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Soy un puñal
certero al corazón
de la construcción social

I am a ******
flaming ******
***… (repeat after me…)
fagggggg
faaaaaggggggg:
soy una fogata
I am fire and heat
I raise from the ashes
of hundreds of years
of silence, love and tears

soy joto, maricon, rarito
I am queer
poderoso, vulnerable
soy “bonito”
soy pajaro, pato, ****
I can fly, i’ve got wings tu sabes
don’t **** with me
soy astuto
soy perra
soy una fiera
mi cuerpo
cruza fronteras
como si fuera coyote
as if I was a pollera

soy de la mano caída
mi mano apunta a la tierra
por que soy fuerza divina

I am multiplicity
survivor, resister
soy grande
como mi madre, como mi abuela
I am all powerful, sublime
if I wasn’t
why would you feel so threaten
at the mere sight of my eyes…
Cogiome sin prevención
Amor, astuto y tirano:
con capa de cortesano
se me entró en el corazón.
Descuidada la razón
y sin armas los sentidos,
dieron puerta inadvertidos;
y él, por lograr sus enojos,
mientras suspendió los ojos
me salteó los oídos.

Disfrazado entró y mañoso;
mas ya que dentro se vio
del Paladión, salió
de aquel disfraz engañoso;
y, con ánimo furioso,
tomando las armas luego,
se descubrió astuto Griego
que, iras brotando y furores,
matando los defensores,
puso a toda el Alma fuego.

Y buscando sus violencias
en ella al príamo fuerte,
dio al Entendimiento muerte,
que era Rey de las potencias;
y sin hacer diferencias
de real o plebeya grey,
haciendo general ley
murieron a sus puñales
los discursos racionales
porque eran hijos del Rey.

A Casandra su fiereza
buscó, y con modos tiranos,
ató a la Razón las manos,
que era del Alma princesa.
En prisiones su belleza
de soldados atrevidos,
lamenta los no creídos
desastres que adivinó,
pues por más voces que dio
no la oyeron los sentidos.

Todo el palacio abrasado
se ve, todo destruido;
Deifobo allí mal herido,
aquí Paris maltratado.
Prende también su cuidado
la modestia en Polixena;
y en medio de tanta pena,
tanta muerte y confusión,
a la ilícita afición
sólo reserva en Elena.

Ya la Ciudad, que vecina
fue al Cielo, con tanto arder,
sólo guarda de su ser
vestigios, en su ruina.
Todo el amor lo extermina;
y con ardiente furor,
sólo se oye, entre el rumor
con que su crueldad apoya:
«Aquí yace un Alma Troya
¡Victoria por el Amor!»
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
En la playa sonora
De auras primaverales,
De las ondas azules del Sorrento
Mueren bajo frondosos naranjales,
Junto al seto, a la vera del camino,
Hay una tosca piedra,
Que mira indiferente el peregrino.
En ella oculta el alelí frondoso
Un nombre que jamás repite el eco.
Sólo a veces, si en busca de reposo
Errante pasajero se detiene,
Al ver el epitafio entre las hojas,
Ante la luz del moribundo día,
Mientras copiosas lágrimas derrama,
-«¡Diez y seis años!», suspirando clama;
«De morir no era tiempo todavía».
Mas, ¿a qué recordar esas escenas?
Dejad que gima el viento
y que murmuren las azules olas.
Yo no quiero llorar en mi aislamiento;
Quiero soñar con mi dolor a solas.

