Submit your work, meet writers and drop the ads. Become a member
tangshunzi Jul 2014
Ogni giorno si arriva a caratterizzare splendido lavoro di Lindsay Madden su SMP è un buon giorno .Ma un giorno in cui si arriva a caratterizzare un intero weekend di festeggiamenti splendidamente fotografato in Turk e Caicos ?Ebbene .non vi è un aggettivo nell'intera dizionario che può descrivere questo.Ma non significa che non si può godere fino all'ultimo abiti da sposa 2014 secondo della loro ripresa amore .cena di benvenuto e matrimonio sotto - e naturalmente c'è ancora di più vi aspetta qui .Oggi è un buon giorno davvero .


Da Lindsay Madden Fotografia .. Chris \u0026Laura ha optato per un amore tiro tropicale prima del giorno delle nozze per documentare il loro tempo speso su Turks e Caicos .Questi vestiti da sposa due erano così felice .rilassato ein amore .Mi è piaciuto molto trascorrere il pomeriggio catturare il loro amore bello sulla morbida sabbia fine e le acque turchesi di Grace Bay .


Da Lindsay Madden Fotografia.Come l'azzurro del cielo ha dato rapidamente il posto a un tramonto pesca.Laura .Chris \u0026i loro ospiti si stabilirono in sul ​​ponte ovest del Seven Stars Resort per Chris e la cena di benvenuto di Laura .Lanterne appeso da una palma all'altra e gli ospiti aveva una vista mozzafiato del tramonto sulla Grace Bay .Questo è stato Chris \u0026Weekend di nozze di Laura calcio d'inizio !Dopo una deliziosa cena tutti hanno fatto la loro strada verso la spiaggia per un falò completo di smores \u0026uno dei principali dance party grazie alla fascia isole Junkanoo .abbiamo FUNK .

Condividi questa splendida galleria

Da Lindsay Madden Photography.Turks e Caicos è un posto davvero speciale per avere un matrimonio di destinazione .Laura \u0026Chris sono nativi newyorkesi e condividere il mio amore \u0026affetto per i Caraibi .Così.quando mi hanno chiesto di volare giù per il paradiso per il loro matrimonio .io .ovviamente .ha detto di sì !Hanno scelto di sposarsi presso il Seven Stars Resort che si trova proprio sulla Grace Bay .La loro cerimonia ha avuto luogo sulla sabbia calda circa un'ora prima del tramonto del sole e il loro cocktail ora / ricevimento si è tenuto in Apollo suite dell'hotel.La suite in sé era un attico con vista sull'oceano e questo ha offerto Chris e ospiti una vista mozzafiato di Laura del tramonto durante l' ora del cocktail e posti in prima fila per la loro sorpresa fuochi d'artificio alla fine della notte .Fiori per Arts ambientali decorato la suite con bellissimi fiori dell'isola \u0026candele.L'atmosfera era calda einvitante che era perfetto per la loro storia intima.Chris \u0026Laura sorrise e si mise a ridere per tutta la giornata



e ** avuto la fortuna di catturare il loro sforzo bel matrimonio di destinazione.
Fotografia : Lindsay Madden Fotografia | Event Planner : NILA Eventi - Lynne Watts | Cake: Seven Stars Resort | Inviti : Jessica Leigh Paperie | Scarpe da sposa : Nine West | Wedding abiti da sposa 2014 Bands : Cartier | Scarpe sposo : Louis Vuitton | vestito dello sposo :su ordine dalla My.Suit | Bikini : lavanderia da Shelli Segal | Dress \u0026 Velo da sposa : Cymbeline | Chris ' Swim Trunks : Vilebrequin | Fuochi d'artificio : Seven Stars Resort | Fiori \u0026 Lighting : Fiori per Arte ambientale { Turks \u0026 Caicos } | Hair \u0026Make Up : Sheque da Shenique | Pantaloni di Laura : Letarte | Località : Seven Stars Resort .Turks e Caicos | Località : West Deck .Seven Stars Resort .Turks e Caicos | Posizione : Grace Bay.Turks e Caicos | Cappello per il sole : Joe FreshLindsay Madden Fotografiaè ñ/ a> e Nila Le destinazioni sono membri del nostro Little Black Book .Scopri come i membri sono scelti visitando la nostra pagina delle FAQ .Lindsay Madden Fotografia vedi portfolio Nila Meta vedi
http://www.belloabito.com/abiti-da-sposa-c-1
http://188.138.88.219/imagesld/td//t35/productthumb/1/986535353535_395299.jpeg
http://www.belloabito.com/goods.php?id=637
Turks e Caicos Wedding Weekend da Lindsay Madden Fotografia_abiti da sposa corti
tangshunzi Jul 2014
Quando Jen Fariello e Pat di disegni floreali unire le forze .le cose sul serio splendidi svolgersi.Basta prendere questo Pollak Vineyards serata .per esempio.E ' la miscela più bella di eleganza meridionale e la bellezza paesaggistica tutto racchiuso in un perfetto giorno d'estate .Vuoi mantenere il partito pinning andando?Abbiamo sooooo molto più seduto abiti da sposa 2014 proprio qui .

Condividi questa splendida galleria ColorsSeasonsSummerSettingsVineyardStylesTraditional

Da Sposa .Sam e io ci siamo incontrati su match.com .Inizialmente abbiamo detto ai nostri genitori un supplenteè èome abbiamo incontratoèstoria .ma abbiamo finito fessing fino alla fine !A quel tempo .era di stanza a Fort Benning a Columbus .GA e io ero a scuola di medicina ad Atlanta .Ci siamo incontrati in una taverna di Atlanta per un drink prima di andare a Braves gioco con un paio di suoi amici .La serata è proseguita con la cena .bevande e.infine.mirtillo frittelle bianco con scaglie di cioccolato a 02:00 .Più tardi .abbiamo capito che nessuno di noi era in realtà affamati di frittelle .al momento.ma eravamo solo divertiti così tanto che ci stavaè èvogliono la notte alla fine !Sam fu infine nuovamente di stanza in North Carolina .e mi è arrivato tardi per la residenza .

Noi amiamo trekking .campeggio e godersi la vita all'aria aperta ogni modo possibile .così cerchiamo di trascorrere quanto più tempo possibile a casa della mia famiglia a Blue Ridge Mountains fuori Charlottesville .Il 4 luglio .siamo arrivati ​​fino alla cima della montagna per griglia fuori e guardare i fuochi d'artificio .Durante il gran finale dei fuochi d'artificio .ha proposto a me con un bellissimo anello che lui stesso aveva progettato con l'aiuto del suo gioielliere città natale .Era lo stesso luogo dove esattamente un anno prima lui prima mi ha detto che mi amava .Il tutto era abbastanza perfetto!

Amiamo le Blue Ridge Mountainsè èt '.dove ci siamo innamorati e ci siamo impegnatiè eo naturalmente abbiamo voluto condividere questo con la nostra famiglia e gli



amici .Pollak è uno dei nostri preferiti cantine della zona .I loro vini sono davvero di prim'ordine e l'ambiente è semplicemente incantevole .
Uno dei nostri obiettivi principali era solo per evidenziare la bellezza naturale delle montagne e Virginia paese del vino .Abbiamo cercato di fare questo selezionando un palato colore neutro e incorporando elementi locali quando possibile.

Progettare la nostra cerimonia si è rivelato essere un processo scoraggiante .ma molto gratificante .Siamo stati in grado di tessere di tradizioni importanti.mentre assicurandosi che fosse personale e significativo per noi .Sam e io amo cruciverba .così abbiamo progettato il nostro cruciverba e incorporati nella nostro programma come un modo per intrattenere gli ospiti .mentre erano in attesa per la cerimonia per cominciare .Ci sono stati alcuni indizi di nozze a tema e curiosità su di noi .Si è rivelato essere un grande successo !

Sam è dal Maine e hoè èda Virginia .e abbiamo cercato di incorporare le cose da entrambe le nostre città di origine per rendere la festa più personale .Abbiamo chiamato la nostra firma bere ilè èAine Virginianè?in quanto caratterizzato mirtillo ***** dalla città natale Sam ' di Freeport .ME e fragole coltivati ​​localmente da Albemarle County .Abbiamo avuto anche una selezione di birre locali e sidro così come alcuni dei favoriti Sam ' dal Maine .

nostre borse di benvenuto erano uno dei miei tanti preferiti.Quasi tutti i nostri ospiti stavano arrivando da fuori di stato .quindi abbiamo vestiti da sposa davvero voluto esprimere la sua gratitudine eravamo di averli lì .Abbiamo imbottigliato limoncello fatto in casa .mia suocera vestiti da sposa - in- fatti piccoli cuscini balsamo .e mia mamma ha fatto tutti i suoi famosi biscotti di pasta frolla .

