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Irena Adler Nov 2018
Virginia Woolf una volte scrisse che " la bellezza ha due tagli, uno di gioia, l'altro di angoscia, che ci dividono il cuore".
La prima cosa che mi passa per la testa di fronte a tali parole è che l'uomo e la donna patiscono continuamente anche quando sono felici. Quel tipo di angoscia che non ti abbandona mai, la sofferenza di fronte alle scelte fatte o non fatte, il desiderio di evasione in un mondo utopico, la volontà di essere completamente liberi e stoici. I pregiudizi sono nostri amici-nemici. Tutto dipende da come gli accogliamo nelle varie circostanze della vita.
Se ci fosse Virginia Woolf qua con me sicuramente  si arrabbierebbe; " Come puoi essere così disordinata? Non mi stavi  per caso citando? E poi sembrava che stessi cercando  di spiegare qualcosa?! Salti da un argomento all'altro per caso. Se devi essere patetica, aggiungici un sarcasmo poetico".
Scusa ma non riesco ad organizzare ancora bene i miei pensieri. Fluttuano come la polvere nell'aria dopo che hai tentato inutilmente  di pulire un armadio vecchio. Scusa Virginia, mi conoscerai meglio con il passare del tempo.  " Ecco, brava! Che sia sempre con te lo spirito di Judith Shakespeare!"




Martedì 6.  

L'artista che corre per la strada e cerca la sua musa, la trova nello specchio che tende subito a scomparire.
Lui non si è accorto del Sole, vive di notte, disegna di notte, sogna di giorno, sogna di notte. Vive.
Non vede, lui osserva, ama l'impossibile, ama il futile eterno, sogna e vede ciò che non sarà mai compreso dagli altri. Lui trema e le sue mani tengono il pennello con un eccitazione che non si può comprendere ma solo provare. L'emozione di fronte ad un opera che deve appena essere creata, immortalata, eterna come la non-realtà.
L'immagine sussiste e lui sbatte le ali del sogno, disubbidisce alla società, gode ed ama l'incomprensibile, lo respira e vive di ciò.

Lo spessore della profondità è inabbattibile. L'acqua non ti fa annegare; è il pensiero. Non pensiamo, nuotiamo, è l'istinto a prevalere eppure abbiamo scelto di morire. Per questo motivo esiste l'altro, per annegarci o salvarci. Mantieni la dignità e vivi. E dunque sanguina.


Venerdì 9.

L'uomo e la donna. La donna e l'uomo. L'uomo ha sulla testa una lampadine e la donna uno sbattitore da cucina. La natura del cane è quella di abbaiare. La natura della specie umana è quella di riprodursi. Eppure abbiamo la necessità di creare ed inventare, non riusciamo a farne a meno. Sentiamo un bisogno insostenibile di portare fuori ciò che sta dentro. Siamo continuamente alla ricerca dell'essere presenti, passati e futuri. La gioia e l'angoscia d' esistere ci turba le anime. Ci chiediamo sempre qual'è lo scopo del fare e di muoverci. Dove sta il dono o la maledizione di essere stati scaraventati sulla palla ovale che gira intorno a se stessa ed intorno ad una palla ancora più grande che ci mantiene in vita. E' questo il senso? Dipendere dalla luce del sole oppure  soltanto dall'acqua e dal pane?
Dove sta l'essere in questa stanza? E' forse disteso su questo letto a scrivere? Forse.
Oppure si trova proprio nel pensiero che crea quel' atto?
L'esistenza umana è ridotta ad anni di vita, non secoli. Ciò che ci è stato dato l'abbiamo preso ed appreso, ci siamo impossessati ed ora fa parte di noi. Ci è stata data la vita dalla Natura ed essa ci ha pure delimitati.
" Ecco, voi siete parte di me, vivete e morite". Se è così noi dipendiamo gli uni dagli altri, non ha senso vivere soli sulla terra, abbandonati da nessuno. Non possiede alcuna logica.

Mercoledì 33.

