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Geografia (2)**

Havia a lua a conquistar: magno evento.
Mas a vida corria normal em solo firme
Ah, e os sustos: o estômago puro vento
Eu silente, exausto, adormecia inerme.
Entanto, no cerrado havia muitas frutinhas.
E havia a revolução, e reuniões de oração.
Quando dormia no meio do Pai-Nosso.
Uma centena de orantes à espera de um milagre.
Então Seu Roque viajava para o Interior –
Com seu carrossel de slides e nossas fotos
Não havia quem não doasse alguma coisa:
- Um capado, um saco de arroz, bananas
Em cachos; voltava no fordinho velho
Mas bem fornido; tão feliz, e barbado.
& The United Brothers enviavam cartas.
Dentro dessas meu primeiro bookmark
E o desejo de conhecer o estrangeiro...
Na escola dominical, aprendi os 10 Mandamentos.
Ficava triste nas tardes de domingo; ainda agora.
Um gosto de mangaba e o dedão do pé doendo
Como quando chutava lobeiras em lugar de bolas.

O abrigo era o melho lugar do mundo limpo
O quintal; o milharal capinado; havia o Careta
Nosso cavalo; o Thinka – latindo para o Leão.
Éramos tão felizes quando banhados à espera
De vovó Cecília e seus doces de buritis...
Jesus, como era o teu nome chamado.
Até que o Filemon teve convulsão e tudo desabou
Sobre nossas cabeças como o Apocalipse de S. João.
Fim.
./.
Poesia, BetoQueiroz, Memorias
O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme
Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
Oimè quante ferite,
Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio,
Formesissima donna!
Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia,
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.
Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Perché, perché? Dov'è la forza antica?
Dove l'armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica
0 qual tanta possanza,
Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? Non ti difende
Nessun dè tuoi? L'armi, qua l'armi: ío solo
Combatterà, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl'italici petti il sangue mio.
Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d'armi
E di carri e di voci e di timballi
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di *****
Come tra nebbia lampi.
Nè ti conforti e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L'itata gioventude? 0 numi, o numi
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.
Oh venturose e care e benedette
L'antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre
E voi sempre onorate e gloriose,
0 tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch'alme franche e generose!
Lo credo che le piante e i sassi e l'onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprir le invitte schiere
Dè corpi ch'alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l'Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
E sul colle d'Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salia,
Guardando l'etra e la marina e il suolo.
E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Toglicasi in man la lira:
Beatissimi voi,
Ch'offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
Nell'armi e nè perigli
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
Come si lieta, o figli,
L'ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e, duro?
Parea ch'a danza e non a morte andasse
Ciascun dè vostri, o a splendido convito:
Ma v'attendea lo scuro
Tartaro, e l'ond'a morta;
Nè le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l'aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.
Ma non senza dè Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia;
Tal fra le Perse torme infuriava
L'ira dè greci petti e la virtute.
Vè cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute,
E correr frà primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno;
vè come infusi e tintí
Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d'infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scriva.
Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell'imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
0 benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall'uno all'altro polo.
Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest'alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch'io per la Grecia i mororibondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
Così la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la, vostra duri.
Perché i celesti danni
Ristori il sole, e perché l'aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
Delle nubi la grave ombra s'avvalla;
Credano il petto inerme
Gli augelli al vento, e la diurna luce
Novo d'amor desio, nova speranza
Nè penetrati boschi e fra le sciolte
Pruine induca alle commosse belve;
Forse alle stanche e nel dolor sepolte
Umane menti riede
La bella età, cui la sciagura e l'atra
Face del ver consunse
Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
Di febo i raggi al misero non sono
In sempiterno? Ed anco,
Primavera odorata, inspiri e tenti
Questo gelido cor, questo ch'amara
Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?
Vivi tu, vivi, o santa
Natura? Vivi e il dissueto orecchio
Della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
Placido albergo e specchio
Furo i liquidi fonti. Arcane danze
D'immortal piede i ruinosi gioghi
Scossero e l'ardue selve (oggi romito
Nido dè venti): e il pastorel ch'all'ombre
Meridiane incerte ed al fiorito
Margo adducea dè fiumi
Le sitibonde agnelle, arguto carme
Sonar d'agresti Pani
Udì lungo le ripe; e tremar l'onda
Vide, e stupì, che non palese al guardo
La faretrata Diva
Scendea nè caldi flutti, e dall'immonda
Polve tergea della sanguigna caccia
Il niveo lato e le verginee braccia.
Vissero i fiori e l'erbe,
Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
Aure, le nubi e la titania lampa
Fur dell'umana gente, allor che ignuda
Te per le piagge e i colli,
Ciprigna luce, alla deserta notte
Con gli occhi intenti il viator seguendo,
Te compagna alla via, te dè mortali
Pensosa immaginò. Che se gl'impuri
Cittadini consorzi e le fatali
Ire fuggendo e l'onte,
Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime
Selve remoto accolse,
Viva fiamma agitar l'esangui vene,
Spirar le foglie, e palpitar segreta
Nel doloroso amplesso.
Juan y Margot, dos ángeles hermanos
Que embellecen mi hogar con sus cariños
Se entretienen con juegos tan humanos
Que parecen personas desde niños.

Mientras Juan, de tres años, es soldado
Y monta en una caña endeble y hueca,
Besa Margot con labios de granado
Los labios de cartón de su muñeca.

Lucen los dos sus inocentes galas,
Y alegres sueñan en tan dulces lazos;
Él, que cruza sereno entre las balas;
Ella, que arrulla un niño entre sus brazos.