«¡Diez y seis años! ¡Sí, diez y seis
años!»
Torna a decir el pasajero. Y nunca
En una frente más encantadora
Esa edad fulguró; ni otras pupilas
Más hermosas el brillo reflejaron
De esas playas ardientes e intranquilas.
Hoy en vano la llamo:
¡Sólo el alma responde a mi reclamo!
Pero la siento en mí, y a verla vuelvo;
La vuelvo a ver como en felices días,
De puras e inocentes alegrías,
Cuando fijos en mí los negros ojos,
Cual astros en ignota lontananza,
Me hablaba de su amor entre sonrojos,
Y yo, de mi pasión y mi esperanza.
Bien me acuerdo: ondulaban sus cabellos
Del aura al soplo acompasado y blando;
En torno el viento aromas derramaba;
Del trasparente velo se pintaba
La sombra en su mejilla,
y distintos se oían los cantares

Del pescador en la desierta orilla.
y de pronto mostrándome la luna,
Flor de la noche bruna,
y las espumas de la mar, me dijo:
-«¿Por qué llena de luz el alma siento?
Jamás el firmamento
Donde la estrella del amor nos mira;
Jamás esas arenas donde vienen
Las olas a morir; esas enhiestas
Montañas cuyas crestas
Tiemblan entre los cielos, y los bosques
En torno a la ensenada;
Las luces de la costa abandonada
y del nocturno pescador el canto
Halagaron cual hoy mi fantasía...
¡Nunca infundieron en el alma mía
Este que siento, celestial encanto!
»¿No volveré a soñar cual sueño ahora
En embriagante calma?
¿Es que en los cielos asomó la aurora
O es que una estrella se encendió en mi alma?
Hijo de la mañana, ¿son las noches
De tu país tan bellas
Como esta que a mi lado estás mirando
Tachonada de fúlgidas estrellas?»
Luego la virgen se acercó a la madre
Que la escuchaba cerca del ribazo,
Le dio un beso en la frente,
y quedose dormida en su regazo.

Mas, ¿a qué recordar esas escenas?
Dejad que gima el viento
y que murmuren las azules olas.
Yo no quiero llorar en mi aislamiento;
¡Quiero soñar con mi dolor a solas!
¡Cuánto candor en su mirada! ¡Cuánta
Inocencia en sus labios seductores!
¡Quién no hubiera creído en ese instante
Ver concentrados en su alma virgen
Del cielo de su patria los fulgores!
El bello lago de Nemí, que nunca
Un soplo arruga, es menos trasparente;
Jamás pudo ocultar sus pensamientos;
Sus ojos, de su espíritu trasunto,
Los revelaban sin quererlo al punto.
Todo jugaba en ella; y la sonrisa,
Que es con los años contracción de duelo,
Siempre brillaba en sus carmíneos labios
Como arco-iris en radiante cielo.
Ninguna sombra oscureció su rostro;
y si libre los campos recorría,
Cual suelta mariposa,
Una límpida ola parecía
Coronada de luz esplendorosa.
Corría por correr, y su armoniosa
y halagadora voz, arpegio tierno
De su alma pura, que era un canto eterno,
Alegraba hasta al aura rumorosa.

Fue la primer imagen
Que se imprimió en su corazón la mía,
Como la luz en los dormidos ojos
Que se abren con el día.
Desde que amó, fue amor el Universo;
Confundió mi existencia,
Mi existencia entre lágrimas y abrojos,
Con su vida de paz y de inocencia;
Palpitó con mi alma, y formé parte
Del mundo que flotaba ante sus ojos,
De todos sus anhelos,
De la efímera dicha de la tierra
y la eterna esperanza de los cielos.
No pensaba ni en tiempo ni en distancia,
Ni existía el pasado en su memoria,
Pues para ella la vida era el presente.
Todo su porvenir fueron las tardes
De aquellos días de celeste gloria.
Entregó a la Natura
Su corazón, sin sombra de pecado,
y a la plegaria pura
Que de su huerto con las blancas flores
Iba a esparcir en el altar amado.
y de la mano, como niño humilde,
Me conducía al templo de la aldea,
y de rodillas me decía quedo:
«¡Reza conmigo! ¡Sin tu amor, bien mío,
El cielo mismo comprender no puedo!»