Oltre a un libro tradizionale struttura .abbiamo avuto una capsula del tempo .dove gli ospiti possono lasciare le note per noi apriamo il nostro anniversario cinque anni .Per favori .** fatto mirtillo cioccolato bianco con gocce di cioccolato pancake mix per i nostri ospiti di portare a casa .Abbiamo divorato questi sul nostro primo appuntamento .così abbiamo pensato che sarebbe stato opportuno offrire a questi ai nostri ospiti .come pure!

La mia foto preferita è stata scattata durante il nostro ultimo ballo della notte.A quel tempo .i miei capelli stava cadendo giù e Sam si era tolto la giacca e la cravatta allentata .Noi didnè ècura.Siamo rimasti così felice !Esausto troppo .ma così felice di essere sposato e circondato da tutti amiamo .Ogni volta che guardo quella foto .ricordi meravigliosi di quel fantastico giorno ritornano impetuosi .

Sam è in campo militare .così abbiamoè èe ha dovuto trascorrere la maggior parte del nostro primo anno di matrimonio a parte .Avendo foto come questa mi fa sentire come se fossi con lui anche quando è dall'altra parte del mondo

Fotografia : Jen Fariello | Pianificazione : . Shindig Matrimoni ed Eventi | Floral Design : Floreale di Southern Blooms By Pat Designs |Abito da sposa : Junko Yoshioka | Cake : Maliha Creations | Inviti : rock Paper Scissors | Cerimonia Sede : Pollak Vineyards | Banco Sede : Pollak Vineyards | Bridesmaids Dresses : Adrianna Papell | Catering : Harvest Moon Catering | Calligraphy : Se è così Inklined | damigella d'onore Regali:Ditty Borse | DJ : Ran Henry | Hair \u0026 Make-up : Jeanne Cusick | Affitto Tenda : Sperry TendeJen Fariello Fotografia e meridionali Blooms di Disegni floreali Pat ' sono membri del nostro Little Black Book .Scopri come i membri sono scelti visitando la nostra pagina delle FAQ .Jen Fariello Fotografia vedi portfolio meridionali Blooms di Flora del Pat ... vedi
http://188.138.88.219/imagesld/td//t35/productthumb/1/4290835353535_391964.jpg
http://www.belloabito.com/abiti-da-sposa-c-1
http://www.belloabito.com/abiti-da-sposa-2014-c-13
Pollak Vineyards Wedding_abiti da sposa on line
Jean Cocteau es un ruiseñor mecánico a quien le ha dado cuerda Ronsard.

Los únicos brazos entre los cuales nos resignaríamos a pasar la vida, son los brazos de las Venus que han perdido los brazos.

Si los pintores necesitaran, como Delacroix, asistir al degüello de 400 odaliscas para decidirse a tomar los pinceles... Si, por lo menos, sólo fuesen capaces de empuñarlos antes de asesinar a su idolatrada Mamá...

Musicalmente, el clarinete es un instrumento muchísimo más rico que el diccionario.

Aunque se alteren todas nuestras concepciones sobre la Vida y la Muerte, ha llegado el momento de denunciar la enorme superchería de las "Meninas" que -siendo las propias "Meninas" de carne y hueso- colgaron un letrerito donde se lee Velázquez, para que nadie descubra el auténtico y secular milagro de su inmortalidad.

Nadie escuchó con mayor provecho que Debussy, los arpegios que las manos traslúcidas de la lluvia improvisan contra el teclado de las persianas.

Las frases, las ideas de Proust, se desarrollan y se enroscan, como las anguilas que nadan en los acuarios; a veces deformadas por un efecto de refracción, otras anudadas en acoplamientos viscosos, siempre envueltas en esa atmósfera que tan solo se encuentra en los acuarios y en el estilo de Proust.

¡La "Olimpia" de Manet está enferma de "mal de Pott"! ¡Necesita aire de mar!... ¡Urge que Goya la examine!...

En ninguna historia se revive, como en las irisaciones de los vidrios antiguos, la fugaz y emocionante historia de setecientos mil crepúsculos y auroras.

¡Las lágrimas lo corrompen todo! Partidarios insospechables de un "régimen mejorado", ¿tenemos derecho a reclamar una "ley seca" para la poesía... para una poesía "extra dry", gusto americano?

Todo el talento del "douannier" Rousseau estribó en la convicción con que, a los sesenta años, fue capaz de prenderse a un biberón.

La disección de los ojos de Monet hubiera demostrado que Monet poseía ojos de mosca; ojos forzados por innumerables ojitos que distinguen con nitidez los más sutiles matices de un color pero que, siendo ojos autónomos, perciben esos matices independientemente, sin alcanzar una visión sintética de conjunto.

Las frases de Oscar Wilde no necesitan red. ¡Lástima que al realizar sus más arriesgadas acrobacias, nos dejen la incertidumbre de su ****!

El cúmulo de atorrantismo y de burdel, de uso y abuso de limpiabotas, de sensiblería engominada, de ojo en compota, de retobe y de tristeza sin razón -allí está la pampa... más allá el indio... la quena... el tamboril -que se espereza y canta en los acordes del tango que improvisa cualquier lunfardo.

Es necesario procurarse una vestimenta de radiógrafo (que nos proteja del contacto demasiado brusco con lo sobrenatural), antes de aproximarnos a los rayos ultravioletas que iluminan los paisajes de Patinir.

No hay crítico comparable al cajón de nuestro escritorio.

Entre otras... ¡la más irreductible disidencia ortográfica! Ellos: Padecen todavía la superstición de las Mayúsculas.

Nosotros: Hace tiempo que escribimos: cultura, arte, ciencia, moral y, sobre todo y ante todo, poesía.

Los cubistas cometieron el error de creer que una manzana era un tema menos literario y frugal que las nalgas de madame Recamier.

¡Sin pie, no hay poesía! -exclaman algunos. Como si necesitásemos de esa confidencia para reconocerlos.

Esos tinteros con un busto de Voltaire, ¿no tendrán un significado profundo? ¿No habrá sido Voltaire una especie de Papa (*****) de la tinta?

En música, al pleonasmo se le denomina: variación.

Seurat compuso los más admirables escaparates de juguetería.

La prosa de Flaubert destila un sudor tan frío que nos obliga a cambiarnos de camiseta, si no podemos recurrir a su correspondencia.

El silencio de los cuadros del Greco es un silencio ascético, maeterlinckiano, que alucina a los personajes del Greco, les desequilibra la boca, les extravía las pupilas, les diafaniza la nariz.

Los bustos romanos serían incapaces de pensar si el tiempo no les hubiera destrozado la nariz.

No hay que admirar a Wagner porque nos aburra alguna vez, sino a pesar de que nos aburra alguna vez.

Europa comienza a interesarse por nosotros. ¡Disfrazados con las plumas o el chiripá que nos atribuye, alcanzaríamos un éxito clamoroso! ¡Lástima que nuestra sinceridad nos obligue a desilusionarla... a presentarnos como somos; aunque sea incapaz de diferenciarnos... aunque estemos seguros de la rechifla!

Aunque la estilográfica tenga reminiscencias de lagrimatorio, ni los cocodrilos tienen derecho a confundir las lágrimas con la tinta.

Renán es un hombre tan bien educado que hasta cuando cree tener razón, pretende demostrarnos que no la tiene.

Las Venus griegas tienen cuarenta y siete pulsaciones. Las Vírgenes españolas, ciento tres.

¡Sepamos consolarnos! Si las mujeres de Rubens pesaran 27 kilos menos, ya no podríamos extasiarnos ante los reflejos nacarados de sus carnes desnudas.

Llega un momento en que aspiramos a escribir algo peor.

El ombligo no es un órgano tan importante como imaginan ustedes... ¡Señores poetas!

¿Estupidez? ¿Ingenuidad? ¿Política?... "Seamos argentinos", gritan algunos... sin advertir que la nacionalidad es algo tan fatal como la conformación de nuestro esqueleto.

Delatemos un onanismo más: el de izar la bandera cada cinco minutos.