Puesto al hombro el fusil de hoja de lata,
El kepis de papel sobre la frente,
Alienta el niño en su inocencia grata
El orgullo viril de ser valiente.

Quizá piensa, en sus juegos infantiles,
Que en este mundo que su afán recrea,
Son como el suyo todos los fusiles
Con que la torpe humanidad pelea.

Que pesan poco, que sin odios lucen,
Que es igual el más débil el más fuerte,
Y que, si se disparan, no producen
Humo, fragor, consternación y muerte.

¡Oh, misteriosa condición humana!
Siempre lo opuesto buscas en la tierra;
Ya delira Margot por ser anciana,
Y Juan, que vive en paz, ama la guerra.

Mirándoles jugar me aflijo y callo:
¿Cuál será sobre el mundo su fortuna?
Sueña el niño con armas y caballo,
La niña con velar junto a la cuna.

El uno corre de entusiasmo ciego,
La niña arrulla a su muñeca inerme,
Y mientas grita el uno: Fuego! fuego,
La otra murmura triste: Duerme, duerme.

A mi lado ante juegos tan extraños
Concha, la primogénita, me mira:
¡Es toda una persona de ses años
Que charla, que comenta y que suspira!

¿Por qué inclina su lánguida cabeza
Mientras deshoja inquieta algunas flores?
¿Será la que ha heredado mi tristeza?
¿Será la que comprende mis dolores?

Cuando me rindo del dolor al peso,
Cuando la negra duda me avasalla,
Se me cuelga del cuello, me da un beso,
Se le saltan las lágrimas y calla.

Sueltas sus trenzas claras y sedosas,
Y oprimiendo mi mano entre sus manos,
Parece que medita en muchas cosas
Al mirar cómo juegan sus hermanos.

Margot, que canta en madre transformada,
Y arrulla a un hijo que jamás se queja,
Ni tiene que llorar desengañada,
Ni el hijo crece, ni se vuelve vieja.

Y este guerrero audaz de tres abriles
Que ya se finge apuesto caballero,
No logra en sus campañas infantiles
Manchar con sangre y lágrimas su acero.

¡Inocencia! ¡Niñez! ¡Dichosos nombres!
Amo tus goces, busco tus cariños;
Cómo han de ser los sueños de los hombres,
Más dulces que los sueños de los niños!

¡Oh, mis hijos! No quiera la fortuna
Turbar jamás vuestra inocente calma,
No dejéis esa espada ni esa cuna:
¡Cuando son de verdad, matan el alma!
o es que existe un territorio
donde las sangres se mezclan(de una canción de Daniel Viglietti)

Ya van días y noche que pienso pobre flaco
y no puedo ni quiero apartar el recuerdo

no el subido al cajón a la tribuna
con su palabra de espiral velocisima
que blindaba los pregones del pueblo
o encendía el futuro con unas pocas brasas
ni el cruzado sin tregua que quería
salvar la sangre prójima aferrándose
a la justicia esa pobre lisiada

no es el rostro allá arriba el que concurre
mas bien el compañero del exilio
el cálido el silencio aquel buen parroquiano
del boliche de la calle maipú
fiel al churrasco y al budín de pan
rodeado de hijos hijas yernos nietos
ese flamante abuelo con cara de muchacho
hablando del paisito con la pasión ecuánime
sin olvidar heridas
y tampoco quedándose en el barro
siempre haciendo proyectos y eran viables
ya que su vocación de abrecaminos
lo llevaba a fundar optimismos atajos
cuando alguno se daba por maltrecho

y a pesar de la turbia mescolanza
que hay en el techo gris de la derrota
nadie consiguió que tildara de enemigos
a quienes bien o mal
radiantes o borrosos
faros o farolitos
eran pueblo
                      como él

y también comparece el vigilado
por esos tiras mansos con quienes conversaba
de cine libros y otras zancadillas
en el hotel o escala o nostalgia
de la calle corrientes

se que una vez el dueño que era amigo
lo reconvino porque había una cola
de cincuenta orientales nada menos
que venían con dudas, abandonos
harapos desempleos frustraciones conatos
pavores esperanzas cabalas utopías

y el escuchaba a todos
el ayudaba comprendía a todos
lo hacia cuerdamente y si algo prometía
lo iba a cumplir después con el mismo rigor
que si fuera contrato ante escribano público
no se puede agregar decia despacito
mas angustia a la angustia
no hay derecho

y trabaja siempre
noche y día
quizás para olvidar que la muerte miraba
de un solo manotazo espantaba sus miedos
como si fueran moscas o rumores
y pese a las calumnias las alarmas
su confianza era casi indestructible
llevaba la alegria siempre ilesa
de la gente que cumple con la gente

solo un imagen lo vencia
era la hija inerme
la hija en la tortura
durante quince insomnios la engañaron diciendole
que lo habian borrado en la Argentina
era un viejo proyecto por lo visto
entonces si pedia ayuda para
no caer en la desesperación
para no maldecir mas de la cuenta
ya van noches y días que pienso pobre flaco
un modo de decir pobres nosotros
que nos hemos quedado
sin su fraternidad sobre la tierra
no se me borra la sonrisa el gesto
de la ultima vez que lo vi junto a chicho
y no le dije adios sino cuidate
pero los dos sabiamos que no se iba a cuidar

por lo comun cuando cae un verdugo
un doctor en crueldad, un mitrione cualquiera
los canallas zalameros recuerdan
que deja tres cuatro
verduguitos en ciernes

