennare.
Cessate d'uccidere i morti,
Non gridate più, non gridate
Se li volete ancora udire,
Se sperate di non perire.

Hanno l'impercettibile sussurro,
Non fanno più rumore
Del crescere dell'erba,
Lieta dove non passa l'uomo.
Dalla spoglia di serpe
alla pavida talpa
ogni grigio si gingilla sui duomi...
come una prora bionda
di stella in stella il sole s'accomiata
e s'acciglia sotto la pergola...
come una fronte stanca
è riapparsa la notte
nel cavo d'una mano...
Dall'ampia ansia dell'alba
Svelata alberatura.
Dolorosi risvegli.
Foglie, sorelle foglie,
Vi ascolto nel lamento.
Autunni,
Moribonde dolcezze.
O gioventù,
Passata è appena l'ora del distacco.
Cieli alti della gioventù,
Libero slancio.
E già sono deserto.
Preso in questa curva malinconia.
Ma la notte sperde le lontananze.
Oceanici silenzi,
Astrali nidi d'illusione,
O notte.
La terra
s'è velata
di tenera
leggerezza
Come una sposa
novella
offre
allibita
alla sua creatura
il pudore
sorridente
di madre.
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro

Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto

Ma nel cuore
nessuna croce manca

É il mio cuore
il paese più straziato.
E per la luce giusta,
Cadendo solo un'ombra viola
Sopra il giogo meno alto,
La lontananza aperta alla misura,
Ogni mio palpito, come usa il cuore,
Ma ora l'ascolto,
T'affretta, tempo, a pormi sulle labbra
Le tue labbra ultime.
Se tu mi rivenissi incontro vivo,
con la mano tesa,
ancora potrei,
di nuovo in uno slancio d'oblio, stringere,
fratello, una mano.

Ma di te, di te più non mi circondano
che sogni, barlumi,
i fuochi senza fuoco del passato.

La memoria non svolge che le immagini
e a me stesso, io stesso
non sono già più
che l'annientante nulla del pensiero.
Si sta
come d'autunno
sugli alberi
le foglie.
Come questa pietra
del S. Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
Come questa pietra
è il mio pianto
che non si vede
La morte
si sconta
vivendo.
Il carnato del cielo
sveglia oasi
al nomade d'amore.
Luna,
Piuma di cielo,
Cosi velina,
Arida,
Trasporti il murmure d'anime spoglie?

E alla pallida che diranno mai
Pipistrelli dai ruderi del teatro,
In sogno quelle capre,
E fra **** foglie come in fermo fumo
Con tutto il suo sgolarsi di cristallo
Un usignuolo?
Devetachi, il 24 agosto 1916

Col mare
mi sono fatto
una bara
di freschezza.
L'uomo, monotono universo,
Crede allargarsi i beni
E dalle sue mani febbrili
Non escono senza fine che limiti.

Attaccato sul vuoto
Al suo filo di ragno,
Non teme e non ******
Se non il proprio grido.

Ripara il logorio alzando tombe,
E per pensarti, Eterno,
Non ha che le bestemmie.
Un'intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel silenzio
** scritto
lettere piene d'amore

Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita

— The End —