Lo primero que nos enseñan las telas de Chardin es que, para llegar a la pulcritud, al reposo, a la sensatez que alcanzó Chardin, no hay más remedio que resignarnos a pasar la vida en zapatillas.

Facilísimo haber previsto la muerte de Apollinaire, dado que el cerebro de Apollinaire era una fábrica de pirotecnia que constantemente inventaba los más bellos juegos de artificio, los cohetes de más lindo color, y era fatal que al primero que se le escapara entre el fango de la trinchera, una granada le rebanara el cráneo.

Los esclavos miguelangelescos poseen un olor tan iodado, tan acre que, por menos paladar que tengamos basta gustarlo alguna vez para convencerse de que fueron esculpidos por la rompiente. (No me refiero a los del Louvre; modelados por el mar, un día de esos en que fabrica merengues sobre la arena).

¡La opinión que se tendrá de nosotros cuando sólo quede de nosotros lo que perdura de la vieja China o del viejo Egipto!

¡Impongámosnos ciertas normas para volver a experimentar la complacencia ingenua de violarlas! La rehabilitación de la infidelidad reclama de nosotros un candor semejante. ¡Ruboricémonos de no poder ruborizarnos y reinventemos las prohibiciones que nos convengan, antes de que la libertad alcance a esclavizarnos completamente!

El cemento armado nos proporciona una satisfacción semejante a la de pasarnos la mano por la cara, después de habernos afeitado.

¡Los vidrios catalanes y las estalactitas de Mallorca con que Anglada prepara su paleta!

Los cubistas salvaron a la pintura de las corrientes de aire, de los rayos de sol que amenazaban derretirla pero -al cerrar herméticamente las ventanas, que los impresionistas habían abierto en un exceso de entusiasmo- le suministraron tal cúmulo de recetas, una cantidad tan grande de ventosas que poco faltó para que la asfixiaran y la dejasen descarnada, como un esqueleto.

Hay poetas demasiado inflamables. ¿Pasan unos senos recién inaugurados? El cerebro se les incendia. ¡Comienza a salirles humo de la cabeza!

"La Maja Vestida" está más desnuda que la "maja desnuda".

Las telas de Velázquez respiran a pleno pulmón; tienen una buena tensión arterial, una temperatura normal y una reacción Wasserman negativa.

¡Quién hubiera previsto que las Venus griegas fuesen capaces de perder la cabeza!

Hay acordes, hay frases, hay entonaciones en D'Annunzio que nos obligan a perdonarle su "fiatto", su "bella voce", sus actitudes de tenor.

Azorín ve la vida en diminutivo y la expresa repitiendo lo diminutivo, hasta darnos la sensación de la eternidad.

¡El Arte es el peor enemigo del arte!... un fetiche ante el que ofician, arrodillados, quienes no son artistas.

Lo que molesta más en Cézanne es la testarudez con que, delante de un queso, se empeña en repetir: "esto es un queso".

El espesor de las nalgas de Rabelais explica su optimismo. Una visión como la suya, requiere estar muellemente sentada para impedir que el esqueleto nos proporcione un pregusto de muerte.

La arquitectura árabe consiguió proporcionarle a la luz, la dulzura y la voluptuosidad que adquiere la luz, en una boca entreabierta de mujer.

Hasta el advenimiento de Hugo, nadie sospechó el esplendor, la amplitud, el desarrollo, la suntuosidad a que alcanzaría el genio del "camelo".

Es tanta la mala educación de Pió Baroja, y es tan ingenua la voluptuosidad que siente Pío Baroja en ser mal educado, que somos capaces de perdonarle la falta de educación que significa llamarse: Pío Baroja.

No hay que confundir poesía con vaselina; vigor, con camiseta sucia.

El estilo de Barres es un estilo de onda, un estilo que acaba de salir de la peluquería.

Lo único que nos impide creer que Saint Saens haya sido un gran músico, es haber escuchado la música de Saint Sáéns.

¿Las Vírgenes de Murillo?

Como vírgenes, demasiado mujeres.

Como mujeres, demasiado vírgenes.

Todas las razones que tendríamos para querer a Velázquez, si la única razón del amor no consistiera en no tener ninguna.

Los surtidores del Alhambra conservan la versión más auténtica de "Las mil y una noches", y la murmuran con la fresca monotonía que merecen.

Si Rubén no hubiera poseído unas manos tan finas!... ¡Si no se las hubiese mirado tanto al escribir!...

La variedad de cicuta con que Sócrates se envenenó se llamaba "Conócete a ti mismo".

¡Cuidado con las nuevas recetas y con los nuevos boticarios! ¡Cuidado con las decoraciones y "la couleur lócale"! ¡Cuidado con los anacronismos que se disfrazan de aviador! ¡Cuidado con el excesivo dandysmo de la indumentaria londinense! ¡Cuidado -sobre todo- con los que gritan: "¡Cuidado!" cada cinco minutos!

Ningún aterrizaje más emocionante que el "aterrizaje" forzoso de la Victoria de Samotracia.

Goya grababa, como si "entrara a matar".

El estilo de Renán se resiente de la flaccidez y olor a sacristía de sus manos... demasiado aficionadas "a lavarse las manos".

La Gioconda es la única mujer viviente que sonríe como algunas mujeres después de muertas.

Nada puede darnos una certidumbre más sensual y un convencimiento tan palpable del origen divino de la vida, como el vientre recién fecundado de la Venus de Milo.

El problema más grave que Goya resolvió al pintar sus tapices, fue el dosaje de azúcar; un terrón más y sólo hubieran podido usarse como tapas de bomboneras.

Los rizos, las ondulaciones, los temas "imperdibles" y, sobre todo, el olor a "vera violetta" de las melodías italianas.

Así como un estiló maduro nos instruye -a través de una descripción de Jerusalén- del gesto con que el autor se anuda la corbata, no existirá un arte nacional mientras no sepamos pintar un paisaje noruego con un inconfundible sabor a carbonada.

¿Por qué no admitir que una gallina ponga un trasatlántico, si creemos en la existencia de Rimbaud, sabio, vidente y poeta a los 12 años?

¡El encarnizamiento con que hundió sus pitones, el toro aquél, que mató a todos los Cristos españoles!

Rodin confundió caricia con modelado; espasmo con inspiración; "atelier" con alcoba.

Jamás existirán caballos capaces de tirar un par de patadas que violenten, más rotundamente, las leyes de la perspectiva y posean, al mismo tiempo, un concepto más equilibrado de la composición, que el par de patadas que tiran los heroicos percherones de Paolo Uccello.

Nos aproximamos a los retratos del Greco, con el propósito de sorprender las sanguijuelas que se ocultan en los repliegues de sus golillas.

Un libro debe construirse como un reloj, y venderse como un salchichón.

Con la poesía sucede lo mismo que con las mujeres: llega un momento en que la única actitud respetuosa consiste en levantarles la pollera.

Los críticos olvidan, con demasiada frecuencia, que una cosa es cacarear, otra, poner el huevo.

Trasladar al plano de la creación la fervorosa voluptuosidad con que, durante nuestra infancia, rompimos a pedradas todos los faroles del vecindario.

¡Si buena parte de nuestros poetas se convenciera de que la tartamudez es preferible al plagio!

Tanto en arte, como en ciencia, hay que buscarle las siete patas al gato.

El barroco necesitó cruzar el Atlántico en busca del trópico y de la selva para adquirir la ingenuidad candorosa y llena de fasto que ostenta en América.

¿Cómo dejar de admirarla prodigalidad y la perfección con que la mayoría de nuestros poetas logra el prestigio de realizar el vacío absoluto?

A fuerza de gritar socorro se corre el riesgo de perder la voz.

En los mapas incunables, África es una serie de islas aisladas, pero los vientos hinchan sus cachetes en todas direcciones.

Los paréntesis de Faulkner son cárceles de negros.

Estamos tan pervertidos que la inhabilidad de lo ingenuo nos parece el "sumun" del arte.

La experiencia es la enfermedad que ofrece el menor peligro de contagio.

En vez de recurrir al whisky, Turner se emborracha de crepúsculo.

Las mujeres modernas olvidan que para desvestirse y desvestirlas se requiere un mínimo de indumentaria.