ahora que problema este hombre legal
este hombre cabal acribillado
este muerto inmorible con las manos atadas
deja diez hijos tras de si
diez huellas
pienso en cecilia en chicho
en isabel margarita felipe
y los otros que siempre lo rodeaban
porque tambien a ellos inspiraba confianza
y que lindos gurises ojala
vayan poquito a poco entendiendo su duelo
resembrando a zelmar en sus diez surcos

puede que la tristeza me haga decir ahora
sin el aval de las computadoras
que era el mejor de nosotros
y era
pero nada me hará olvidar que fue
quien haciendo y rehaciendo
se purifico mas en el exilio

mañana apretaremos con los dientes
este gajo de asombro
este agrio absurdo gajo
y tragaremos
                       seguirá
la vida
pero hoy este horror es demasiado

que no profane el odio
a este bueno yacente este justo
que el odio quede fuera del recinto
donde estan los que quiso y que lo quieren
solo por esta noche
por esta pena apenas
para que nada tizne
esta vela de almas

pocos podran como él
caer tan generosamente
tan atrozmente ingenuos
tan limpiamente osados

mejor juntemos nuestras osadías
la generosidad mas generosa
y ademas instalemos con urgencia
fieles radares en la ingenuidad

convoquemos aquí a nuestros zelmares
esos que el mismo nos dejo en custodia
el que ayudo a cada uno en su combate
en su mas sola soledad
y hasta nos escucho los pobres sueños
                él
                que siempre salía
                de alguna pesadilla
y si tendia una mano era una mano
y si daba consuelo era un consuelo
y nunca un simulacro

convoquemos aquí a nuestros zelmares
en ellos no hay ceniza
ni muerte ni derrota ni tierno descalabro
nuestros zelmares siguen tan campantes
señeros renacidos
únicos y plurales
fieles y hospitalarios
convoquemos aquí a nuestros zelmares
y si aun asi fraternos
asi reunidos en un duro abrazo

en una limpia desesperación
cada uno de esos módicos zelmares
echa de menos a zelmar
                                          será
que el horror sigue siendo demasiado
y ya que nuestro muerte
como diria roque en plena vida
es un indócil
ya que es un difunto peliagudo
que no muere en nosotros
pero muere
que cada uno llore como pueda

a lo mejor entonces
nuestro zelmar
                           ese de cada uno
ese que el mismo nos dejo en custodio
a cada uno tendera una mano
y como en tantas otras
malas suertes y noches
nos sacara del pozo
desamortajara nuestra alegría
y empezara a blindarnos los pregones
a encender el futuro con unas pocas brasas
Quiero el poeta ser de almas heridas
que la piedad de la palabra imploran,
de tantas tristes, solitarias vidas,
de corazones que en silencio lloran.

Quiero dar ritmo a lo indeciso y vago,
que es cual bruma y recóndita belleza,
y ser voz del que sueña junto a un lago
sin que dar pueda voz a su tristeza.

Quiero en cadencias expresar lo ignoto
y en el azul dar alas a lo inerme,
juntar en ritmos un ensueño roto,
y canto ser de lo que oculto duerme.

Y quiero compartir el sufrimiento
de otros; y ser su confidente ansío...
¡Y dar no puedo vida a lo que siento,
ni forma puedo dar a lo que es mío!
Sólo una tonta podía dedicar su vida a la
soledad y al amor.

Sólo una tonta podía morirse al tocar una lámpara,
si lámpara encendida,
desperdiciada lámpara de día eras tú.

Retonta por desvalida, por inerme,
por estar ofreciendo tu canasta de frutas a
los árboles,
tu agua al manantial,
tu calor al desierto,
tus alas a los pájaros.

Retonta, rechayito, remadre de tu hijo y de
ti misma.

Huérfana y sola como en las novelas,
presumiendo de tigre, ratoncito,
no dejándote ver por tu sonrisa,
poniéndote corazas transparentes,
colchas de terciopelo y de palabras
sobre tu desnudez estremecida.

¡Cómo te quiero, Chayo, cómo duele
pensar que traen tu cuerpo! -así se dice-
(¿Dónde dejaron tu alma? ¿No es posible
rasparla de la lámpara, recogerla del piso
con una escoba? ¿Qué, no tiene escobas la Embajada?)

¡Cómo duele, te digo, que te traigan,
te pongan, te coloquen, te manejen,
te lleven de honra en honra funerarias!

(¡No me vayan a hacer a mí esa cosa
de los Hombres Ilustres, con una
chingada!)

¡Cómo duele, Chayito! ¿Y esto es todo?

¡Claro que es todo, es todo!

Lo bueno es que hablan bien en el Excélsior
y estoy seguro de que algunos lloran,
te van a dedicar tus suplementos,
poemas mejores que éste, estudios,
glosas,
¡qué gran publicidad tienes ahora!

La próxima vez que platiquemos
te diré todo el resto.
Ya no estoy enojado.

Hace mucho calor en Sinaloa.
Voy a irme a la alberca a echarme un trago.
El cuerpo no quiere deshacerse sin antes haberse consumado. Y
¿cómo se consuma el cuerpo? La inteligencia no sabe
decírselo, aunque sea ella quien más claramente conciba
esa ambición del cuerpo, que éste sólo vislumbra.
El cuerpo no sabe sino que está aislado, terriblemente aislado,
mientras que frente a él, unida, entera, la creación
está llamándole.