¿No veis el agua azul y trasparente
Al abrigo del aura vagabunda
y del sol encendido,
En el estanque de la clara fuente?
En él un blanco cisne
Nada, de su hermosura haciendo alarde,
y oculta el cuello en el cristal bruñido
Donde tiembla la estrella de la tarde.
Pero si a nuevas fuentes alza el vuelo,
La clara linfa con el ala azota
y extinta queda la visión del cielo.
y con las plumas que dejó deshechas,
Como arrancadas por astuto buitre,
y con la arena que del fondo brota,
El estanque, antes puro,
Que las estrellas reflejaba en calma,
Queda revuelto al fin, triste y oscuro.
Así, cuando partí, todo en su alma
Lo revolvió el dolor; su luz muriente
Huyose al cielo a no volver; y cuando
Vio, sola y afligida,
Su más bella ilusión desvanecida,
Se despidió del porvenir, que goces
No le ofrecía en su abandono aciago;
No disputó su vida al sufrimiento,
Alzó la copa del dolor tranquila
y la apuró de un trago,
En tanto que en su lágrima primera
Ahogaba el corazón; y como el ave

Cuando el sol en los mares se sepulta,
Para dormir oculta
La cabeza en el ala entumecida,
Se envolvió en su tristeza abrumadora,
y se durmió también... pero en la aurora,
En la risueña aurora de su vida.
Mas,  ¿a qué recordar esas escenas?
Dejad que gima el viento
y que murmuren las azules olas,
Yo no quiero llorar en mi aislamiento,
¡Quiero soñar con mi dolor a solas!
En su lecho de tierra ya ha dormido
Muchos años, y nadie
Quizá a llorar a su sepulcro ha ido,
y tal vez en la senda
Que a su postrer asilo conducía.
Se encontrará extendido
El segundo sudario de los muertos,
El implacable olvido.
Nadie esa piedra ya medio borrada
Con una flor visita;
Nadie solloza allá, nadie medita.
Sólo mi pensamiento en esa tumba
Ruega contrito, si remonto el vuelo
De este bullicio, donde sufre el alma,
A otra región de amor, de luz y calma,
y al corazón demando esas queridas

Prendas que ya no existen, y columbro
En las sombras calladas
Sus luminosas huellas,
y lloro tantas fúlgidas estrellas
En mi nublado cielo ya apagadas.
La primera ella fue, mas el divino
y dulce resplandor que en torno vierte
Aun alumbra mi lóbrego camino,
De errante peregrino,
De errante peregrino hacia la muerte.
Un espinoso arbusto
De pálida verdura
Crece junto a su humilde sepultura;
Por el sol calcinado
y por los vientos de la mar batido,
Vive en la roca, sin prestarle sombra,
Como un pesar en corazón herido.
El polvo de la ruta
Blanqueó su follaje, y a la tierra
Baja a servir de pasto
A la cabra montés. Como de nieve
Limpio copo, al nacer la primavera,
Brota en él una flor; mas, ¡ay!, en breve,
Antes de dar al aura lisonjera
Su aroma regalado,
La arranca de su tallo el viento airado,
Cual la vida apagada por la muerte
Antes que al corazón haya halagado

Un ave solitaria el vuelo posa
Sobre una rama que se dobla, y canta
Con voz entristecida,
Cuando cae la tarde silenciosa.
¡Oh, dime, flor marchita sobre el lodo,
Flor que tan pronto marchitó la vida!,
¿No hay otra vida en que renace todo?
Volved a mi memoria,
Tristes recuerdos de esa triste historia;
Volved, recuerdos de mi amor primero,
A traer a mi espíritu la calma.
Ve, pensamiento, a donde va mi alma...
¡Mi corazón rebosa, y llorar quiero!
Fabio, las esperanzas cortesanas
Prisiones son do el ambicioso muere
Y donde al más astuto nacen canas.

El que no las limare o las rompiere,
Ni el nombre de varón ha merecido,
Ni subir al honor que pretendiere.

El ánimo plebeyo y abatido
Elija, en sus intentos temeroso,
Primero estar suspenso que caído;

Que el corazón entero y generoso
Al caso adverso inclinará la frente
Antes que la rodilla al poderoso.