La vida es un largo embrutecimiento. La costumbre nos teje, diariamente, una telaraña en las pupilas; poco a poco nos aprisiona la sintaxis, el diccionario; los mosquitos pueden volar tocando la corneta, carecemos del coraje de llamarlos arcángeles, y cuando deseamos viajar nos dirigimos a una agencia de vapores en vez de metamorfosear una silla en un trasatlántico.

Ningún Stradivarius comparable en forma, ni en resonancia, a las caderas de ciertas colegialas.

¿Existe un llamado tan musicalmente emocionante como el de la llamarada de la enorme gasa que agita Isolda, reclamando desesperadamente la presencia de Tristán?

Aunque ellos mismos lo ignoren, ningún creador escribe para los otros, ni para sí mismo, ni mucho menos, para satisfacer un anhelo de creación, sino porque no puede dejar de escribir.

Ante la exquisitez del idioma francés, es comprensible la atracción que ejerce la palabra "merde".

El adulterio se ha generalizado tanto que urge rehabilitarlo o, por lo menos, cambiarle de nombre.

Las distancias se han acortado tanto que la ausencia y la nostalgia han perdido su sentido.

Tras todo cuadro español se presiente una danza macabra.

Lo prodigioso no es que Van Gogh se haya cortado una oreja, sino que conservara la otra.

La poesía siempre es lo otro, aquello que todos ignoran hasta que lo descubre un verdadero poeta.

Hasta Darío no existía un idioma tan rudo y maloliente como el español.

Segura de saber donde se hospeda la poesía, existe siempre una multitud impaciente y apresurada que corre en su busca pero, al llegar donde le han dicho que se aloja y preguntar por ella, invariablemente se le contesta: Se ha mudado.

Sólo después de arrojarlo todo por la borda somos capaces de ascender hacia nuestra propia nada.

La serie de sarcófagos que encerraban a las momias egipcias, son el desafío más perecedero y vano de la vida ante el poder de la muerte.

Los pintores chinos no pintan la naturaleza, la sueñan.

Hasta la aparición de Rembrandt nadie sospechó que la luz alcanzaría la dramaticidad e inagotable variedad de conflictos de las tragedias shakespearianas.

Aspiramos a ser lo que auténticamente somos, pero a medida que creemos lograrlo, nos invade el hartazgo de lo que realmente somos.

Ambicionamos no plagiarnos ni a nosotros mismos, a ser siempre distintos, a renovarnos en cada poema, pero a medida que se acumulan y forman nuestra escueta o frondosa producción, debemos reconocer que a lo largo de nuestra existencia hemos escrito un solo y único poema.
Invitación al llanto.  Esto es un llanto,
      ojos, sin fin, llorando,
escombrera adelante, por las ruinas
        de innumerables días.
Ruinas que esparce un cero -autor de nadas,
obra del hombre-, un cero, cuando estalla.
Cayó ciega.  La soltó,
la soltaron, a seis mil
metros de altura, a las cuatro.
¿Hay ojos que le distingan
a la Tierra sus primores
desde tan alto?
¿Mundo feliz? ¿Tramas, vidas,
que se tejen, se destejen,
mariposas, hombres, tigres,
amándose y desamándose?
No. Geometría.  Abstractos
colores sin habitantes,
embuste liso de atlas.
Cientos de dedos del viento
una tras otra pasaban
las hojas
-márgenes de nubes blancas-
de las tierras de la Tierra,
vuelta cuaderno de mapas.
Y a un mapa distante, ¿quién
le tiene lástima? Lástima
de una pompa de jabón
irisada, que se quiebra;
o en la arena de la playa
un crujido, un caracol
roto
sin querer, con la pisada. 
Pero esa altura tan alta
que ya no la quieren pájaros,
le ciega al querer su causa
con mil aires transparentes.
Invisibles se le vuelven
al mundo delgadas gracias:
La azucena y sus estambres,
colibríes y sus alas,
las venas que van y vienen,
en tierno azul dibujadas,
por un pecho de doncella.
¿Quién va a quererlas
si no se las ve de cerca?
Él hizo su obligación:
lo que desde veinte esferas
instrumentos ordenaban,
exactamente: soltarla
al momento justo.                                   Nada.
Al principio
no vio casi nada.  Una
mancha, creciendo despacio,
blanca, más blanca, ya cándida.
¿Arrebañados corderos?
¿Vedijas, copos de lana?
Eso sería...
¡Qué peso se le quitaba!
Eso sería: una imagen
que regresa.
Veinte años, atrás, un niño.
Él era un niño -allá atrás-
que en estíos campesinos
con los corderos jugaba
por el pastizal.  Carreras,
topadas, risas, caídas
de bruces sobre la grama,
tan reciente de rocío
que la alegría del mundo
al verse otra vez tan claro,
le refrescaba la cara.
Sí; esas blancuras de ahora,
allá abajo
en vellones dilatadas,
no pueden ser nada malo:
rebaños y más rebaños
serenísimos que pastan
en ancho mapa de tréboles.
Nada malo.  Ecos redondos
de aquella inocencia doble
veinte años atrás: infancia
triscando con el cordero
y retazos celestiales,
del sol niño con las nubes
que empuja, pastora, el alba.
 