Sus formas, percibidas por el cuerpo a través de los sentidos,
con la atracción honda que suscitan (colores, sonidos, olores),
despiertan en el cuerpo un instinto de que también él es
parte de ese admirable mundo sensual, pero que está desunido y
fuera de él, no en él. ¡Entrar en ese mundo, del
cual es parte aislada, fundirse con él!

Mas para fundirse con el mundo no tiene el cuerpo los medios del
espíritu, que puede poseerlo todo sin poseerlo o como si no lo
poseyera. El cuerpo únicamente puede poseer las cosas, y eso
sólo un momento, por el contacto de ellas. Así, al dejar
éstas su huella sobre él, conoce el cuerpo las cosas.

No se lo reprochemos: el cuerpo, siendo lo que es, tiene que hacer lo
que hace, tiene que querer lo que quiere. ¿Vencerlo?
¿Dominarlo? Cuán pronto se dice eso. El cuerpo advierte
que sólo somos él por un tiempo, y que también
él tiene que realizarse a su manera, para lo cual necesita
nuestra ayuda. Pobre cuerpo, inocente animal tan calumniado; tratar de
bestiales sus impulsos, cuando la bestialidad es cosa del
espíritu.


Aquella tierra estaba frente a ti, y tú inerme frente a ella. Su
atracción era precisamente del orden necesario a tu naturaleza:
todo en ella se conformaba a tu deseo. Un instinto de fusión con
ella, de absorción en ella, urgían tu ser, tanto
más cuanto que la precaria vislumbre sólo te era
concedida por un momento. Y ¿cómo subsistir y hacer
subsistir al cuerpo con memorias inmateriales?

En un abrazo sentiste tu ser fundirse con aquella tierra; a
través de un terso cuerpo oscuro, oscuro como penumbra, terso
como fruto, alcanzaste la unión con aquella tierra que lo
había creado. Y podrás olvidarlo todo, todo menos ese
contacto de la mano sobre un cuerpo, memoria donde parece latir,
secreto y profundo, el pulso mismo de la vida.
Todos caminan
yo también camino

es lunes y venimos con la saliva amarga
mejor dicho
son ellos los que vienen

a la sombra de no sé cuántos pisos
millones de mandíbulas
que mastican su goma
sin embargo son gente de este mundo
con todo un corazón bajo el chaleco

hace treinta y nueve años
yo no estaba
tan solo y tan rodeado
ni podía mirar a las queridas
de los innumerables ex-sargentos
de ex-sargentísimo Batista
que hoy sacan a mear
sus perros de abolengo
en las esquinas de la democracia
hace treinta y nueve años
allá abajo
más debajo de lo que hoy se conoce
como Fidel Castro o como Brasilia
abrí los ojos y cantaba un gallo
tiene que haber cantado
necesito
un gallo que le cante al Empire State Building
con toda su pasión
y la esperanza
de parecer iguales
o de serlo

todos caminan
yo también camino
a veces me detengo
ellos no
no podrían

respiro y me siento
respirar
eso es bueno
tengo sed y me cuesta
diez centavos de dólar
otro jugo de fruta
con gusto a Guatemala

este cumpleaños
no es
mi verdadero
porque este alrededor
no es
mi verdadero
los cumpliré más tarde
en febrero o en marzo
con los ojos que siempre me miraron
las palabras que siempre me dijeron
con un cielo de ayer sobre mis hombros
y el corazón deshilachado y terco
los cumpliré más tarde
o no los cumplo
pero éste no es mi verdadero

todos caminan
yo también camino
y cada dos zancadas poderosas
doy un modesto paso melancólico

entonces los becarios colombianos
y los taximetristas andaluces
y los napolitanos que venden pizza y cantan
y el mexicano que aprendió a mascar chicles
y el brasileño de insolente fotómetro
y la chilena con su amante ******
y los puertorriqueños que pasean
su belicosos miedo colectivo
miran y reconocen mi renguera
y ellos también se aflojan un momento
y dan un solo paso melancólico
como los autos de la misma marca
que se hacen una seña con las luces

nunca estuvo tan lejos
ese cielo
nunca estuvo tan lejos
y tan chico
un triángulo isósceles nublado
que ni siquiera es una nube entera

tengo unas ganas cursis
dolorosas
de ver algo de mar
de sentir como llueve en Andes y Colonia
de oír a mi mujer diciendo cualquier cosa
de escuchar las bocinas
y de putear con eco
de conseguir un tango
un pedazo de tango
tocado por cualquiera
que no sea Kostelanetz

pero también es bueno
sentir alguna vez un poco de ternura
hacia este chorro enorme
poderoso
indefenso
de humanidad dócilmente apurada
con la cruz del confort sobre su frente
un poco de imprevista ternura sin raíces
digamos por ejemplo hacia una madre equis
que ayer en el zoológico de Central Park
le decía a su niño con preciosa nostalgia
look Johnny this is a cow
porque claro
no hay vacas entre los rascacielos

y otro poco de fe
que es mi único folklore
para agitar como un pañuelo blanco
cuando pasen o simplemente canten
las tres clases de seres más vivos de este Norte
quiero decir los negros
las negras
los negritos

todos caminan
pero yo
me he sentado
un yanqui de doce años me lustra los zapatos
él no sabe que hoy es mi cumpleaños
ni siquiera que no es mi verdadero
por mi costado pasan todos ellos
aaso yo podría ser un dios provisorio
que contemplara inerme su rebaño
o podría ser un héroe más provisorio aún
y disfrutar mis trece minutos estatuarios

pero todo está claro
y es más dulce
más útil
sobre todo más dulce
reconocer que el tiempo está pasando
que está pasando el tiempo y hace ruido
y sentirse de una vez para siempre
olvidado y tranquilo
como un cero a la izquierda.
Bajo un cámbulo en flor, en la llanura,
cerca de clara fuente rumorosa
que va regando a su rededor frescura,
sin cruz la abandonada sepultura,
el poeta suicida en paz reposa.