Más triunfos, más coronas dio al prudente
Que supo retirarse, la fortuna,
Que al que esperó obstinada y locamente.

Esta invasión terrible e importuna
De contrario sucesos nos espera
Desde el primer sollozo de la cuna.

Dejémosla pasar como a la fiera
Corriente del gran Betis, cuando airado
Dilata hasta los montes su ribera.

Aquel entre los héroes es contado
Que el premio mereció, no quien le alcanza
Por vanas consecuencias del estado.

Peculio propio es ya de la privanza
Cuanto de Astrea fue, cuando regía
Con su temida espada y su balanza.

El oro, la maldad, la tiranía
Del inicuo procede y pasa al bueno.
¿Qué espera la virtud o qué confía?

Ven y reposa en el materno seno
De la antigua Romúlea, cuyo clima
Te será más humano y más sereno.

Adonde por lo menos, cuando oprima
Nuestro cuerpo la tierra, dirá alguno:
«Blanda le sea», al derramarla encima;

Donde no dejarás la mesa ayuno
Cuando te falte en ella el pece raro
O cuando su pavón nos niegue Juno.

Busca pues el sosiego dulce y caro,
Como en la obscura noche del Egeo
Busca el piloto el eminente faro;

Que si acortas y ciñes tu deseo
Dirás: «Lo que desprecio he conseguido;
Que la opinion ****** es devaneo».

Más precia el ruiseñor su pobre nido
De pluma y leves pajas, más sus quejas
En el bosque repuesto y escondido,

Que halagar lisonjero las orejas
De algun príncipe insigne; aprisionado
En el metal de las doradas rejas.

Triste de aquel que vive destinado
A esa antigua colonia de los vicios,
Augur de los semblantes del privado.

Cese el ansia y la sed de los oficios;
Que acepta el don y burla del intento
El ídolo a quien haces sacrificios.

Iguala con la vida el pensamiento,
Y no le pasarás de hoy a mañana,
Ni quizá de un momento a otro momento.

Casi no tienes ni una sombra vana
De nuestra antigua Itálica, y ¿esperas?
¡Oh error perpetuo de la suerte humana!

Las enseñas grecianas, las banderas
Del senado y romana monarquía
Murieron, y pasaron sus carreras.

¿Qué es nuestra vida más que un breve día
Do apena sale el sol cuando se pierde
En las tinieblas de la noche fría?

¿Qué más que el heno, a la mañana verde,
Seco a la tarde? ¡Oh ciego desvarío!
¿Será que de este sueño me recuerde?

¿Será que pueda ver que me desvío
De la vida viviendo, y que está unida
La cauta muerte al simple vivir mío?

Como los ríos, que en veloz corrida
Se llevan a la mar, tal soy llevado
Al último suspiro de mi vida.

De la pasada edad ¿qué me ha quedado?
O ¿qué tengo yo, a dicha, en la que espero,
Sin ninguna noticia de mi hado?

¡Oh, si acabase, viendo cómo muero,
De aprender a morir antes que llegue
Aquel forzoso término postrero;

Antes que aquesta mies inútil siegue
De la severa muerte dura mano,
Y a la común materia se la entregue!

Pasáronse las flores del verano,
El otoño pasó con sus racimos,
Pasó el invierno con sus nieves cano;

Las hojas que en las altas selvas vimos
Cayeron, ¡y nosotros a porfía
En nuestro engaño inmóviles vivimos!

Temamos al Señor que nos envía
Las espigas del año y la hartura,
Y la temprana pluvia y la tardía.

No imitemos la tierra siempre dura
A las aguas del cielo y al arado,
Ni la vid cuyo fruto no madura.

¿Piensas acaso tú que fue criado
El varón para rayo de la guerra,
Para surcar el piélago salado,

Para medir el orbe de la tierra
Y el cerco donde el sol siempre camina?
¡Oh, quien así lo entiende, cuánto yerra!