Mientras,
detrás de tanta blancura
en la Tierra -no era mapa-
en donde el cero cayó,
el gran desastre empezaba.Muerto inicial y víctima primera:
lo que va a ser y expira en los umbrales
del ser. ¡Ahogado coro de inminencias!
Heráldicas palabras voladoras
-«¡pronto!», «¡en seguida!», «¡ya!»- nuncios de dichas
colman el aire, lo vuelven promesa.
Pero la anunciación jamás se cumple:
la que aguardaba el éxtasis, doncella,
se quedará en su orilla, para siempre
entre su cuerpo y Dios alma suspensa.
¡Qué de esparcidas ruinas de futuro
por todo alrededor, sin que se vean!
Primer beso de amantes incipientes.
¡Asombro! ¿Es obra humana tanto gozo?
¿Podrán los labios repetirlo?  Vuelan
hacia el segundo beso; más que beso,
claridad quieren, buscan la certeza
alegre de su don de hacer milagros
donde las bocas férvidas se encuentran.
¿ Por qué si ya los hálitos se juntan
los labios a posarse nunca llegan?
Tan al borde del beso, no se besan.
Obediente al ardor de un mediodía
la moza muerde ya la fruta nueva.
La boca anhela el más celado jugo;
del anhelo no pasa.  Se le niega
cuando el labio presiente su dulzura
la condensada dentro, primavera,
pulpas de mayo, azúcares de junio,
día a día sumados a la almendra.
Consumación feliz de tanta ruta,
último paso, amante, pie en el aire,
que trae amor adonde amor espera.
Tiembla Julieta de Romeos próximos,
ya abre el alma a Calixto, Melibea.
Pero el paso final no encuentra suelo.
¿Dónde, si se hunde el mundo en la tiniebla,
si ya es nada Verona, y si no hay huerto?
De imposibles se vuelve la pareja.
¿Y esa mano -¿de quién?-, la mano trunca
blanca, en el suelo, sin su brazo, huérfana,
que buscas en el rosal la única abierta,
y cuando ya la alcanza por el tallo
se desprende, dejándose a la rosa,
sin conocer los ojos de su dueña?
¡Cimeras alegrías tremolantes,
gozo inmediato, pasmo que se acerca:
la frase más difícil, la penúltima,
la que lleva, derecho, hasta el acierto,
perfección vislumbrada, nunca nuestra!
¡Imágenes que inclinan su hermosura
sobre espejos que nunca las reflejan!
¡Qué cadáver ingrávido: una mañana
que muere al filo de su aurora cierta!
Vísperas son capullos. Sí, de dichas;
sí, de tiempo, futuros en capullos.
¡Tan hermosas, las vísperas!
                                                          ¡Y muertas!¿Se puede hacer más daño, allí en la Tierra?
Polvo que se levanta de la ruina,
humo del sacrificio, vaho de escombros
dice que sí se puede.  Que hay más pena.
Vasto ayer que se queda sin presente,
vida inmolada en aparentes piedras.
¡Tanto afinar la gracia de los fustes
contra la selva tenebrosa alzados
de donde el miedo viene al alma, pánico!
Junto a un altar de azul, de ola y espuma,
el pensar y la piedra se desposan;
el mármol, que era blanco, es ya blancura.
Alborean columnas por el mundo,
ofreciéndole un orden a la aurora.
No terror, calma pura da este bosque,
de noble savia pórtico.
Vientos y vientos de dos mil otoños
con hojas de esta selva inmarcesible
quisieran aumentar sus hojarascas.
Rectos embisten, curvas les engañan.
Sin botín huyen. ¿Dónde está su fronda?
No pájaros, sus copas, procesiones
de doncellas mantienen en lo alto,
que atraviesan el tiempo, sin moverse.
Este espacio que no era más que espacio
a nadie dedicado, aire en vacío,
la lenta cantería lo redime
piedras poniendo, de oro, sobre piedras,
de aquella indiferencia sin plegaria.
Fiera luz, la del sumo mediodía,
claridad, toda hueca, de tan clara
va aprendiendo, ceñida entre altos muros
mansedumbres, dulzuras; ya es misterio.
Cantan coral callado las ojivas.
Flechas de alba cruzan por los santos
incorpóreos, no hieren, les traen vida
de colores.  La noche se la quita.
La bóveda, al cerrarse abre más cielo.
Y en la hermosura vasta de estos límites
siente el alma que nada la termina.
Tierra sin forma, pobre arcilla; ahora
el torno la conduce hasta su auge:
suave concavidad, nido de dioses.
Poseidón, Venus, Iris, sus siluetas
en su seno se posan.  A esta crátera
ojos, siempre sedientos, a abrevarse
vienen de agua de mito, inagotable.
Guarda la copa en este fondo oscuro
callado resplandor, eco de Olimpo.
Frágil materia es, mas se acomodan
los dioses, los eternos, en su círculo.
Y así, con lentitud que no descansa,
por las obras del hombre se hace el tiempo
profusión fabulosa.  Cuando rueda
el mundo, tesorero, va sumando
-en cada vuelta gana una hermosura-
a belleza de ayer, belleza inédita.
Sobre sus hombros gráciles las horas
dádivas imprevistas acarrean.
¿Vida?  Invención, hallazgo, lo que es
hoy a las cuatro, y a las tres no era.
Gozo de ver que si se marchan unas
trasponiendo la ceja de la tarde,
por el nocturno alcor otras se acercan.
Tiempo, fila de gracias que no cesa.
¡Qué alegría, saber que en cada hora
algo que está viniendo nos espera!
Ninguna ociosa, cada cual su don;
ninguna avara, todo nos lo entregan.
Por las manos que abren somos ricos
y en el regazo, Tierra, de este mundo
dejando van sin pausa
novísimos presentes: diferencias.
¿Flor?  Flores. ¡Qué sinfín de flores, flor!
Todo, en lo igual, distinto: primavera.
Cuando se ve la Tierra amanecerse
se siente más feliz.  La luz que llega
a estrecharle las obras que este día
la acrece su plural. ¡Es más diversa!El cero cae sobre ellas.
Ya no las veo, a las muchas,
las bellísimas, deshechas,
en esa desgarradora
unidad que las confunde,
en la nada, en la escombrera.
Por el escombro busco yo a mis muertos;
más me duele su ser tan invisibles.
Nadie los ve: lo que se ve son formas
truncas; prodigios eran, singulares,
que retornan, vencidos, a su piedra.
Muertos añosos, muertos a lo lejos,
cadáveres perdidos,
en ignorado osario perfecciona
la Tierra, lentamente, su esqueleto.
Su muerte fue hace mucho.  Esperanzada
en no morir, su muerte. Ánima dieron
a masas que yacían en canteras.
Muchas piedras llenaron de temblores.
Mineral que camina hacia la imagen,
misteriosa tibieza, ya corriendo
por las vetas del mármol,
cuando, curva tras curva, se le empuja
hacia su más, a ser pecho de ninfa.
Piedra que late así con un latido
de carne que no es suya, entra en el juego
-ruleta son las horas y los días-:
el jugarse a la nada, o a lo eterno
el caudal de sus formas confiado:
el alma de los hombres, sus autores.
Si es su bulto de carne fugitivo,
ella queda detrás, la salvadora
roca, hija de sus manos, fidelísima,
que acepta con marmóreo silencio
augusto compromiso: eternizarlos.
Menos morir, morir así: transbordo
de una carne terrena a bajel pétreo
que zarpa, sin más aire que le impulse
que un soplo, al expirar, último aliento.
Travesía que empieza, rumbo a siempre;
la brújula no sirve, hay otro norte
que no confía a mapas su secreto;
misteriosos pilotos invisibles,
desde tumbas los guían, mareantes
por aguja de fe, según luceros.
Balsa de dioses, ánfora.
Naves de salvación con un polícromo
velamen de vidrieras, y sus cuentos
mármol, que flota porque vista de Venus.
Naos prodigiosas, sin cesar hendiendo
inmóviles, con proas tajadoras
auroras y crepúsculos, espumas
del tumbo de los años; años, olas
por los siglos alzándose y rompiendo.
Peripecia suprema día y noche,
navegar tesonero
empujado por racha que no atregua:
negación del morir, ansia de vida,
dando sus velas, piedras, a los vientos.
Armadas extrañísimas de afanes,
galeras, no de vivos, no de muertos,
tripulaciones de querencias puras,
incansables remeros,
cada cual con su remo, lo que hizo,
soñando en recalar en la celeste
ensenada segura, la que está
detrás, salva, del tiempo.¡Y todos, ahora, todos,
qué naufragio total, en este escombro!
No tibios, no despedazados miembros
me piden compasión, desde la ruina:
de carne antigua voz antigua, oigo.
Desgarrada blancura, torso abierto,
aquí, a mis pies, informe.
Fue ninfa geométrica, columna.
El corazón que acaban de matarle,
Leucipo, pitagórico,
calculador de sueños, arquitecto,
de su pecho lo fue pasando a mármoles.
Y así, edad tras edad, en estas cándidas
hijas de su diseño
su vivir se salvó.  Todo invisible,
su pálpito y su fuego.
Y ellas abstractos bultos se fingían,
pura piedra, columnas sin misterio.
Más duelo, más allá: serafín trunco,
ángel a trozos, roto mensajero.
Quebrada en seis pedazos
sonrisa, que anunciaba, por el suelo.
Entre el polvo guedejas
de rubia piedra, pelo tan sedeño
que el sol se lo atusaba a cada aurora
con sus dedos primeros.
Alas yacen usadas a lo altísimo,
en barro acaba su plumaje célico.
(A estas plumas del ángel desalado
encomendó su vuelo
sobre los siglos el hermano Pablo,
dulce monje cantero).
Sigo escombro adelante, solo, solo.
Hollando voy los restos
de tantas perfecciones abolidas.
Años, siglos, por siglos acudieron
aquí, a posarse en ellas; rezumaban
arcillas o granitos,
linajes de humedad, frescor edénico.
No piso la materia; en su pedriza
piso al mayor dolor, tiempo deshecho.
Tiempo divino que llegó a ser tiempo
poco a poco, mañana tras su aurora,
mediodía camino de su véspero,
estío que se junta con otoño,
primaveras sumadas al invierno.
Años que nada saben de sus números,
llegándose, marchándose sin prisa,
sol que sale, sol puesto,
artificio diario, lenta rueda
que va subiendo al hombre hasta su cielo.
Piso añicos de tiempo.
Camino sobre anhelos hechos trizas,
sobre los días lentos
que le costó al cincel llegar al ángel;
sobre ardorosas noches,
con el ardor ardidas del desvelo
que en la alta madrugada da, por fin,
con el contorno exacto de su empeño...
Hollando voy las horas jubilares:
triunfo, toque final, remate, término
cuando ya, por constancia o por milagro,
obra se acaba que empezó proyecto.
Lo que era suma en un instante es polvo.
¡Qué derroche de siglos, un momento!
No se derrumban piedras, no, ni imágenes;
lo que se viene abajo es esa hueste
de tercos defensores de sus sueños.
Tropa que dio batalla a las milicias
mudas, sin rostro, de la nada; ejército
que matando a un olvido cada día
conquistó lentamente los milenios.
Se abre por fin la tumba a que escaparon;
les llega aquí la muerte de que huyeron.
Ya encontré mi cadáver, el que lloro.
Cadáver de los muertos que vivían
salvados de sus cuerpos pasajeros.
Un gran silencio en el vacío oscuro,
un gran polvo de obras, triste incienso,
canto inaudito, funeral sin nadie.
Yo sólo le recuerdo, al impalpable,
al NO dicho a la muerte, sostenido
contra tiempo y marea: ése es el muerto.
Soy la sombra que busca en la escombrera.
Con sus siete dolores cada una
mil soledades vienen a mi encuentro.
Hay un crucificado que agoniza
en desolado Gólgota de escombros,
de su cruz separado, cara al cielo.
Como no tiene cruz parece un hombre.
Pero aúlla un perro, un infinito perro
-inmenso aullar nocturno ¿desde dónde?-,
voz clamante entre ruinas por su Dueño.
El azul estaba inmovilizado entre el rojo y el *****.
El viento iba y venía por la página del llano,
encendía pequeñas fogatas, se revolcaba en la ceniza,
salía con la cara tiznada gritando por las esquinas,
el viento iba y venía abriendo y cerrando puertas y ventanas,
iba y venía por los crepusculares corredores del cráneo,
el viento con mala letra y las manos manchadas de tinta
escribía y borraba lo que había escrito sobre la pared del día.
El sol no era sino el presentimiento del color amarillo,
una insinuación de plumas, el grito futuro del gallo.
La nieve se había extraviado, el mar había perdido el habla,
era un rumor errante, unas vocales en busca de una palabra.