Caprichoso juguete del destino,
pálido, siempre triste, torvo y ceño,
fue en extrañas regiones peregrino,
siempre buscando su ideal divino,
y siempre en pos de su imposible sueño.

Una tarde, a los últimos fulgores
de Sol, cuando en el viejo campanario
del Ángelus vibraban los clamores,
regresó, con su fardo de dolores,
a su hogar el poeta solitario.

«Mi corazón, nos dijo, paz desea;
escribiré»... Para luchar cobarde
Nada más escribió. Su sola idea
era la de la muerte... Y otra tarde
lo vimos que salía de la aldea.

«Dónde vas?» Le dijimos
                                «Una cita;
Voy de prisa... me esperan...» Infinita
calma brillaba en su pupila inerte
«¿Quien? No lo sé. Beatriz... o Margarita».
...Y su cita... ¡era cita con la muerte!

Ya duerme... Y a las sombras, a lo ignoto,
a la negra, infinita lontananza,
lanzó el cansado y pálido piloto,
su blanco ensueño, como mástil roto,
como tabla deshecha, la Esperanza.

Como es tierra maldita, no hay camino
a do el triste cantor descansa inerme;
huye su sepultura el campesino,
solo... y en paz, con su laúd divino.

Pero cuando la luna en los desiertos
ámbitos se levantan, como aurora,
como la blanca aurora de los muertos,
desentume el canto los brazos yertos,
y en su huesa callada se incorpora.

¿Qué dulce voz de misterioso encanto
rompe el silencio de la noche? ¿Es una
serenata de amor?... ¿Plegaria o llanto?
¿Notas de arpas celestes?... ¡Es el canto
del poeta, a los rayos de la luna!

Y surgen a su acento, cual visiones,
las bellas heroínas inmortales
de sus castos poemas y canciones...
¡De su vida, las blancas ilusiones;
del poeta, las novias ideales!

Van surgiendo al vibrar de la armonía,
halo de luz sobre la frente, y llenas
de albas rosas las manos... Se diría
de canéforas blanca Teoría,
bajo arcadas de mármol, en Atenas.

En silencio lo escuchan... Ni un acento
Se levanta inoportuno... Ni suspira
Entre las ramas del guadual el viento.
En torno todo es paz, recogimiento;
todo es quietud al sollozar la ira.

Callad al fin las notas armoniosas;
y a la luz de la luna, que en la quieta
llanura se difunde, las hermosas
ponen sobre las sienes del poeta
una corona de laurel y rosas

Vuelve a cantar la brisa... Lentamente
las visiones se extinguen una a una;
como un áureo jardín es el Oriente,
y el poeta en la fosa hunde la frente,
mientras se borra en el azul la luna.
Delinquiría
de leso corazón
si no anegara con mi idolatría,
en lacrimosa ablución,
la imagen de la párvula sombría.
Retrato para quien mi llanto mana
a la una de la mañana,
reflejando en su sal, que va sin brida,
la minúscula frente desmedida...
Cejas, andamio
del alcázar del rostro , en las que ondula
mi tragedia mimosa, sin la bula
para un posible epitalamio...
La niña del retrato
se puso seria, y se veló su frente,
y endureció los dos ojos profundos,
como una migajita de otros mundos
que caída en brumoso interinato,
toda la angustia sublunar presiente.
Fiereza desvalida, hecha a mirar
el mar...
Boca en bisel, como un espejo afable
que no hable...
Medias de almo color; para que vaya
por la cernida arena de la playa...
Las deleznables manos,
que cavan pozos enanos,
son carceleras de los océanos...
Linda congoja de la frente linda,
la que inerme y tiránica se brinda
por modelo de copa y de coyunda
y de lira rotunda...
Retrato de iniciales sinfonías:
tus cinco años son cinco bujías
a cuya luz el alma llora;
por eso a ti me abro
como a la honestidad versicolora
de un diminutivo candelabro.
Los invisibles hombros, cual quimera
en que un genio marítimo retoza,
no columbran siquiera
la adoración venidera
que los ha de rozar, como se roza
el codo de una estricta compañera.
Párvula del retrato;
seriedad prematura;
linda congoja de un juego nonato
que enfrente del fotógrafo se apura;
pelo de enigma, como los edenes
enigmáticos desde donde vienes;
víspera bella que cantas
en la Octava de mi más negra hora:
hoy hice un alto por mojar tus plantas
con sangre de mis ojos, y miré
que salías del óvalo de bruma,
como punto final que se incorpora
y como duende de relojería,
a dar en los relojes de mi fe
la campanada de la dicha suma.
Niña, venusto manual:
yo te leía al borde de una estrella,
leyéndote mortífera y vital;
y absorto en el primor de la lectura
pisé el vacío...
                            Y voy en la centella
de una nihilista locura.
Di que me amas. Di: «Te amo»,
dímelo por primera y por última vez.
Sólo: «Te amo». No me digas cuánto.
Son suficientes esas dos palabras.
«Más que a mi salvación», dijo Regania.
«Más que a la primavera», dijo Gonerila.
No sospechaba que mentían.
Di que me amas. Di: «Te amo»,
Cordelia, aunque me mientas,
aunque no sepas que te mientes.