Esta nuestra porción, alta y divina,
A mayores acciones es llamada
Y en más nobles objetos se termina.

Así aquella que al hombre sólo es dada,
Sacra razón y pura, me despierta,
De esplendor y de rayos coronada;

Y en la fría región dura y desierta
De aqueste pecho enciende nueva llama,
Y la luz vuelve a arder que estaba muerta.

Quiero, Fabio, seguir a quien me llama,
Y callado pasar entre la gente,
Que no afecto los nombres ni la fama.

El soberbio tirano del Oriente
Que maciza las torres de cien codos
Del cándido metal puro y luciente

Apenas puede ya comprar los modos
Del pecar; la virtud es más barata,
Ella consigo misma ruega a todos.

¡Pobre de aquel que corre y se dilata
Por cuantos son los climas y los mares,
Perseguidor del oro y de la plata!

Un ángulo me basta entre mis lares,
Un libro y un amigo, un sueño breve,
Que no perturben deudas ni pesares.

Esto tan solamente es cuanto debe
Naturaleza al simple y al discreto,
Y algún manjar común, honesto y leve.

No, porque así te escribo, hagas conceto
Que pongo la virtud en ejercicio:
Que aun esto fue difícil a Epicteto.

Basta al que empieza aborrecer el vicio,
Y el ánimo enseñar a ser modesto;
Después le será el cielo más propicio.

Despreciar el deleite no es supuesto
De sólida virtud; que aun el vicioso
En sí propio le nota de molesto.

Mas no podrás negarme cuán forzoso
Este camino sea al alto asiento,
Morada de la paz y del reposo.

No sazona la fruta en un momento
Aquella inteligencia que mensura
La duración de todo a su talento.

Flor la vimos primero hermosa y pura,
Luego materia acerba y desabrida,
Y perfecta después, dulce y madura;

Tal la humana prudencia es bien que mida
Y dispense y comparta las acciones
Que han de ser compañeras de la vida.

No quiera Dios que imite estos varones
Que moran nuestras plazas macilentos,
De la virtud infames histriones;

Esos inmundos trágicos, atentos
Al aplauso común, cuyas entrañas
Son infaustos y oscuros monumentos.

¡Cuán callada que pasa las montañas
El aura, respirando mansamente!
¡Qué gárrula y sonante por las cañas!

¡Qué muda la virtud por el prudente!
¡Qué redundante y llena de ruido
Por el vano, ambicioso y aparente!

Quiero imitar al pueblo en el vestido,
En las costumbres sólo a los mejores,
Sin presumir de roto y mal ceñido.

No resplandezca el oro y los colores
En nuestro traje, ni tampoco sea
Igual al de los dóricos cantores.

Una mediana vida yo posea,
Un estilo común y moderado,
Que no lo note nadie que lo vea.

En el plebeyo barro mal tostado
Hubo ya quien bebió tan ambicioso
Como en el vaso múrrimo preciado;

Y alguno tan ilustre y generoso
Que usó, como si fuera plata neta,
Del cristal transparente y luminoso.

Sin la templanza ¿viste tú perfeta
Alguna cosa? ¡Oh muerte! ven callada,
Como sueles venir en la saeta,

No en la tonante máquina preñada
De fuego y de rumor; que no es mi puerta
De doblados metales fabricada.

Así, Fabio, me muestra descubierta
Su esencia la verdad, y mi albedrío
Con ella se compone y se concierta.

No te burles de ver cuánto confío,
Ni al arte de decir, vana y pomposa,
El ardor atribuyas de este brío.

¿Es por ventura menos poderosa
Que el vicio la virtud? ¿Es menos fuerte?
No la arguyas de flaca y temerosa.

La codicia en las manos de la suerte
Se arroja al mar, la ira a las espadas,
Y la ambición se ríe de la muerte.

Y ¿no serán siquiera tan osadas
Las opuestas acciones, si las miro
De más ilustres genios ayudadas?