El azul estaba inmovilizado, nadie lo miraba, nadie lo oía:
el rojo era un ciego, el ***** un sordomudo.
El viento iba y venía preguntando ¿por dónde anda Joan Miró?
Estaba ahí desde el principio pero el viento no lo veía:
inmovilizado entre el azul y el rojo, el ***** y el amarillo,
Miró era una mirada transparente, una mirada de siete manos.
Siete manos en forma de orjeas para oír a los siete colores,
siete manos en forma de pies para subir los siete escalones del arco iris,
siete manos en forma de raíces para estar en todas partes y a la vez en Barcelona.

Miró era una mirada de siete manos.
Con la primera mano golpeaba el tambor de la luna,
con la segunda sembraba pájaros en el jardín del viento,
con la tercera agitaba el cubilete de las constelaciones,
con la cuarta escribía la leyenda de los siglos de los caracoles,
con la quinta plantaba islas en el pecho del verde,
con la sexta hacía una mujer mezclando noche y agua, música y electricidad,
con la séptima borraba todo lo que había hecho y comenzaba de nuevo.

El rojo abrió los ojos, el ***** dijo algo incomprensible y el azul se levantó.
Ninguno de los tres podía creer lo que veía:
¿eran ocho gavilanes o eran ocho paraguas?
Los ocho abrieron las alas, se echaron a volar y desaparecieron por un vidrio roto.

Miró empezó a quemar sus telas.
Ardían los leones y las arañas, las mujeres y las estrellas,
el cielo se pobló de triángulos, esferas, discos, hexaedros en llamas,
el fuego consumió enteramente a la granjera planetaria plantada en el centro del espacio,
del montón de cenizas brotaron mariposas, peces voladores, roncos fonógrafos,
pero entre los agujeros de los cuadros chamuscados
volvían el espacio azul y la raya de la golondrina, el follaje de nubes y el bastón florido:
era la primavera que insistía, insistía con ademanes verdes.
Ante tanta obstinación luminosa Miró se rascó la cabeza con su quinta mano,
murmurando para sí mismo: Trabajo como un jardinero.

¿Jardín de piedras o de barcas? ¿Jardín de poleas o de bailarinas?
El azul, el ***** y el rojo corrían por los prados,
las estrellas andaban desnudas pero las friolentas colinas se habían metido debajo de las sábanas,
había volcanes portátiles y fuegos de artificio a domicilio.
Las dos señoritas que guardan la entrada a la puerta de las percepciones, Geometría y Perspectiva,
se habían ido a tomar el fresco del brazo de Miró, cantando Une étoile caresse le sein d'une négresse.

El viento dio la vuelta a la página del llano, alzó la cara y dijo, ¿Pero dónde anda Joan Miró?
Estaba ahí desde el principio y el viento no lo veía:
Miró era una mirada transparente por donde entraban y salían atareados abecedarios.

No eran letras las que entraban y salían por los túneles del ojo:
eran cosas vivas que se juntaban y se dividían, se abrazaban y se mordían y se dispersaban,
corrían por toda la página en hileras animadas y multicolores, tenían cuernos y rabos,
unas estaban cubiertas de escamas, otras de plumas, otras andaban en cueros,
y las palabras que formaban eran palpables, audibles y comestibles  pero impronunciables:
no eran letras sino sensaciones, no eran sensaciones sino Transfiguraciones.

¿Y todo esto para qué? Para trazar una línea en la celda de un solitario,
para iluminar con un girasol la cabeza de luna del campesino,
para recibir a la noche que viene con personajes azules y pájaros de fiesta,
para saludar a la muerte con una salva de geranios,
para decirle buenos días al día que llega sin jamás preguntarle de dónde viene y adónde va,
para recordar que la cascada es una muchacha que baja las escaleras muerta de risa,
para ver al sol y a sus planetas meciéndose en el trapecio del horizontes,
para aprender a mirar y para que las cosas nos miren y entren y salgan por nuestras miradas,
abecedarios vivientes que echan raíces, suben, florecen, estallan, vuelan, se disipan, caen.

Las miradas son semillas, mirar es sembrar, Miró trabaja como un jardinero
y con sus siete manos traza incansable -círculo y rabo, ¡oh! y ¡ah!-
la gran exclamación con que todos los días comienza el mundo.
Yo que sólo canté de la exquisita
partitura del íntimo decoro,
alzo hoy la voz a la mitad del foro
a la manera del tenor que imita
la gutural modulación del bajo
para cortar a la epopeya un gajo.
Navegaré por las olas civiles
con remos que no pesan, porque van
como los brazos del correo chuan
que remaba la Mancha con fusiles.
Diré con una épica sordina:
la Patria es impecable y diamantina.
Suave Patria: permite que te envuelva
en la más honda música de selva
con que me modelaste por entero
al golpe cadencioso de las hachas,
entre risas y gritos de muchachas
y pájaros de oficio carpintero.Patria: tu superficie es el maíz,
tus minas el palacio del Rey de Oros,
y tu cielo, las garzas en desliz
y el relámpago verde de los loros.
El Niño Dios te escrituró un establo
y los veneros del petróleo el diablo.
Sobre tu Capital, cada hora vuela
ojerosa y pintada, en carretela;
y en tu provincia, del reloj en vela
que rondan los palomos colipavos,
las campanadas caen como centavos.
Patria: tu mutilado territorio
se viste de percal y de abalorio.
Suave Patria: tu casa todavía
es tan grande, que el tren va por la vía
como aguinaldo de juguetería.
Y en el barullo de las estaciones,
con tu mirada de mestiza, pones
la inmensidad sobre los corazones.
¿Quién, en la noche que asusta a la rana,
no miró, antes de saber del vicio,
del brazo de su novia, la galana
pólvora de los juegos de artificio?
Suave Patria: en tu tórrido festín
luces policromías de delfín,
y con tu pelo rubio se desposa
el alma, equilibrista chuparrosa,
y a tus dos trenzas de tabaco sabe
ofrendar aguamiel toda mi briosa
raza de bailadores de jarabe.
Tu barro suena a plata, y en tu puño
su sonora miseria es alcancía;
y por las madrugadas del terruño,
en calles como espejos se vacía
el santo olor de la panadería.
Cuando nacemos, nos regalas notas,
después, un paraíso de compotas,
y luego te regalas toda entera
suave Patria, alacena y pajarera.
Al triste y al feliz dices que sí,
que en tu lengua de amor prueben de ti
la picadura del ajonjolí.
¡Y tu cielo nupcial, que cuando truena
de deleites frenéticos nos llena!
Trueno de nuestras nubes, que nos baña
de locura, enloquece a la montaña,
requiebra a la mujer, sana al lunático,
incorpora a los muertos, pide el Viático,
y al fin derrumba las madererías
de Dios, sobre las tierras labrantías.
Trueno del temporal: oigo en tus quejas
crujir los esqueletos en parejas,
oigo lo que se fue, lo que aún no toco
y la hora actual con su vientre de coco.
Y oigo en el brinco de tu ida y venida,
oh trueno, la ruleta de mi vida.                (Cuauhtémoc)Joven abuelo: escúchame loarte,
único héroe a la altura del arte.
Anacrónicamente, absurdamente,
a tu nopal inclínase el rosal;
al idioma del blanco, tú lo imantas
y es surtidor de católica fuente
que de responsos llena el victorial
zócalo de cenizas de tus plantas.
No como a César el rubor patricio
te cubre el rostro en medio del suplicio;
tu cabeza desnuda se nos queda,
hemisféricamente de moneda.
Moneda espiritual en que se fragua
todo lo que sufriste: la piragua
prisionera , al azoro de tus crías,
el sollozar de tus mitologías,
la Malinche, los ídolos a nado,
y por encima, haberte desatado
del pecho curvo de la emperatriz
como del pecho de una codorniz.Suave Patria: tú vales por el río
de las virtudes de tu mujerío.
Tus hijas atraviesan como hadas,
o destilando un invisible alcohol,
vestidas con las redes de tu sol,
cruzan como botellas alambradas.
Suave Patria: te amo no cual mito,
sino por tu verdad de pan bendito;
como a niña que asoma por la reja
con la blusa corrida hasta la oreja
y la falda bajada hasta el huesito.
Inaccesible al deshonor, floreces;
creeré en ti, mientras una mejicana
en su tápalo lleve los dobleces
de la tienda, a las seis de la mañana,
y al estrenar su lujo, quede lleno
el país, del aroma del estreno.
Como la sota moza, Patria mía,
en piso de metal, vives al día,
de milagros, como la lotería.
Tu imagen, el Palacio Nacional,
con tu misma grandeza y con tu igual
estatura de niño y de dedal.
Te dará, frente al hambre y al obús,
un higo San Felipe de Jesús.
Suave Patria, vendedora de chía:
quiero raptarte en la cuaresma opaca,
sobre un garañón, y con matraca,
y entre los tiros de la policía.
Tus entrañas no niegan un asilo
para el ave que el párvulo sepulta
en una caja de carretes de hilo,
y nuestra juventud, llorando, oculta
dentro de ti el cadáver hecho poma
de aves que hablan nuestro mismo idioma.
Si me ahogo en tus julios, a mí baja
desde el vergel de tu peinado denso
frescura de rebozo y de tinaja,
y si tirito, dejas que me arrope
en tu respiración azul de incienso
y en tus carnosos labios de rompope.
Por tu balcón de palmas bendecidas
el Domingo de Ramos, yo desfilo
lleno de sombra, porque tú trepidas.
Quieren morir tu ánima y tu estilo,
cual muriéndose van las cantadoras
que en las ferias, con el bravío pecho
empitonando la camisa, han hecho
la lujuria y el ritmo de las horas.
Patria, te doy de tu dicha la clave:
sé siempre igual, fiel a tu espejo diario;
cincuenta veces es igual el AVE
taladrada en el hilo del rosario,
y es más feliz que tú, Patria suave.
Sé igual y fiel; pupilas de abandono;
sedienta voz, la trigarante faja
en tus pechugas al vapor; y un trono
a la intemperie, cual una sonaja:
la carretera alegórica de paja.
John Desde Jun 2013
EL AGUA.*
Alba circulatoria deposita en boca fresadora
incontroladas gotas trazándose en el radio corporal
y flores comestibles en acueducto curvo disparan
las aguas como fuente dividida a la desembocadura
de la boca
que sonora diamantada graba en caricias de regadío
y sumerge en hábitat de lago la reunión química que eres.