Todo se ha diluido ya en el sueño.
La nave en que pasé la mar,
fustigada por los relámpagos,
era un sueño del que aún no he despertado.
Vivo brezado por un sueño,
inerme en su viscosa telaraña
para toda la eternidad,
si es que la eternidad no es un sueño también.

La tempestad me arrebató al bufón,
al pícaro azotado, deslenguado, insolente,
que era mi compañero, era yo mismo,
reflejo mío en los espejos
cóncavos y convexos, que inventó Valle-Inclán.

Los brazos de las olas me estrellaron
contra el acantilado y un buen día,
ya no recuerdo cuándo, desperté
y hallé sobre la arena
piedras labradas con primor,
sillares corroídos, lamidos y arañados
por los dientes y garras de las algas.
Entonces,
desatado del sueño,
comencé a rehacer el mundo mío,
que se desperezaba bajo un sol diferente.

Y aquí está, al fin, delante de mis ojos;
oigo como jadea
con la disnea del agonizante, del sobremuriente.
Espera a que tu llegues
y me digas «te amo».
Conservo aquí los cielos que viajaron conmigo:
grises torcaces de Bretaña, cobaltos de Provenza,
índigos de Castilla.
Sólo tú eres capaz de devolverles
la transparencia, la luminosidad
y la palpitación que los hacían únicos.
Aquí están aguardándote.

Quiero oírte decir, Cordelia, «te amo».
Son las mismas palabras que salieron
de labios de Regania y Gonerila,
no de su corazón. Más tarde
se deshicieron de mis caballeros,
hijos del huracán, bravucones, borrachos,
lascivos, pendencieros. Regresaron
al silencio y a la nada.
La niebla disolvió sus armaduras,
sus yelmos, sus escudos cincelados,
aquel hervor y desvarío
de águilas, quimeras, unicornios,
efigies, delfines, grifos.
¿Por qué reino cabalgan hoy sus sombras?

Mi reino por un «te amo», sangrándote en la boca;
mi eternidad por sólo dos palabras:
susúrralas o cántalas sobre un fondo real,
-agua de manantial sobre los guijos,
saetas que desgarran con su zumbido el aire.
Así la realidad hará que sean real
en las palabras que nunca pronunciaste
-¡por qué nunca las pronunciaste!-
Y que ultrasuenan en un punto
del tiempo y del espacio
del que tengo que rescatarlas
antes de que me vaya.
Ven a decirme «te amo».
No me importa que duren tus palabras
lo que la humedad de una lágrima
sobre una seda ajada.

En esa paz reconstruida
-sé que es tan sólo un decorado-, represento
mi papel, es decir, finjo.
Porque ya he despertado,
ya no confundo el canto de la alondra
con el del ruiseñor. Y aquí vivo esperándote
contando días y horas y estaciones
y cuando llegues, anunciada
por el sonido de las trompas
de mis fantasmales cazadores,
sé que me reconocerás
por mi corona de oro, a la que han arrancado
sus gemas las urracas ladronas,
por la escudilla de madera que me legó el bufón,
en la que robles y arces depositan
su limosna encendida, su diezmo volandero,
el parpadeo del otoño.

Ven pronto, el plazo ya está a punto
de cumplirse, y no me traigas flores
como si hubiese muerto.
Ven antes de que me hunda
en el torbellino del sueño,
ven a decirme «te amo» y desvanécete enseguida.

Desaparece antes de que te vea
nadando en un licor trémulo y turbio,
como a través de un vídeo esmerilado,
antes de que te diga:
«yo sé que te he querido mucho,
pero no recuerdo quién eres».
Yo soy como un viajero que no duerme
más de una vez en la misma casa.
Dame un beso y olvídame. No intentes retenerme:
Soy el amor que pasa...

Yo soy como una nube que da sombra un instante;
soy una hoguera efímera que no deja una brasa. 1
Yo soy el buen amor y el mal amante.
Dime adiós y sonríeme: Soy el amor que pasa...

Soy el amor que olvida, pero que nunca miente,
que muere sonriendo porque nace feliz.
Yo paso como un ala, fugazmente;
y, aunque se siembre un ala, nunca tendrá raíz.

No intentes retenerme: déjame que me vaya
como el agua de un río, que no vuelve a pasar...
Yo soy como una ola en una playa,
pues las olas se acercan, pero vuelven al mar...

Soy el amor de amar, que nadie odia lo inerme,
que se lleva el perfume, pero deja la flor...
Dime adiós, y no intentes retenerme:
Soy el amor que pasa... ¡pero soy el amor!
¡Para el que sufre como yo he sufrido,
para el cansado corazón ya huérfano,
para el triste ya inerme ante la vida,
bendito agujero *****!

¡Para el que pierde lo que yo he perdido
(luz de su luz y hueso de sus huesos),
para el que ni recobra ya ni olvida,
bendito agujero *****!

¡Agujero sin límites, gigante
y medroso agujero,
cómo intriga a los tontos y a los sabios
la insondabilidad de tu misterio!