Ya, dulce amigo, huyo y me retiro
De cuanto simple amé; rompí los lazos.
Ven y verás al alto fin que aspiro,
Antes que el tiempo muera en nuestros brazos.
El hombre de estos campos que incendia los pinares
y su despojo aguarda como botín de guerra,
antaño hubo raído los negros encinares,
talado los robustos robledos de la sierra.
      Hoy ve a sus pobres hijos huyendo de sus lares;
la tempestad llevarse los limos de la tierra
por los sagrados ríos hacia los anchos mares;
y en páramos malditos trabaja, sufre y yerra.
      Es hijo de una estirpe de rudos caminantes,
pastores que conducen sus hordas de merinos
a Extremadura fértil, rebaños trashumantes
que mancha el polvo y dora el sol de los caminos.
      Pequeño, ágil, sufrido, los ojos de hombre astuto,
hundidos, recelosos, movibles; y trazadas
cual arco de ballesta, en el semblante enjuto
de pómulos salientes, las cejas muy pobladas.
      Abunda el hombre malo del campo y de la aldea,
capaz de insanos vicios y crímenes bestiales,
que bajo el pardo sayo esconde un alma fea,
esclava de los siete pecados capitales.
      Los ojos siempre turbios de envidia o de tristeza,
guarda su presa y llora la que el vecino alcanza;
ni para su infortunio ni goza su riqueza;
le hieren y acongojan fortuna y malandanza.
      El numen de estos campos es sanguinario y fiero:
al declinar la tarde, sobre el remoto alcor,
veréis agigantarse la forma de un arquero,
la forma de un inmenso centauro flechador.
      Veréis llanuras bélicas y páramos de asceta
-no fue por estos campos el bíblico jardín-:
son tierras para el águila, un trozo de planeta
por donde cruza errante la sombra de Caín.
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Por esta selva tan espesa,
donde nunca el sol penetró,
buscando voy una princesa
que se me perdió.

Entre los árboles copudos,
entre las lianas verdinegras
que trepan por los desnudos
troncos, como culebras;

entre las rocas de hosquedad
hostil y provocativa
y la pavorosa soledad
y la penumbra esquiva,

buscando voy una princesa
rubia como la madrugada
que no ha partido y que no regresa
desta espesura malhadada.

Dicen que al fin de aquella ruta,
que bordan el ciprés y el enebro,
hay una reina muy enjuta
que mora en un castillo muy *****;

que guarda en fieros torreones
otras princesas como la mía,
y que es sorda a las rogaciones
del desamparo y la agonía.

Mas, acaso si yo pudiese
ver a la reina, y su huella
seguir astuto, al cabo diese
con el castillo *****... ¡y con Ella!

Pero el más seguro instinto
no se sentiría capaz
de guiarse por el laberinto
desta penumbra pertinaz.

Es que el espíritu presiente
algo fatal que se avecina,
y es que acaso es más imponente
que lo que vemos claramente
lo que tan sólo se adivina.