Il mare non è sempre stato blu; una volta era violaceo e tutti gli animali potevano entrare nell'acqua senza dove trattenere il fiato. Si respirava nell'acqua, si stava bene. Soltanto quando arrivò l'uomo e ci mise il piede in acqua, essa si contrasse e divenne blu, scura e profonda. Il mare scelse di non dare accesso all'uomo e a quel diverso tipo di intelletto che si preparava a conquistare tutto ciò che mai gli potrà appartenere interamente. Per colpa sua le specie che abitavano la terra ferma dovettero separarsi da quelle marine.
Più l'uomo diventava avido ed egoista più il mare diventava profondo e salato. Non voleva finire nella bocca di quel animale strano che camminava su due stecchi con cinque rami piccoli, ben allineati ma sporchi. L'uomo costrinse il mare a piangere e non capì, non poteva capirlo poichè ora era lui il padrone.
Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l'aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! Allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l'aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre dè servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.
Né mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sé, ma perché tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol dè malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch'** appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l'allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell'arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M'era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! Sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m'avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell'imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d'affanno.
E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
Dè miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai cò silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia! ) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
O Nerina! E di te forse non odo
Questi luoghi parlar? Caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond'eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
State a sentì, ve voglio dì na cosa,
ma nun m'aita chiammà po' scustumato;
chello ca v'aggia dì è na quaccosa
ca i' penso che vvuje ggià nn'ite parlato.
Sta cusarella è ccosa ca sta a cuore
a tuttequante nuje napulitane:
sentennela 'e struppià, ma che dulore,
p'arraggia 'e vvote me magnasse 'e mmane!

Ma nun è proprio chisto l'argomento,
si 'a 'nguaiano o no la povera canzone...
Sanno parlà sultanto 'e tradimento!
'A verità, stu fatto m'indispone.

Na vota se cantava " 'O sole mio ",
"Pusilleco... Surriento... Marechiaro",
" 'O Vommero nce stà na tratturia "...
"A purpe vanno a ppesca cu 'e llampare"...

Chelli parole 'e sti canzone antiche,
mettevano int' 'o core n'allerezza;
chesti pparole 'e mo?... Che ffà... V' 'o ddico?
Nun è pe criticà: sò na schifezza!

"Torna cu mme... nun 'mporta chi t'ha avuta"
" 'O ssaccio ca tu ggià staje 'mbraccio a n'ato"...
"Stongo chiagnenno 'a che te ne si gghiuta"...
"Che pozzo fà s'io songo 'nnammurato"...