Desandada en los abrigos inunda
labial esqueje,
en el sol del secano, espiga cerrándose
que expande granada con el humo breve
en camino recortado ajardinado hasta observatorio umbilical.

Solar verde con fondo marítimo
y el sol crudo penetra
efectuando fotosíntesis de lupa en las gotas.

Cadena floral circunvala
el artificio de la leche protectora
y pule suavidad sentada.
En un hilo laberíntico se construye
flor de los algodones nuevos
y vuelve el agua al juego de los brillos
a flote,

a fondo anclada en peso emerge cerámica náutica
que removiendo visualiza celosía de la seda
y transparencia de ala delta ante el beso de diluvio
indudable.

SafeCreative.org
Creative Commons Reconocimiento-NoComercial-SinObraDerivada 3.0
John Desde
http://www.johndesde.blogspot.com
Cuando todas las cosas existían sin nombre,
bajo el azul intacto de los cielos serenos,
Jehová le dio músculos poderosos al hombre,
y a la mujer los senos.

Esa, sin duda alguna, fue su obra más alta;
esa ha sido, sin duda, su más perfecta obra:
con ella, a la mujer nada le sobra;
sin ella, a la mujer todo le falta.

Senos que pugnan por erguir sus conos,
rebeldemente erectos tras la tela;
senos agudos como dos enconos,
como dos rutas blancas que nacen de una estela.

Senos que ostentan terciopelos rubios,
como la piel de los melocotones,
y que fingen minúsculos Vesubios,
creciendo horizontales sobre los corazones.

Tímidos senos de las colegialas,
que, en su gemela redondez de frutos,
sugieren temblorosos nacimientos
de alas a la salida de los Institutos.

Senos de novia casta, traviesamente austeros,
que excitan en la sombra los goces solitarios
de los adolescentes y de los marineros,
de los seminaristas y de los presidiarios.

Toscos pechos de aldeana,
que estiran los cordones del corpiño;
pechos en los que triunfa la carne firme y sana,
la incitación del hombre y la salud del niño.

Pechos macizos de las solteronas,
que, en los hondos escotes del verano,
exhiben sus prestigios de inexploradas zonas
y su angustia de surco que floreciera en vano.
Senos exangües de la obrera,
senos de ayunos largos y de higienes precarias;
senos que disfrutaron de fugaz primavera
sobre los mostradores de madera
o entre el resuello de las maquinarias.

Senos ajados de la prostituta,
que la ruda caricia despojó de su seda,
tal como se despoja de corteza una fruta,
después de haber pagado por ella una moneda.
Senos de extrañas razas y de remotos climas,
bajo lunas de nieve, bajo soles de brasa...
Senos que son dos inquietantes rimas,
senos que son dos temblorosas cimas
en la mujer que llega y en la mujer que pasa...

Senos que, en el más noble sacrificio,
en las maternidades magullaron sus flores,
y, en una primavera de artificio,
aún logran el consuelo de un esplendor ficticio
con la falsa apariencia de los ajustadores.

Senos que se alzan sólidos tras la blusa ceñida,
o bajo una inconsútil transparencia de encaje;
senos que fueron lo mejor de un viaje,
y que son, casi siempre, lo mejor de la vida.
Sí: hizo bien Jehová, cuando, a la clara
fulguración primera de los cielos serenos,
le otorgó a la mujer la gloria de los senos,
¡y los ojos al hombre, para que los mirara!
¡Con qué artificio tan divino sales
de esa camisa de esmeralda fina,
oh rosa celestial alejandrina,
coronada de granos orientales!

Ya en rubíes te enciendes, ya en corales,
ya tu color a púrpura se inclina
sentada en esa basa peregrina
que forman cinco puntas desiguales.

Bien haya tu divino autor, pues mueves
a su contemplación el pensamiento,
a aun a pensar en nuestros años breves.

Así la verde edad se esparce al viento,
y así las esperanzas son aleves
que tienen en la tierra el fundamento...
Las he visto varadas en la playa.
Los niños han abandonado
carruseles, montañas rusas,
nubes de azúcar, blanca o rosa, palomitas de maíz
y suspendidos de sus cometas de colores
han llegado a la orilla. Atrás quedó
la música crispada de los altavoces.
Ahora escuchan otra música más sosegada y misteriosa:
jadeo de olas, disnea de cetáceos agonizantes,
chillidos de las aves marinas,
estremecedora polifonía.