¡Mas si hay alma, he de hallar la suya errante;
si no, en la misma nada fundiremos
nuestras áridas bocas, ya sin labios,
en tu regazo, fúnebre agujero!
O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme
Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
Oimè quante ferite,
Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio,
Formesissima donna!
Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia,
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.
Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Perché, perché? Dov'è la forza antica?
Dove l'armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica
0 qual tanta possanza,
Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? Non ti difende
Nessun dè tuoi? L'armi, qua l'armi: ío solo
Combatterà, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl'italici petti il sangue mio.
Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d'armi
E di carri e di voci e di timballi
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di *****
Come tra nebbia lampi.
Nè ti conforti e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L'itata gioventude? 0 numi, o numi
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.
Oh venturose e care e benedette
L'antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre
E voi sempre onorate e gloriose,
0 tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch'alme franche e generose!
Lo credo che le piante e i sassi e l'onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprir le invitte schiere
Dè corpi ch'alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l'Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
E sul colle d'Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salia,
Guardando l'etra e la marina e il suolo.
E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Toglicasi in man la lira:
Beatissimi voi,
Ch'offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
Nell'armi e nè perigli
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
Come si lieta, o figli,
L'ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e, duro?
Parea ch'a danza e non a morte andasse
Ciascun dè vostri, o a splendido convito:
Ma v'attendea lo scuro
Tartaro, e l'ond'a morta;
Nè le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l'aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.
Ma non senza dè Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia;
Tal fra le Perse torme infuriava
L'ira dè greci petti e la virtute.
Vè cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute,
E correr frà primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno;
vè come infusi e tintí
Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d'infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scriva.
Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell'imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
0 benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall'uno all'altro polo.
Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest'alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch'io per la Grecia i mororibondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
Così la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la, vostra duri.
Sí; en tu cerca ruin, que desordena
ya abril con su pasión verdecedora,
al sol más libre ¡oh árbol preso!, dora
tu cúpula broncínea, blanda y plena.

Por ti es fuerte tu cárcel; por ti amena
su soledad inerme. Inmensa aurora
es tu sombra interior, fresca y sonora
en el yermo sin voz que te encadena.

Ave y viento, doble ala y armonía,
vendrán a tu prisión, sin otro anhelo
que el de la libertad y la hermosura...

Espera, ¡oh árbol solo! -¡oh alma mía!-,
seguro en ti e incorporado al cielo,
firme en la excelsitud de tu amargura.
Bestia celeste, sol que el ojo aduerme
frente a mi casa de boscosa espalda;
laxas están las manos en mi falda
y la cabeza contra el hombro inerme.

S obre el azur el toro de oro duerme
y aun chispea su ojo de esmeralda,
para la mar que la neblina encalda
y el duende que propicio suele serme.

Queda un rayo de luz en sus pupilas,
menudas, más menudas que las lilas.
Mi soledad en él se regocija

pues lo ama mi amor porque es pequeño
y suele ir a la mansión del sueño
a traerme un ensueño en su vasija.
Tus otoños me arrullan
en coro de quimeras obstinadas;
vas en mí cual la venda va en la herida;
en bienestar de placidez me embriagas;
la luna lugareña va en tus ojos
¡oh blanda que eres entre todas blanda!
y no sé todavía
qué esperarán de ti mis esperanzas.
Si vas dentro de mí, como una inerme
doncella por la zona devastada
en que ruge el pecado, y si las fieras
atónitas se echan cuando pasas;
si has sido menos que una melodía
suspirante, que flota sobre el ánima,
y más que una pía salutación;
si de tu pecho asciende una fragancia
de limón, cabalmente refrescante
e inicialmente ácida;
si mi voto es que vivas dentro de una
virginidad perenne aromática,
vuélvese un hondo enigma
lo que de ti persigue mi esperanza.
¿Qué me está reservado
de tu persona etérea? ¿Qué es la arcana
promesa de tus ser? Quizá el suspiro
de tu propio existir; quizá la vaga
anunciación penosa de tu rostro;
la cadencia balsámica
que eres tú misma, incienso y voz de armónium
en la tarde llovida y encalmada...
De toda ti me viene
la melodiosa dádiva
que me brindó la escuela
parroquial, en una hora ya lejana,
en que unas voces núbiles
y lentas ensayaban,
en un solfeo cristalino y simple,
una lección de Eslava.
Y de ti y de la escuela
pido el cristal, pido las notas llanas,
para invocarte ¡oscura
y rabiosa esperanza!
con una a colmada de presentes,
con una a impregnada
del licor de un banquete espiritual:
¡ara mansa, ala diáfana, alma blanda,
fragancia casta y ácida!
O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme
Nuda la fronte e nudo il petto mostri,
Oimè quante ferite,
Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio,
Formesissima donna!
Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia,
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.
Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Perché, perché? Dov'è la forza antica?
Dove l'armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica
0 qual tanta possanza,
Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? Non ti difende
Nessun dè tuoi? L'armi, qua l'armi: ío solo
Combatterà, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl'italici petti il sangue mio.
Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d'armi
E di carri e di voci e di timballi
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di *****
Come tra nebbia lampi.
Nè ti conforti e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L'itata gioventude? 0 numi, o numi
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.
Oh venturose e care e benedette
L'antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre
E voi sempre onorate e gloriose,
0 tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch'alme franche e generose!
Lo credo che le piante e i sassi e l'onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprir le invitte schiere
Dè corpi ch'alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l'Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
E sul colle d'Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salia,
Guardando l'etra e la marina e il suolo.
E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Toglicasi in man la lira:
Beatissimi voi,
Ch'offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira
Nell'armi e nè perigli
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
Come si lieta, o figli,
L'ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e, duro?
Parea ch'a danza e non a morte andasse
Ciascun dè vostri, o a splendido convito:
Ma v'attendea lo scuro
Tartaro, e l'ond'a morta;
Nè le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l'aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.
Ma non senza dè Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia;
Tal fra le Perse torme infuriava
L'ira dè greci petti e la virtute.
Vè cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute,
E correr frà primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno;
vè come infusi e tintí
Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d'infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scriva.
Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell'imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro,
0 benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall'uno all'altro polo.
Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest'alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch'io per la Grecia i mororibondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
Così la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la, vostra duri.
Cierro los ojos para disuadirme.
Ahora no es, no puede ser la muerte.
Está el escarabajo a tropezones,
mi sed de ti, la baja tarde inmóvil.