Mettimmece na pezza, amici cari,
e nun cantammo cchiù: "Tu m'he traduto".
Sentenno sti ccanzone, a mme me pare,
'e sta' a sentì 'o lamiento d' 'e curnute!
Nun songo nu grand'ommo
nun songo nu scienziato.
'A scola nun sò gghiuto
nisciuno m'ha mannato.
S' i' songo intelliggente?
e m' 'o spiate a mme?
I' songo nato a Napule,
che ne pozzo sapè?!
Appartengo alla *****...
a chella folla 'e ggente
ca nun capisce proprio 'o riesto 'e niente.
Però ve pozzo dicere na cosa:
campanno notte e ghiuomo a stu paese
pur i' me sò 'mparato quacche cosa,
quaccosa ca se chiamma umanità.
Senza sapè nè leggere e nè scrivere,
da onesto cittadino anarfabbeta,
ve pozzo parlà 'ncopp' a n' argomento
ca certamente ve pò interessà: chi è ll'ommo.
Ll'ommo è nu pupazzo 'e carne
cu sango e cu cervello
ca primma 'e venì al mondo
(cioè 'ncopp' a sta terra)
madre natura, ca è sempre priviggente,
l'ha miso 'nfunno 'a ll'anema,
cusuto dint'o core, na vurzella
cu dinto tante e tante pupazzielle
che saccio: 'o mariuncello,
na strega 'e Beneviento,
nu scienziatiello atomico
cu a faccia indisponente,
nu bello Capo 'e Stato
vestuto 'a Pulcinella;
curtielle, accette, strummolo
e quacche sciabbulella.
Penzanno ca 'o pupazzo
nu juomo se fa ommo,
si se vò divertì,
chesto 'o ppò fà. E comme?
Sceglienno 'a dint' 'o mazzo
ca tene dint' 'a vurzella,
chello ca cchiù lle piace
fra tutte 'e pazzielle.
Si po' sentite 'e dicere:
"'O tale hanno arrestato!
Era uno senza scrupolo:
pazziava al peculato.
E trene nun camminano?
'A posta s'he fermata?".
Chi tene 'mmano 'o strummolo,
pazzianno s'he spassato.
'O scienziatiello atomico
ch' 'a bomba 'a tena stretta
"Madonna! - tremma 'o popolo-
E si mo chisto 'a jetta?".
Guardate che disgrazia
si 'a sciabbulella afferra
nu capo ca è lunatico:
te fa scuppià na guerra.
Senza penzà ca 'o popolo:
mamme, mugliere e figlie,
chiagneno a tante 'e lacreme.
Distrutte sò 'e famiglie!
A sti pupazze 'e carne affocaggente
l'avessame educà cu 'o manganiello,
oppure, la natura priviggente,
avess' 'a fa turnà nu Masaniello.
Ma 'e ccose no... nun cagnano
e v' 'o dich'i' 'o pecché:
nuie simme tanta pecure...
facimmo sempe "mbee".
Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l'aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! Allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l'aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre dè servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.
Né mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sé, ma perché tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol dè malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch'** appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l'allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell'arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M'era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! Sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m'avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell'imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d'affanno.
E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
Dè miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai cò silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia! ) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
O Nerina! E di te forse non odo
Questi luoghi parlar? Caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond'eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l'aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! Allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l'aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre dè servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.
Né mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di sé, ma perché tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol dè malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch'** appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l'allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell'arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon dell'ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per sé; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M'era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! Sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m'avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell'imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d'affanno.
E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
Dè miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai cò silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia! ) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l'accolga e chiami?
Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
O Nerina! E di te forse non odo
Questi luoghi parlar? Caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond'eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
È deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l'abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D'ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
Nun songo nu grand'ommo
nun songo nu scienziato.
'A scola nun sò gghiuto
nisciuno m'ha mannato.
S' i' songo intelliggente?
e m' 'o spiate a mme?
I' songo nato a Napule,
che ne pozzo sapè?!
Appartengo alla *****...
a chella folla 'e ggente
ca nun capisce proprio 'o riesto 'e niente.
Però ve pozzo dicere na cosa:
campanno notte e ghiuomo a stu paese
pur i' me sò 'mparato quacche cosa,
quaccosa ca se chiamma umanità.
Senza sapè nè leggere e nè scrivere,
da onesto cittadino anarfabbeta,
ve pozzo parlà 'ncopp' a n' argomento
ca certamente ve pò interessà: chi è ll'ommo.
Ll'ommo è nu pupazzo 'e carne
cu sango e cu cervello
ca primma 'e venì al mondo
(cioè 'ncopp' a sta terra)
madre natura, ca è sempre priviggente,
l'ha miso 'nfunno 'a ll'anema,
cusuto dint'o core, na vurzella
cu dinto tante e tante pupazzielle
che saccio: 'o mariuncello,
na strega 'e Beneviento,
nu scienziatiello atomico
cu a faccia indisponente,
nu bello Capo 'e Stato
vestuto 'a Pulcinella;
curtielle, accette, strummolo
e quacche sciabbulella.
Penzanno ca 'o pupazzo
nu juomo se fa ommo,
si se vò divertì,
chesto 'o ppò fà. E comme?
Sceglienno 'a dint' 'o mazzo
ca tene dint' 'a vurzella,
chello ca cchiù lle piace
fra tutte 'e pazzielle.
Si po' sentite 'e dicere:
"'O tale hanno arrestato!
Era uno senza scrupolo:
pazziava al peculato.
E trene nun camminano?
'A posta s'he fermata?".
Chi tene 'mmano 'o strummolo,
pazzianno s'he spassato.
'O scienziatiello atomico
ch' 'a bomba 'a tena stretta
"Madonna! - tremma 'o popolo-
E si mo chisto 'a jetta?".
Guardate che disgrazia
si 'a sciabbulella afferra
nu capo ca è lunatico:
te fa scuppià na guerra.
Senza penzà ca 'o popolo:
mamme, mugliere e figlie,
chiagneno a tante 'e lacreme.
Distrutte sò 'e famiglie!
A sti pupazze 'e carne affocaggente
l'avessame educà cu 'o manganiello,
oppure, la natura priviggente,
avess' 'a fa turnà nu Masaniello.
Ma 'e ccose no... nun cagnano
e v' 'o dich'i' 'o pecché:
nuie simme tanta pecure...
facimmo sempe "mbee".
Nun songo nu grand'ommo
nun songo nu scienziato.
'A scola nun sò gghiuto
nisciuno m'ha mannato.
S' i' songo intelliggente?
e m' 'o spiate a mme?
I' songo nato a Napule,
che ne pozzo sapè?!
Appartengo alla *****...
a chella folla 'e ggente
ca nun capisce proprio 'o riesto 'e niente.
Però ve pozzo dicere na cosa:
campanno notte e ghiuomo a stu paese
pur i' me sò 'mparato quacche cosa,
quaccosa ca se chiamma umanità.
Senza sapè nè leggere e nè scrivere,
da onesto cittadino anarfabbeta,
ve pozzo parlà 'ncopp' a n' argomento
ca certamente ve pò interessà: chi è ll'ommo.
Ll'ommo è nu pupazzo 'e carne
cu sango e cu cervello
ca primma 'e venì al mondo
(cioè 'ncopp' a sta terra)
madre natura, ca è sempre priviggente,
l'ha miso 'nfunno 'a ll'anema,
cusuto dint'o core, na vurzella
cu dinto tante e tante pupazzielle
che saccio: 'o mariuncello,
na strega 'e Beneviento,
nu scienziatiello atomico
cu a faccia indisponente,
nu bello Capo 'e Stato
vestuto 'a Pulcinella;
curtielle, accette, strummolo
e quacche sciabbulella.
Penzanno ca 'o pupazzo
nu juomo se fa ommo,
si se vò divertì,
chesto 'o ppò fà. E comme?
Sceglienno 'a dint' 'o mazzo
ca tene dint' 'a vurzella,
chello ca cchiù lle piace
fra tutte 'e pazzielle.
Si po' sentite 'e dicere:
"'O tale hanno arrestato!
Era uno senza scrupolo:
pazziava al peculato.
E trene nun camminano?
'A posta s'he fermata?".
Chi tene 'mmano 'o strummolo,
pazzianno s'he spassato.
'O scienziatiello atomico
ch' 'a bomba 'a tena stretta
"Madonna! - tremma 'o popolo-
E si mo chisto 'a jetta?".
Guardate che disgrazia
si 'a sciabbulella afferra
nu capo ca è lunatico:
te fa scuppià na guerra.
Senza penzà ca 'o popolo:
mamme, mugliere e figlie,
chiagneno a tante 'e lacreme.
Distrutte sò 'e famiglie!
A sti pupazze 'e carne affocaggente
l'avessame educà cu 'o manganiello,
oppure, la natura priviggente,
avess' 'a fa turnà nu Masaniello.
Ma 'e ccose no... nun cagnano
e v' 'o dich'i' 'o pecché:
nuie simme tanta pecure...
facimmo sempe "mbee".
State a sentì, ve voglio dì na cosa,
ma nun m'aita chiammà po' scustumato;
chello ca v'aggia dì è na quaccosa
ca i' penso che vvuje ggià nn'ite parlato.
Sta cusarella è ccosa ca sta a cuore
a tuttequante nuje napulitane:
sentennela 'e struppià, ma che dulore,
p'arraggia 'e vvote me magnasse 'e mmane!