Los niños, desconectados de lo fabuloso,
saben que es imposible que a Jonás
se lo tragase una ballena,
como cuenta la Santa Biblia,
porque al final de la caverna amenazadora
una garganta angosta permite sólo el paso
de minúsculos pececillos, plancton, polen marino
que atravesaron las barbas filtradoras.
(Ignoran, sin embargo, que estas barbas
fueron antaño utilizadas
para acentuar la delgadez del talle de las damas.
¡Sólo Dios sabe qué habrá sido de ellas,
dónde estarán ahora pudriéndose!)
Son, desde luego, extraños pero no
infrecuentes  
estos suicidios colectivos.
Los biólogos, oceanógrafos, ecologistas
nada pueden hacer por reintegrar a los cetáceos
a su hábitat, a su medio natural;
no sólo por su peso  y su volumen, sino
porque están decididas  -resignadas-
a morir. (Se barajan hipótesis
diferentes y contradictorias: alguna,
tal vez, resolverá el enigma).
Hay quienes atribuyen el suceso
a una avería, una desconexión
-por el momento indemostrable-
en el sofisticado sistema de radar
que utilizan en sus desplazamientos.
¡Quién sabe cuál será la causa
de esta agonía a la que yo asistí
en las arenas de Long Island!
Yo sí lo sé. Yo he descifrado
el, para los demás, indescifrable código,
- ¡oh mi piedra Rosetta de estrellas y de olas!-
Los ballenatos, los jóvenes, los útiles,
los que regresan a la mar
tras culminar estas expediciones
hablaban en sus asambleas nocturnas,
mientras dormían las ballenas madres,
de la necesidad imperiosa de librarse de este lastre
de ancianas jubiladas,
de toneladas de disnea y sordera.
Con fuegos o aguas de artificio,
pirotecnia, acuatecnia,
comunicaron su resolución:
«Nosotros os conduciremos
a unas playas calientes,
a unos lugares a los que no llegan
tempestades, témpanos, balleneros;
allí disfrutaréis del merecido descanso
después de tantas aventuras,
tantos afanes, tantos riesgos».
Las dejaron varadas en la arena.
«Hasta mañana», les dijeron,
sabiendo que no volverían.
«Hasta mañana».
Misericordioso e implacable
el sol les reseca la piel repujada de algas.
Muy pronto albatros y gaviotas se ensañarán
con estas moles de agonía,
de grasa y carne putrefacta.
El sol es chupado por el horizonte,
se hunde poco a poco en él
despidiéndose con su rayo verde.
Luego es la noche, y otras noches.
El faro intermitentemente
pasa su lengua de luz piadosa sobre la arena.
El mar agita sus espejos negros.
Sobre la seda o terciopelo funeral
chisporrotean las estrellas fugaces,
las ascuas de la luna de azafrán.
El zumbido de las abejas marinas,
el crujido del oleaje que clava sus colmillos
en las rocas de azabache y cristal
resuena en los oídos agonizantes
de las viejas ballenas,
festín de la desolación, el silencio, el olvido, la sombra.
«Hasta mañana». Fue el último mensaje.
Y ya no habrá mañana.
Ahora las moribundas,
ciegas y sordas tienen la mirada del recuerdo
puesta en sus ballenatos, indefensos
frente al testuz terrible de las olas heladas,
los témpanos, las hélices, los arpones,
desvalidos, sin rumbo
por esos mares de Dios.
Esa palabra que jamás asoma
a tu idioma cantado de preguntas,
esa, desfalleciente,
que se hiela en el aire de tu voz,
sí, como una respiración de flautas
contra un aire de vidrio evaporada,
¡mírala, ay, tócala!
¡mírala ahora!
en esta exangüe bruma de magnolias,
en esta nimia floración de vaho
que -ensombrecido en luz el ojo agónico
y a funestos pestillos
anclado el tenue ruido de las alas-
guarda un ángel de sueño en la ventana.
¡Qué muros de cristal, amor, qué muros!
Ay ¿para qué silencios de agua?
Esa palabra, sí, esa palabra
que se coagula en la garganta
como un grito de ámbar
¡Mírala, ay, tócala!
¡mírala ahora!
Mira que, noche a noche, decantada
en el filtro de un áspero silencio,
quedóse a tanto enmudecer desnuda,
hiriente e inequívoca
-así en la entraña de un reloj la muerte,
así la claridad en una cifra-
para gestar este lenguaje nuestro,
inaudible,
que se abre al tacto insomne
en la arena, en el pájaro, en la nube,
cuando ***** de oráculos retruena
el panorama de la profecía.
¿Quién, si ella no,
pudo fraguar este universo insigne
que nace como un héroe en tu boca?
¡Mírala, ay, tócala,
mírala ahora,
incendiada en un eco de nenúfares!
¿No aquí su angustia asume la inocencia
de una hueca retórica de lianas?
Aquí, entre líquenes de orfebrería
que arrancan de minúsculos canales
¿no echó a tañer al aire
sus cándidas mariposas de escarcha?
Qué, en lugar de esa fe que la consume
hasta la transparencia del destino
¿no aquí -escapada al dardo
tenaz de la estatura-
se remonta insensata una palmera
para estallar en su ficción de cielo,
maestra en fuegos no,
mas en puros deleites de artificio?
Esa palabra, sí, esa palabra,
esa, desfalleciente,
que se ahoga en el humo de una sombra,
esa que gira -como un soplo- cauta
sobre bisagras de secreta lama,
esa en que el aura de la voz se astilla,
desalentada,
como si rebotara
en una bella úlcera de plata,
esa que baña sus vocales ácidas
en la espuma de las palomas sacrificadas,
esa que se congela hasta la fiebre
cuando no, ensimismada, se calcina
en la brusca intemperie de una lágrima,
¡mírala, ay, tócala!
¡mírala ahora!
¡mírala, ausente toda de palabra,
sin voz, sin eco, sin idioma, exacta,
mírala cómo traza
en muros de cristal amores de agua!
Ama tu verso, y ama sabiamente tu vida,
la estrofa que más vive, siempre es la más vivida.
Un mal verso supera la más perfecta prosa,
aunque en prosa y en verso digas la misma cosa.

Así como el exceso de virtud hace el vicio,
el exceso de arte llega a ser artificio.
Escribe de tal modo que te entienda la gente,
igual si es ignorante que si es indiferente.

Cumple la ley suprema de desdeñarlas todas,
sobre el cuerpo desnudo no envejecen las modas.
Y sobre todo, en arte y vida, sé diverso,
pues sólo así tu mente revivirá en tu verso.
Yo he vivido mi vida: si fue larga o fue corta,
si fue alegre o fue triste, ya casi no me importa.
Y aquí estoy, esperando. No sé bien lo que espero,
si el amor o la muerte, -lo que pase primero.
Algo tuve algún día; lo perdí de algún modo,
y me dará lo mismo cuando lo pierda todo.
Pero no me lamento de mi mala fortuna,
pues me queda un palacio de cristal en la luna,
y por andar errante, por vivir el momento,
son tan buenos amigos mi corazón y el viento.
Por eso y otras me deja indiferente,
aquí, allá y dondequiera, lo que diga la gente.
-¿Trampas?- Pues sí, hice algunas;
pero, mal jugador, yo perdí más que nadie
con mis trampas de amor.
-¿Pecados?- Sí, aunque leves, de esos que Dios perdona,
porque, a pesar de todo, Dios no es mala persona.
-¿Mentiras?- Dije muchas, y de bello artificio,
pero que en un poeta son cosas del oficio.
Y en los casos dudosos, si hice bien o mal,
ya arreglaremos cuentas en el Juicio Final.
Eso es todo. He vivido.
La vida que me queda puede tener dos caras,
igual que una moneda: una que es de oro puro
-la cara del pasado- y otra -la del presente-
que es de plomo dorado.
Por lo demás, ya es tarde; pero no tengo prisa,
y esperaré la muerte con mi mejor sonrisa,
y seguiré viviendo de la misma manera,
que es vivir cada instante como una vida entera,
mientras siguen andando, de un modo parecido,
los hombres con el tiempo y el tiempo hacia el olvido.
Todo aquel artificio de que antaño hice gala,
ya no inquieta mi anhelo, cada día más puro:
tras la ciencia del trino vino el golpe del ala;
bajo el frágil follaje cuando el fruto maduro.

Abrí surcos de arena en un gesto de audacia,
con el gesto de un río que logró ser torrente; 1
y hoy se yergue en mis surcos una espiga de gracia,
y el torrente se aquieta con ternuras de fuente.

Y es que al cabo nutro de la savia divina,
y ya sé lo que valen la raíz y la fronda,
porque he visto que un árbol poco a poco se empina,
y, a medida que crece, su raíz es más honda.

Y por eso en las brisas ya no fluye mi trino,
pues mis alas prefieren abarcar más distancia:
y, a manera de un árbol en mitad de un camino,
doy a todos un poco de quietud y fragancia.

Si los vientos sacuden mi verdor, no me inmuto.
Si algún hacha me quiere derribar, no me asombra.
Y hundo más mis raíces, para así dar más fruto,
y alzo más mis ramajes, para así dar más sombra.

— The End —