De veras está todo como antes:
el cielo tan inerme,
la misma soledad tan maciza,
la luz que se devora y no comprende.
Todo está como antes
de tu rostro sin nubes,
todo aguarda como antes la anunciada
estación en suspenso,
pero también estaba entonces este pánico
de no saber huir y no saber
alejarme del odio.

De veras todo está
destruido, indescifrable,
como verdad caída inesperadamente
del cielo o del olvido
y si alguien, algo, me golpea los párpados
es una lenta gota empecinada.
Ahora no es, no puede ser la muerte.
Abro los ojos para convencerme.
Perché i celesti danni
Ristori il sole, e perché l'aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
Delle nubi la grave ombra s'avvalla;
Credano il petto inerme
Gli augelli al vento, e la diurna luce
Novo d'amor desio, nova speranza
Nè penetrati boschi e fra le sciolte
Pruine induca alle commosse belve;
Forse alle stanche e nel dolor sepolte
Umane menti riede
La bella età, cui la sciagura e l'atra
Face del ver consunse
Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
Di febo i raggi al misero non sono
In sempiterno? Ed anco,
Primavera odorata, inspiri e tenti
Questo gelido cor, questo ch'amara
Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?
Vivi tu, vivi, o santa
Natura? Vivi e il dissueto orecchio
Della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
Placido albergo e specchio
Furo i liquidi fonti. Arcane danze
D'immortal piede i ruinosi gioghi
Scossero e l'ardue selve (oggi romito
Nido dè venti): e il pastorel ch'all'ombre
Meridiane incerte ed al fiorito
Margo adducea dè fiumi
Le sitibonde agnelle, arguto carme
Sonar d'agresti Pani
Udì lungo le ripe; e tremar l'onda
Vide, e stupì, che non palese al guardo
La faretrata Diva
Scendea nè caldi flutti, e dall'immonda
Polve tergea della sanguigna caccia
Il niveo lato e le verginee braccia.
Vissero i fiori e l'erbe,
Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
Aure, le nubi e la titania lampa
Fur dell'umana gente, allor che ignuda
Te per le piagge e i colli,
Ciprigna luce, alla deserta notte
Con gli occhi intenti il viator seguendo,
Te compagna alla via, te dè mortali
Pensosa immaginò. Che se gl'impuri
Cittadini consorzi e le fatali
Ire fuggendo e l'onte,
Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime
Selve remoto accolse,
Viva fiamma agitar l'esangui vene,
Spirar le foglie, e palpitar segreta
Nel doloroso amplesso.
Perché i celesti danni
Ristori il sole, e perché l'aure inferme
Zefiro avvivi, onde fugata e sparta
Delle nubi la grave ombra s'avvalla;
Credano il petto inerme
Gli augelli al vento, e la diurna luce
Novo d'amor desio, nova speranza
Nè penetrati boschi e fra le sciolte
Pruine induca alle commosse belve;
Forse alle stanche e nel dolor sepolte
Umane menti riede
La bella età, cui la sciagura e l'atra
Face del ver consunse
Innanzi tempo? Ottenebrati e spenti
Di febo i raggi al misero non sono
In sempiterno? Ed anco,
Primavera odorata, inspiri e tenti
Questo gelido cor, questo ch'amara
Nel fior degli anni suoi vecchiezza impara?
Vivi tu, vivi, o santa
Natura? Vivi e il dissueto orecchio
Della materna voce il suono accoglie?
Già di candide ninfe i rivi albergo,
Placido albergo e specchio
Furo i liquidi fonti. Arcane danze
D'immortal piede i ruinosi gioghi
Scossero e l'ardue selve (oggi romito
Nido dè venti): e il pastorel ch'all'ombre
Meridiane incerte ed al fiorito
Margo adducea dè fiumi
Le sitibonde agnelle, arguto carme
Sonar d'agresti Pani
Udì lungo le ripe; e tremar l'onda
Vide, e stupì, che non palese al guardo
La faretrata Diva
Scendea nè caldi flutti, e dall'immonda
Polve tergea della sanguigna caccia
Il niveo lato e le verginee braccia.
Vissero i fiori e l'erbe,
Vissero i boschi un dì. Conscie le molli
Aure, le nubi e la titania lampa
Fur dell'umana gente, allor che ignuda
Te per le piagge e i colli,
Ciprigna luce, alla deserta notte
Con gli occhi intenti il viator seguendo,
Te compagna alla via, te dè mortali
Pensosa immaginò. Che se gl'impuri
Cittadini consorzi e le fatali
Ire fuggendo e l'onte,
Gl'ispidi tronchi al petto altri nell'ime
Selve remoto accolse,
Viva fiamma agitar l'esangui vene,
Spirar le foglie, e palpitar segreta
Nel doloroso amplesso.

— The End —