Heme aquí, pues, con la alma opresa
en medio de obscuridad,
enamorado de una princesa
que se perdió en la selva espesa
tal vez por una eternidad...
La venta de Cidones está en la carretera
que va de Soria a Burgos. Leonarda, la ventera,
que llaman la Ruipérez, es una viejecita
que aviva el fuego donde borbolla la marmita.Ruipérez, el ventero, un viejo diminuto
-bajo las cejas grises, dos ojos de hombre astuto-,
contempla silencioso la lumbre del hogar.Se oye la marmita al fuego borbollar.Sentado ante una mesa de pino, un caballero
escribe. Cuando moja la pluma en el tintero,
dos ojos tristes lucen en un semblante enjuto.El caballero es joven, vestido va de luto.El viento frío azota los chopos del camino.
Se ve pasar de polvo un blanco remolino.La tarde se va haciendo sombría. El enlutado,
la mano en la mejilla, medita ensimismado.Cuando el correo llegue, que el caballero aguarda,
la tarde habrá caído sobre la tierra parda
de Soria. Todavía los grises serrijones,
con ruina de encinares y mellas de aluviones,
las lomas azuladas, las agrias barranqueras,
picotas y colinas, ribazos y laderas
del páramo sombrío por donde cruza el Duero,
darán al sol de ocaso su resplandor de acero.La venta se oscurece. El rojo lar humea.
La mecha de un mohoso candil arde y chispea.El enlutado tiene clavado en el fuego
los ojos largo rato; se los enjuga luego
con un pañuelo blanco. ¿Por qué le hará llorar
el son de la marmita, el ascua del hogar?Cerró la noche. Lejos se escucha el traqueteo
y el galopar de un coche que avanza. Es el correo.
Erick Ramos Mar 2019
Quetzalcoatl, un hombre, o serpiente?
Cuál es el punto de vivir al frente?
Abandonado por una madre, Chimalma,
Un río se lo llevó con calma.

Persona sabía, animal feroz
Déjate ser guiado por su voz.
Toma un trago del suave neutle
Por el Golfo de México, alejate.

Sumergido por siempre
Renace como el mañana
Quetzalcoatl quiere decir
Serpiente emplumada.

Adoptado por los mayas,
Kukulcan, o Votan,
Cargado por chinampas
Que con el tiempo se agotan.

Su nombre real
Lo encontrarás al final,
Una profecía que habla
De la gran Tenichtitlan.

El es sabio, y astuto
Sabe las respuestas, y punto.
De la tierra al panteón,
En la estrella de Venus se convirtió.

Ixtacmixcoatl,
La galaxia infinita,
Salpicada de piedras preciosas,
Que con diamantes acosas.

Una escultura en tu honor creada
Serpiente con penacho,
Con garras de Jaguar,
Hermoso y diferente.

No tendrás ningún igual.
The culture behind this poem is simple and savage, but full of beauty in every sense possible. Nomas ve y pregúntale a los dioses en el panteón.
Qui su l'arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null'altro allegra arbor né fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna dè mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell'impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s'annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d'armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi dè potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l'altero monte
Dall'ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d'esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All'amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell'uman seme,
Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell'umana gente
Le magnifiche sorti e progressive .
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch'a ludibrio talora
T'abbian fra sé. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch'io sappia che obblio
Preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell'aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell'alma generoso ed alto,
Non chiama sé né stima
Ricco d'or né gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma sé di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest'orbe, promettendo in terra
A popoli che un'onda
Di mar commosso, un fiato
D'aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che dè mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell'uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così qual fora in campo
Cinto d'oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl'inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell'orror che primo
Contra l'empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l'onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e su la mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch'a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L'uomo non pur, ma questo
Globo ove l'uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz'alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell'uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell'universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m'assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz'altra forza atterra,
D'un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l'opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l'assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d'alto piombando,
Dall'utero tonante
Scagliata al ciel profondo,
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli
O pel montano fianco
Furiosa tra l'erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d'infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l'estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell'uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell'altra è la strage,
Non avvien ciò d'altronde
Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall'ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell'ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall'inesausto grembo
Su l'arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l'acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontan l'usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente,
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l'antica obblivion l'estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all'aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte
Per li vacui teatri,
Per li templi deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per vòti palagi atra s'aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l'ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l'avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Né sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell'uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Valeria Chauvel Jun 2018
El príncipe dorado,
de bellos labios,
de rojo carmín,
bajo nuboso cielo gris,
galopeaba por horizonte ámbar,
en busca de quién él amaba.
Con su ropaje de plata,
y distinguida espada,
envaina y ataca,
ondulando cálidas montañas.
Hombresito astuto,
de pelo rubio,
continua su viaje,
por verde paisaje,
atravesando el mundo entero,
el príncipe forastero.

— The End —