Ma nun è proprio chisto l'argomento,
si 'a 'nguaiano o no la povera canzone...
Sanno parlà sultanto 'e tradimento!
'A verità, stu fatto m'indispone.

Na vota se cantava " 'O sole mio ",
"Pusilleco... Surriento... Marechiaro",
" 'O Vommero nce stà na tratturia "...
"A purpe vanno a ppesca cu 'e llampare"...

Chelli parole 'e sti canzone antiche,
mettevano int' 'o core n'allerezza;
chesti pparole 'e mo?... Che ffà... V' 'o ddico?
Nun è pe criticà: sò na schifezza!

"Torna cu mme... nun 'mporta chi t'ha avuta"
" 'O ssaccio ca tu ggià staje 'mbraccio a n'ato"...
"Stongo chiagnenno 'a che te ne si gghiuta"...
"Che pozzo fà s'io songo 'nnammurato"...

Mettimmece na pezza, amici cari,
e nun cantammo cchiù: "Tu m'he traduto".
Sentenno sti ccanzone, a mme me pare,
'e sta' a sentì 'o lamiento d' 'e curnute!
State a sentì, ve voglio dì na cosa,
ma nun m'aita chiammà po' scustumato;
chello ca v'aggia dì è na quaccosa
ca i' penso che vvuje ggià nn'ite parlato.
Sta cusarella è ccosa ca sta a cuore
a tuttequante nuje napulitane:
sentennela 'e struppià, ma che dulore,
p'arraggia 'e vvote me magnasse 'e mmane!

Ma nun è proprio chisto l'argomento,
si 'a 'nguaiano o no la povera canzone...
Sanno parlà sultanto 'e tradimento!
'A verità, stu fatto m'indispone.

Na vota se cantava " 'O sole mio ",
"Pusilleco... Surriento... Marechiaro",
" 'O Vommero nce stà na tratturia "...
"A purpe vanno a ppesca cu 'e llampare"...

Chelli parole 'e sti canzone antiche,
mettevano int' 'o core n'allerezza;
chesti pparole 'e mo?... Che ffà... V' 'o ddico?
Nun è pe criticà: sò na schifezza!

"Torna cu mme... nun 'mporta chi t'ha avuta"
" 'O ssaccio ca tu ggià staje 'mbraccio a n'ato"...
"Stongo chiagnenno 'a che te ne si gghiuta"...
"Che pozzo fà s'io songo 'nnammurato"...

Mettimmece na pezza, amici cari,
e nun cantammo cchiù: "Tu m'he traduto".
Sentenno sti ccanzone, a mme me pare,
'e sta' a sentì 'o lamiento d' 'e curnute!

— The End —